Il bosco biologico

 

Sfiorando con le mani il reticolato elettrico, una lampada in stile quasi liberty ogni trenta metri, mi accorgo che lo spazio in cui sono è minuziosamente pianificato, grazie all'addizione di aree parcellizzate coi magazzini, le baracche, gli alloggi per ufficiali. Un perfetto rettangolo.

"Lordine rettangolare del lager offriva parecchi vantaggi alle SS. Lo spazio poteva essere riempito fino all'ultimo centimetro, evitando curve, archi e angoli morti. Inoltre l'intera area poteva essere sorvegliata più facilmente, grazie alle torrette di guardia poste ai quattro vertici del campo, dalle quali si godeva di un angolo visuale e di tiro di 90 gradi. " (Wolfgang Sofsky) Gli edifici vennero costruiti a due o tre piani per evitare che qualcuno guardasse al di sopra del muro di cinta. All'interno esistevano spazi vietati, zone magnetiche. Chi s'avvicinava al filo spinato diventava il bersaglio delle guardie appostate sulle torrette. I prigionieri non potevano attraversare certi luoghi: in particolare confini e ingressi, simboli della segregazione, erano prerogativa esclusiva delle SS.

Ancora oggi Auschwitz è una città dentro la città:

il fantasma della polis, ma senza dialettica, quasi che l'antica attrazione teutonica per le radici greche si sia trasformata in un delirio d'onnipotenza. I Block sono allineati uno accanto all'altro, come nel lego della nostra infanzia. In quello della morte, dove venivano decise e realizzate le fucilazioni, si riproduce l'ordine dell'intera struttura. Le celle di punizione, chiamati "tubi" (cm 90 x 90), rappresentano la cellula germinale del campo. I reclusi vi erano costretti anche quattro per volta, nel groviglio di braccia e gambe intrecciate fra loro, come un polipo umano.

Siamo in un incastro di concatenazioni, schemi, codici prestabiliti, teso a sancire la manipolazione dei corpi, la fine del ragionamento, il trionfo dell'imperativo categorico. La stessa norma, puntigliosamente ribadita, di fatto offriva carta bianca a chi era chiamato ad applicarla. Gli aguzzini usurpavano l'apparente spirito egualitario del precetto utilizzandolo come un'arma impropria. L'estrema classificazione della vita concentrazionaria tendeva a reprimere ogni originalità idiosincratica. Le tracce ancora visibili di questo idealismo stremato, orfano dei suoi maestri, sono il protocollo, il registro, il gesto dello scrivano, il timbro d'approvazione dell'apparato burocratico.

Osservo nelle bacheche la bella calligrafia dei fogli in cui si annotava la contabilità del massacro. Le stesse righe del vestiario dei prigionieri, appeso al muro come un oggetto dell'arte povera, inducono a riflettere sulla pretesa nazista di poter predeterminare gli spazi della mente attraverso l'identificazione di quelli fisici. Nel momento in cui i fenomeni diventano idee c'è sempre il rischio che esploda un cratere nella natura umana, in quanto le categorie razionali non possono né conoscere, né contrastare la mutevolezza del mondo: a un certo punto si sfaldano come il ferro se viene avvicinato alla fiamma ossidrica.

Auschwitz porta a un'incandescenza unica lo stereotipo concettuale della guarnigione armata: l'illusione, tipicamente europea, di poter separare amici e nemici. In mezzo ai due fili spinati si forma un corridoio di ghiaia grossa, quasi la citazione del ponte levatoio che, nei secoli precedenti, creava la dimora speciale del castello fortificato. L'uomo indifeso, inerme, dentro lo spazio attrezzato del campo non poteva essere che una larva. Altri uomini lo fissavano dall'alto, se ne prendevano gioco. Era come se osservassero se stessi, la vulnerabile provvisorietà che avevano rimosso. Le sentinelle di guardia alle torrette non dovevano sorvegliare, sullo stile della scolta greca da cui pure discendevano, l'orizzonte lontano, per annunciare pericolosi attacchi o attesi ritorni: i riflettori erano girati in modo nuovo, all'interno del recinto. Il controllo delle attività programmate eseguite nel Lager diventava un'auscultazione ansiosa, nevrotica che il sistema metteva in atto.

Secondo Giorgio Agamben il campo di concentramento sancisce l'irruzione dello Stato nello spazio sacro dell'individuo. La sovranità assolutistica non prevedeva questo passaggio: la nuda vita naturale del suddito era indifferente dal punto di vista politico. Le carte dei diritti democratici elaborate dagli Stati-nazione, legando la cittadinanza alla nascita -un tempo distinte - avrebbero creato le premesse per estendere alla nuda vita degli uomini il luogo della decisione sovrana.

"Il campo è il più assoluto spazio biopolitico che sia mai stato realizzato, in cui il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senz'alcuna mediazione. " (Giorgio Agamben) Questa "pura vita", malgrado tutti gli sforzi, non poteva essere oggettivata: al contrario - lo compresero alcuni sopravvissuti - essa passava dall'una all'altra schiera " il furore astratto dei carcerieri e la supina accettazione delle vittime entravano in rapporto come gemelli siamesi creando, da una parte, i presupposti per le più sconvolgenti abiezioni, favorendo, dall'altra, reconditi meccanismi difensivi.

Diversi furono infatti i modi in cui i deportati in-troiettarono la loro tremenda esperienza. Primo Levi, in I sommersi e i salvati, riferendosi a un analogo episodio descritto da Solzenicyn, racconta quello che chiama "un fenomeno curioso": l'ambizione del lavoro ben svolto. Il muratore di Fossano, che odiava la Germania, quando fu costretto a tirar su muri a protezione contro le bombe, li fece con scrupolo e mestiere, mettendo a frutto tutte le sue capacità. In ogni uomo esiste almeno un frammento spirituale davvero inattaccabile che affonda le radici nella cieca volontà esecutiva: è il bosco biologico, ancestrale patrimonio della specie cui apparteniamo.

Questo nucleo originario può essere fonte delle più crudeli nefandezze, quando crea le premesse dell'alienazione professionale, o determina l'ottusità operativa del burocrate nazista; tuttavia, nel medesimo brodo primordiale, si formano i cromosomi della vera ribellione. La cosiddetta dignità del lavoro ben svolto, ad esempio, è alla base dell'amministratore coscienzioso, il quale spedisce a Monaco o Berlino la lista dei gassati, ma s'identifica anche nell'istinto di sopravvivenza del lavoratore coatto coinvolgendo quindi non tanto il singolo individuo, quanto l'intera specie.

Il muratore di Fossano, autocancellandosi in una tecnica, chiamava in causa gli aguzzini assai più di quanto essi non l'avessero reso schiavo: era come se la sua calcina e i suoi mattoni rappresentassero il grido di protesta proveniente dalla carne di tutti i presenti, seviziatori e seviziati. E allora io mi chiedo: se questa forza, nei momenti cruciali, si dimostra così resistente, perentoria, impossibile da svellere; se l'energica tenacia, l'incrollabile perseveranza che ci tiene abbarbicati al dirupo degli anni sfida a tal punto la triste consapevolezza di finitudine che abbiamo, perché non riuscire a metterla sempre in circolo, nelle piccole quotidianità, fra un'azione e l'altra, in modo da rendere meno vuota la nostra vita?

Wolfgang Sofsky ha illustrato la serialità spazioorganizzativa dei campi nazisti. La regolamentazione dei movimenti, il tabù dei luoghi di sterminio e quello del reticolato, l'addensamento fisico nei blocchi, la scansione del falso lavoro, tesa a distruggere la continuità del tempo interiore: tutto era progettato in modo da poter realizzare l'esercizio del potere assoluto, fine a se stesso.

La tensione invisibile del campo s'identificava nell'automatismo dei comportamenti collettivi: reclusi e persecutori, intrisi di questa medesima sostanza, garantivano le condizioni di possibilità del sistema concentrazionario.

Bruno Bettelheim, in II cuore vigile, ricorda che qualsiasi atto di autodeterminazione veniva severamente punito. Il detenuto non era libero neppure di suicidarsi: i Kapos glielo impedivano. La punizione aveva una forte connotazione metafisica.

"Una volta, per esempio, un prigioniero che doveva essere fustigato venne liberato prima che la punizione fosse stata eseguita. Un nuovo arrivato ricevette il numero di identificazione dell'altro, e pochi giorni dopo gli venne somministrata la punizione che avrebbe dovuto toccare a quello, poiché tutta la faccenda era stata registrata sotto il numero che ora egli portava. " (Bruno Bettelheim, 1988) La guida tedesca spiega ai ragazzi il funzionamento delle camere a gas. Pedino il gruppo nelle stanze della baracca in cui siamo, come un detective introspettivo. M'interessa la reazione degli adolescenti. Un aspetto importante, nella vasta letteratura sui criminali di guerra, è il complesso rapporto affettivo che si determina fra i parenti più stretti dei responsabili: la maggioranza dei figli, delle mogli, dei nipoti tende a rimuovere le colpe dei padri, dei mariti, dei nonni, esercitando una comprensibile autodifesa psicologica.

Gitta Sereny intervistò alcuni sottufficiali delle SS che furono agli ordini di Stangl nel campo di sterminio di Treblinka. Non i più feroci e sadici, ma quelli che agirono materialmente nelle camere a gas: Gustav Mùnzberger, che spintonava con la frusta i gruppi di condannati; Otto Horn, addetto alle graticole. Parlò con loro all'inizio degli anni Settanta quando, dopo aver scontato la pena, erano due anziani in pensione. Horn viveva da solo a Berlino Ovest, in un appartamento ben riscaldato. Miinzberger, originario dei Sudeti, al confine con la Sassonia, si era stabilito con la moglie e il figlio Horst, sposato, a Oberammergau, in Baviera, celebre per un Festival della Passione. Sembra che quest'ultimo, allo scopo di svolgere il suo compito, dovesse ubriacarsi con discreta frequenza.

L'autrice lo definisce così: "Uno dei proverbiali denti dell'ingranaggio"'.

Alla domanda della Sereny riguardo ai contatti personali, le relazioni che intercorrevano fra lui e i prigionieri, egli rispose: "Con quelli nudi? Come? Oh... vuoi dire con gli ebrei da lavoro? No, avevano i loro Kapos, erano loro che li organizzavano. " "E poi c'erano i vostri ucraini] no?" interloquì in fretta la moglie.

"Già, anche gli ucraini. Noi non dovevamo far niente. Non c'era proprio niente da fare, per noi. Sì, dovevamo semplicemente essere lì, questo è vero; nient'altro. " Poco prima, la Sereny aveva notato, in quel vecchio stanco, improvvisi guizzi d'energia, tali da farlo apparire come poteva essere stato nel passato.

"Si trattava di un'energia fisica, non morale, né spirituale" Queste sono righe cruciali.

Nella vecchia SS sento il suono di latta del secolo cui appartengo. La carica cieca dell'uomo che spintonava la gente, nuda e disperata, dentro le camere a gas, è ancora presente nell'anziano Miinzberger che, infastidito, risponde a quella che considera una specie di giornalista cittadina a caccia di notizie morbose. E la moglie, mentre cerca di affrettare il superamento dell'ostacolo maggiore, dimostra di essere stata sempre partecipe, con la sua amorevole comprensione, dell'automatismo esecutivo del marito. La frammentazione, di cui parla Todorov in Di fronte all'estremo, cioè quel corto circuito, così frequente nei Lager, fra idea e gesto, appare pienamente in atto nella figura di Mùnzberger. È la medesima smemoratezza, lo stesso pozzo scuro, l'identico rumore sordo di animale nella foresta che Peter Weiss ha saputo ricostruire nel suo oratorio in undici canti: Listruttoria.

Dal 20 dicembre 1963 al 20 agosto 1965 si svolse a Francoforte sul Meno un processo contro un gruppo di SS e di funzionali di Auschwitz. Nel corso di 183 giornate vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali scelti tra i sopravvissuti del Lager. Per la prima volta la Repubblica Federale tedesca affrontava in modo istituzionale il proprio passato. Peter Weiss fu spettatore di molte sedute, prese appunti, consultò i verbali degli interrogatori. Ricostruì in versi liberi la carrellata di testimonianze, accuse e difese, riportando le deposizioni letterali che furono rese dai diretti protagonisti. È un'opera entrata nella storia del teatro moderno.

Credo di poterla mettere al centro della mia riflessione per l'operazione stilistica compiuta dall'autore. L'abolizione totale di qualsiasi segno interpuntivo, insieme agli enjambements, contribuisce a creare una forte tensione emotiva perché enfatizza lo stacco drammatico fra l'enormità di ciò che viene riferito e l'apparente limite giuridico in cui s'inquadra. Mentre si susseguono, come spettrali nenie, i canti della banchina, dell'altalena, della parete nera, del fenolo e dei forni, con le parole realmente pronunciate in aula di tribunale, sempre più si fanno largo, nella coscienza di chi legge, i veri assenti: i punti interrogativi ed esclamativi. Come una madre che non ha più lacrime per piangere.

Nella sua combinazione modulare delle deposizioni rese ai giudici, Weiss è stato capace di entrare con uno speciale scafandro poetico-strutturale nell'interiorità spezzata che caratterizza la coscienza moderna. Mi è piaciuto pensarlo alla stessa stregua del palombaro che si lascia calare giù a picco in una profondità psichica per lungo tempo abbandonata dai cosiddetti maestri spirituali - lasciata a se stessa per malinteso desiderio espressivo -, come se in quelle voragini l'uomo potesse diventare più libero e felice. Giunto laggiù, egli non trova che relitti, rovine: gli uomini si sono divorati l'uno con l'altro. Invece del cielo capovolto di cui, a inizio secolo, vagheggiava Andre Breton, agli occhi del palombaro è apparso uno spettacolo terrificante.

"Dalle 1000 alle 2000 persone stipate in uno spogliatoio lungo circa 40 metri, alto poco più di 2 metri: uomini, donne, vecchi, giovani, bambini. 10 minuti impiegava questa gente per spogliarsi. Quelli del Sonderkommando gridavano svelti svelti. Ualtro locale era ancora più piccolo, lungo poco più di 30 metri. Venivano calcati dentro, la porta avvitata. Restavano fra le quattro pareti di cemento, in mezzo ai pilastri. Il gas usciva dall'alto. Provocava vertigini e forte nausea, paralizzava le funzioni respiratorie. Dopo mezz'ora si aprivano le porte. I cadaveri giacevano uno addosso all'altro. Sotto lattanti, bimbi malati, sopra le donne, sopra ancora gli uomini più forti. Unghie confitte, pelle dilaniata, visi gonfi, maculati. Vomito, feci, orina, sangue mestruale. Il Kommando-sgombero con gli idranti divideva i corpi, li trascinava sul montacarichi. Prima della cremazione specialisti di prim'ordine provvedevano con leve e tenaglie a strappare denti d'oro e ponti insieme a pezzi di mascella. Ai forni lavoravano 100 uomini in due turni. La ditta Topf& Figli migliorò i propri impianti grazie all'esperienza acquisita, come dichiarò nel suo brevetto dopo la guerra. Ogni cremazione durava un'ora. In 24 ore si bruciavano più di 3000 uomini. Nell'estate del 1944 si annientarono più di 20.000 uomini al giorno. Le ceneri venivano gettate nel fiume." (Liberamente tratto dal Canto dei forni, traduzione di Giorgio Zampa) Lo sterminio non si realizzò soltanto per mezzo delle camere a gas e i forni crematori. Bisogna mettere in conto anche le epidemie lasciate deflagrare, gli isolamenti nei Bunker dove la libertà dei carnefici era assoluta, gli inferni delle carceri all'interno del campo, il canile di Dachau, le nicchie di Natzweiler, i murati vivi di Sachsenhausen, i crani trafitti, la gente legata per i testicoli, le malattie del Lager: la febbre petecchiale, il noma, ulcerazione cancrenosa che buca le guance, il pemfigo, dermatite bollosa, spesso a contenuto purulento.

Gli spiriti religiosi hanno elaborato risposte plausibili sulle quali sono scivolato come un pattinatore inesperto senza riuscire a rialzarmi: secondo la mistica ebraica, quanto è accaduto nella Germania del XX secolo sarebbe una delle estreme conseguenze che derivano dal ritrarsi di Dio per concedere all'uomo la libertà. È la tesi che Hans Jonas ha fatto sua opponendosi alle interpretazioni nichilistiche della soluzione finale. Come sostenne Gershom Scholem, spiegando la dottrina dello Tzimtzùm elaborata da Yitzhak Luria, Dio, nel momento in cui garantì la possibilità del mondo, rese vacante nel suo essere una zona da cui si ritrasse; una specie di mistico spazio primordiale al quale Egli potesse ritornare nell'atto della creazione e della rivelazione. Carlo Angelino, che ha curato l'edizione italiana del saggio di Jonas, // concetto di Dio dopo Auschwitz, richiama questa idea, evidenziando pure il legame con la celebre pagina di Elie Wiesel, compresa in La notte, nella quale il bambino impiccato, agonizzante sulla forca, sarebbe "'una cifra dell'assoluta impotenza di Dio, cioè della sua impossibilità di intervenire nella storia del mondo".

Jurgen Moltmann invece, nell'ottica evangelica, ribalta la presunta assenza di Dio individuando ad Auschwitz una delle immagini più forti della sua presenza, fino alla morte insieme ai martirizzati. Secondo Moltmann, così come lo interpreta anche Giuseppe Dossetti, oggi non sarebbe più possibile far teologia se Dio stesso non fosse stato presente ad Auschwitz.

Continuo a stare seduto davanti alle baracche, l'occhio fisso sul mattonato rosso. Finalmente sono arrivato. Tutte le letture di questi anni stanno formando un grumo denso che si restringe in modo impercettibile, fino a scomparire: chiunque venga qui, dove pure nacque una nera alba tecnologica, arretra nella preistoria. Sfilano interrogativi filosofici, emozioni, concetti, idee. Divento una bolla del mio stesso pensiero. Mentre le comitive di turisti entrano ed escono dalle baracche, scorrono i personaggi di questa tragedia: Rudolf Hòss, che visse con la moglie e i cinque figli in una villetta adiacente il campo ed ebbe come amante una prigioniera, Eleonora Hodys: appena lei restò incinta, ordinò che fosse gassata. Friedrich Wilhelm Boger, inventore dello speciale strumento di tortura chiamato "altalena Boger": una sbarra d'acciaio intorno alla quale il prigioniero, legato mani e piedi, roteava colpito ai genitali coi bastoni. Joseph Klehr, soldato di sanità, responsabile accertato di 475 omicidi. Otto Moli, famigerato capo dei crematori. Mala Zimetbaum e Edek Galinski, giovani polacchi fidanzati nel Lager; dopo essere riusciti a fuggire, restarono in una stanza affittata nel villaggio di Oswicim finché non furono scoperti, riportati indietro e impiccati. Sim Kessel, pugile francese, selezionato per il gas: si fece riconoscere da un altro pugile, sottufficiale delle SS, il quale decise di salvarlo caricandolo mezzo nudo sulla sua motocicletta. Rudolf Friemel, comunista austriaco, che ottenne di sposarsi ad Auschwitz con una donna francese, Margarita Ferrer Rey, allo scopo di legittimare il figlio già nato dalla relazione. Gli sposi consumarono la loro prima notte nel bordello del campo. Il giorno dopo lei fu costretta a ripartire. Kalmin Furman, numero 80180, al quale, come componente del Sonderkommando, toccò in sorte di bruciare nel crematorio i suoi genitori. Eduard Wirths, direttore medico di Auschwitz dal settembre 1943 fino alla liberazione finale, il quale cercò vanamente di contrapporsi al massacro e s'impiccò la notte della sua cattura. Maria Mandel, comandante del Lager femminile di Birkenau e Irma Grease, due fra le più sanguinarie sorveglianti...

È una galleria interminabile di presenze grandi e piccole dietro cui mi sento oscuramente trascinato. Nella corrente d'umanità che mi sta attraversando guardo dal basso in alto, cercando di trovare, in mezzo alla folla, qualche viso conosciuto.

Gertrud Kolmar nacque a Berlino nel 1894 dove visse senza mai sposarsi. Mentre la sorella e il fratello, di fronte alla pressione nazista, emigrarono a Zurigo, lei restò accanto al vecchio padre, giurista famoso, fino all'inevitabile conclusione. Dopo essere stata costretta al lavoro forzato, assai probabilmente morì qui ad Auschwitz. È una delle più grandi poetesse in lingua tedesca di questo secolo.

"Die hier umhergehn, sind nur Leiber / Und haben keine Seele mehr, / Sind Namen nur in Buch der Schreiber, / Gefangne: Mànner. Knaben. Weiber. / Und ihre Augen starren leer..."(Quelli che s'aggirano qui sono corpi soltanto, / non hanno più anima, / soltanto nomi nel registro dello scrivano, / carcerati: uomini, ragazzi, donne, / e i loro occhi fissano vuoti...) (Nel Lager).

Etty Hillesum si recò spontaneamente nel campo femminile di Westerbork, in Olanda, per condividere le sofferenze altrui. Anche lei scomparve nelle segrete di Auschwitz contrapponendo alla volontà di potenza nazista un senso spiccato dell'incompiutezza esistenziale. Di fronte al limite della condizione umana, invece di contestarne l'evidenza, lo assunse, nelle sue lettere e diari, come valore formativo.

"Ltf gente non vuole riconoscere che a un certo punto non si può più fare, ma soltanto essere e accettare" (1990).

In queste parole dettate dallo spirito di "addolorata contentezza" che Etty Hillesum ritiene il sentimento non solo più nobile, ma, secondo un'accezione pascaliana, di gran lunga più conveniente, riecheggiano quelle di Dietrich Bonhoeffer, il teologo protestante giustiziato, per volere dello stesso Hitler, il 9 aprile 1945 nel carcere di Flossenburg, dopo una lunga prigionia: "Negli ultimi due anni ho imparato che non occorrono molte cose a un uomo per cavarsela... Se consideriamo quante persone ogni giorno perdono tutto quello che hanno, non riusciamo più ad accampare nessuna pretesa di possedere alcunché." {1988) In altre coscienze, atteggiamenti siffatti potrebbero trasformarsi in una mitologia del dolore. È ancora Margarete Buber-Neumann che, nel riportare una frase di Milena, ci mette sull'avviso: "Non so chi abbia detto che il dolore fa l'uomo più degno. Ma so per certo che è una menzogna!". Nel campo di Ravensbrùck ne avrebbe avuto conferma: "Non si poteva certo dire che il dolore avesse migliorato o addirittura nobilitato la stragrande maggioranza delle detenute; un eccesso di sofferenza può anzi trasformare qualsiasi uomo in una bestia" (1986).

Margarete Buber-Neumann non aveva la tempra etico-religiosa di Etty Hillesum, la freschezza adolescenziale di Anna Frank, l'ispirazione poetica di Gertrud Kolmar; forse non era neppure una scrittrice di vocazione. Ma la sua testimonianza resta decisiva per H controllo delle emozioni e l'equilibrio critico che presuppone.

C'è sempre un momento in cui il medesimo impulso capace di spingerci alla lotta orienta la nostra ritirata: se la struttura egotistica in cui siamo radicati si dimostra fragile, finiamo per accettare la riduzione degli obiettivi come un dazio inevitabile; al contrario, se abbiamo piantato le radici a fondo, ogni concessione politica che necessariamente dobbiamo fare si trasforma in una goccia d'alcol sulla ferita aperta. Ecco la ragione per cui è così difficile conservare forza conoscitiva nelle situazioni d'emergenza quando le circostanze ci spingerebbero verso gli appoggi più facili e sicuri. Ma questo è anche il motivo che spiega la multiformità del coraggio: esistono esseri umani in grado di ammettere la sconfitta senza rinunciare a un briciolo dell'energia impiegata per contrastarla.

La grande soffitta in cui ci troviamo è invasa dai nostri bagagli disseminati in terra. Plinio sta legando il filo da una finestra all'altra in modo da stendere i panni: potrebbe essere l'ultimo bucato prima del ritorno in Italia. Eusebio, a piedi scalzi, rovista dentro lo zaino.

Io, in calzoni corti, scendo a lavarmi, due rampe di scale più in basso. I preti dormono tutti. Entro nella sala docce con passo quasi claudicante, conseguenza degli sforzi compiuti in questi giorni. Accendo la luce: s'illumina l'intero spogliatoio. Apro il finestrone dagli stucchi screpolati: mi ero dimenticato che fuori l'estate è nel suo massimo splendore.

L'acqua di un ruscello sottostante profuma d'erba selvatica. I palazzi di Oswicim, in gruppi allineati, sono muraglie clamorose. Le stelle fanno quadrato sopra di loro. I cani abbaiano secondo la vecchia, universale scansione. Giro la testa, rassicurato. Davanti al panchetto di legno c'è una lunghissima fila di specchi. Mi pongo di fronte a essi per ritrovare l'immagine a cui non so cosa dire. Con l'asciugamano appoggiato sulle spalle assomiglio al pugile nei magici istanti prima di salire sul ring. I neon intermittenti sembrano fari in galleria che scoprono centinaia di maschere: sento pulsare la vita di mio nonno sulla pelle, come una scottatura.