Il colore della visione
Kafka! L'unica forma di contatto che possiede è il magnetismo: non fa che risplendere, come una divinità ellenistica. Così nullificato, si trasforma in un bonzo. Sai cosa ti dico? Lasciamolo ballare il suo tip tap, condannato alla solitudine del clown bianco, al quale è vietato ridere.
Buco le vesciche dei piedi, a cavalcioni sulla finestra, con la stessa cura che avrebbe una donna impegnata a darsi lo smalto. Alla mia età, nel centro della vasta regione anagrafica da cui è possibile dominare gli eventi trascorsi e presumere quelli futuri, i giochi sono già fatti. Voglio dire: ci saranno, si spera, altri libri, altre finte o vere esperienze a rallegrare o rattristare la nostra vita. Ma il colore della visione non cambierà più: gli scrittori che hanno contribuito a formarlo, su cui abbiamo proiettato emozioni e desideri, resteranno indelebili fino alla morte e oltre ancora, se avremo avuto la forza di contagiare amici e fidanzate.
"I randagi dell'Arcipelago" di Joseph Conrad, quegli uomini persi dentro se stessi, hanno confortato la mia gioventù. Se non ci fossero stati loro, araldici disprezzatori delle pubbliche azioni, non so come avrei fatto a resistere al vuoto, senza lasciarmi prendere dalla superbia per quella che avrei potuto considerare, cedendo alla tentazione dell'individualismo strutturato, l'altrui mediocrità.
Una volta avrei detto: in Conrad, modello di percezioni atletiche trascendentali, convivono i mostri dell'uomo, i reietti che sono dentro di noi e gli eroi irraggiungibili dei nostri sogni più ambiziosi, entrambe le schiere unite nel sigillo prezioso della scelta solenne, benché provvisoria, che ci fa sentire, di volta in volta, lo slancio cieco della virilità, l'orgoglio magnetico dell'uomo religioso, lo strappo brusco, introiettato nel sangue, di chi sa affrontare con dignità l'inevitabile destino dell'uomo.
Oggi non ho più queste illusioni. Come è stato affermato fino alla nausea, la sincerità corrisponde semplicemente all'immagine che abbiamo di noi stessi. Concordo con quanti hanno svelato agli ingenui il vero compito di ogni diario: fare dell'autore un oggetto del desiderio. Perché Andre Malraux partì per l'Indocina? Andava a cercarsi l'esperienza: la sentiva venir meno per tutti noi. Non l'ha cercata, come fece Andre Gide, tanto inferiore rispetto a lui, seguendo uno scopo personale. E così, nelle pagine di Malraux, Hong-Kong è quasi soltanto un clacson tra la folla di gente in pantaloni bianchi, l'Oriente una zanzariera, Parigi i mozziconi di sigarette schiacciati nei bar, la Spagna una collegiata sospesa nel silenzio prima che passi l'aviazione, la letteratura un soldo nel fango, la vita un sovrapporsi di individui eleganti e disperati.
Consultando la guida, scopro che a Sankt Paul, nella Lavanttal, quasi alla frontiera slovena, esiste un convento benedettino, fondato nel 1091, uno dei più notevoli complessi abbaziali di tutta la Carinzia. Mi viene voglia di visitarlo. Prima però bisogna compiere qualche operazione pratica. Nel pomeriggio ci rechiamo nella chiesa di Sant'Egidio, la cui altissima torre - dicono i dépliant - si staglia sui panorami di Klagenfurt.
Assistiamo alla messa senza capirci un'acca, appollaiati nelle primissime file, come tecnici elettricisti, operatori di macchina. Una vecchia con la parrucca scomposta si volta per darmi la mano: ricambio. I fedeli cantano. Non so se devo sedermi o stare in piedi. Non so rispondere a tono. Non so niente. Mi sembra di stare a cassetta, guidando una diligenza.
L'organo è un polmone potente, un'autoclave gigantesca. Al termine della funzione, scortati da un ragazzo con gli stivali a punta, andiamo in sacrestia presentando la lettera sui pellegrini diretti ad Auschwitz. "Ich bitte die katholischen Vereinigungen, die Klòster und alle Priester den drei Pilgern Gastfreundschaft zu gewàhren. Sie werden anschliessend ihre Erinnerungen in einem Buch festhalten, um so die òffentliche Meinung ùber den Frieden und die Toleranz zu beeinflussen" (Prego le associazioni cattoliche, i conventi, i reverendi Padri tutti, di favorire l'ospitalità ai tre pellegrini che poi tradurranno in libro il resoconto del loro viaggio al fine di sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della pace e della tolleranza).
Chiediamo di poter essere ospitati almeno una notte a Sankt Paul. La reazione è poco incoraggiante: il parroco dapprima nega di saper parlare italiano e ci affida all'organista. In seguito, messo alle strette, dimostrerà di conoscere la nostra lingua. Cerchiamo di spiegare l'intendimento al cappellano obeso, sebbene nella lettera sia tutto abbastanza chiaro.
C'è un imbarazzo generale. Intanto usciamo dalla chiesa. Si fanno il segno della croce con l'inchino il parroco, l'organista, il cappellano obeso e il ragazzo dagli stivali a punta, in un drappello scomposto che mi fa tornare in mente un vecchio fotogramma felliniano: alcuni paparazzi si piegano in due per fotografare una celebrità in arrivo.
L'organista ci chiede la ragione che ci spinge ad Auschwitz, "museo degli orrori", così egli si esprime. Preso alla sprovvista, dico che we must write a hook. A quel punto, chissà perché, anche il parroco cede. In canonica prova a fare qualche telefonata a Sankt Paul, ma sono le diciannove, l'ora del vespro, non risponde nessuno. Ci guardiamo intorno sconsolati. Il prelato sembra non voler insistere. Alla fine però il tentativo riesce. Saremo accolti in abbazia.
La sera stessa dimentichiamo la lettera di presentazione nella birreria dove avevamo rivisto il cappellano e l'organista. Dall'albergo torniamo indietro, cerchiamo nell'immondizia, poi la cameriera ci restituisce il prezioso plico.
Klagenfurt sembra finta col cielo azzurro, i palazzi asburgici, le torri campanarie, i portici stretti. Il 16 marzo 1938 l'esercito nazista entrò in città. Il capo della polizia nazionalsocialista, esprimendo il suo ringraziamento per la cordiale accoglienza della popolazione locale, assicurava di essersi sentito come a casa propria in Germania. Scrisse Ingeborg Bachmann: "C'è stato un momento determinato che ha distrutto la mia infanzia: l'ingresso delle truppe di Hitler a Klagenfurt. Fu qualcosa di così orribile che i miei ricordi iniziano con questo giorno: con un dolore troppo precoce, e con un'intensità che forse non ho mai più provato". (Uwe Johnson) I postumi delle vecchie fratture, dopo il fantastico sforzo di ieri, riemergono come scogli durante la bassa marea. Camminiamo lungo le isole pedonali deserte coi negozi chiusi, le panchine vuote, pochissime luci accese. Vedo le nostre figure allampanate e ciondolanti riflesse nelle vetrine opache, fra giacche e cappelli. Penso a Moosbrugger, il serial-killer di Robert Musil: che sia lui, buono e cattivo nello stesso tempo, il prototipo del nazista?
"Durante la sua vita onesta, interrotta dai delitti di una sinistra ebbrezza sanguinaria, era stato ammesso e dimesso da infiniti manicomi, e considerato paralitico, paranoico, epilettico e pazzo periodico, prima che nell'ultimo processo due psichiatri particolarmente coscienziosi gli restituissero la sanità. " (Robert Musil) Il nazismo riguarda la natura umana. Marguerite Duras testimoniò che Robert Antelme, suo marito, tornando dal Lager, non incolpò nessuno, né idee, né razze, né popoli. Accusò l'uomo.
In terra raccolgo il manifesto di una sfilata di moda nel quale si vede un fotomodello in cappotto nero che sta saltando in mezzo a un'idea di reticolato. Mi chiedo cosa avrebbe detto Serge Daney, se l'avesse potuto vedere, lui che, sulla scorta di un articolo di Jacques Rivette pubblicato sui "Cahiers du cinema" nel 1961, giudicò abbietto un movimento di macchina presente in Kapò di Gillo Pontecorvo.
Cosa avrebbe detto di questa fotografia attaccata su tutti i muri di Klagenfurt, in cui la memoria del massacro è stata rimossa e a tal punto tracimata da poter riemergere come un cadavere di bambino morto, senza che nessuno alzi un dito a chiedere spiegazioni, dall'inconscio fumante di un professionista senza scrupoli?