I monaci
Nella foresteria del convento benedettino di Sankt Paul ricostruisco gli eventi della giornata. Stamattina, presentandoci all'ingresso dell'edificio, abbiamo creato qualche problema all'impiegata dell'adiacente museo: guardava i nostri volti sudati senza riuscire a capire cosa volessimo. Finalmente un religioso ci ha fatti entrare nell'abbazia. Dopo aver posato gli zaini sulla panca del corridoio, siamo andati in cappella insieme a lui. Trascorsi pochi minuti, sono sopraggiunti altri due benedettini: uno grande e grosso, dai lineamenti scuri; l'altro giovane con la barbetta rada, i quali ci hanno preso in consegna.
Mentre stavamo ognuno davanti al proprio scranno di legno, un silenzio prodigioso è calato su di noi. Le pareti mostravano dipinti dai colori leggeri, appena scrostati dal tempo. In alto c'erano tre rosoni di vetro. I monaci, pregando, si alzavano in piedi secondo uno schema fisso; noi li imitavamo. Nel sentire la lingua tedesca fra le mura della cappella, così ben scandita, non ho potuto fare a meno di pensare che, in quegli stessi toni forti, alti e solenni in cui mi si presentava adesso, cinquant'anni fa essa risuonava negli stanzoni di Birkenau dove siamo diretti. Dentro di me, ho riformulato la vecchia domanda: nella storia di questo popolo esistono i presupposti del nazismo?
È un argomento molto dibattuto. Norbert Elias lascerebbe pensare di sì. Philippe Lacoue e Jean-Lue Nancy lo affermano esplicitamente. Elie Wiesel invece ha scritto che dare tutta la colpa a un Eichmann, per esempio, è troppo comodo. Senza l'aiuto e la tacita approvazione degli ucraini, degli slovacchi, dei polacchi, degli ungheresi, dei rumeni, i tedeschi non avrebbero potuto risolvere ogni cosa da soli. Del resto è notorio che le linee ferroviarie verso Auschwitz, nonostante le pressanti richieste, non furono mai bombardate dagli Alleati. Gli stessi ebrei americani restarono quasi indifferenti. Perfino i giornali di Tel Aviv, nel 1943-44, pubblicavano in brevi trafiletti di poche righe le notizie sugli stermini nei ghetti polacchi.
Squadrando i volti dei monaci seduti accanto a me mentre si rispondevano l'uno con l'altro riflettevo sui cardini della regola benedettina: scansione dei tempi, puntualità, obbedienza, silenzio, organizzazione dei servizi, misura del cibo, lavoro quotidiano, umiltà e sudditanza. Tecnicamente parlando, princìpi non dissimili erano alla base della vita dei Lager. Come il monaco autentico è pienamente consapevole della presenza di Dio, così il detenuto, lo Hàftling, in qualsiasi ora della giornata, sentiva su di sé l'occhio indagatore della SS. Gli individui della nostra specie, ratti dentro scatole giganti che sembrano percorrere il perimetro di cartone spinti da scariche elettriche, riproducono sempre, ciecamente, gli stessi meccanismi automatici.
Siamo rimasti in cappella circa mezz'ora. Uscendo, i religiosi hanno cominciato a fare qualche battuta per sciogliere il ghiaccio. Aggrappandoci a un inglese essenziale, abbiamo cercato di rispondere alle domande. Mentre noi entravamo nel refettorio, gli zaini restavano appoggiati sulla panca del corridoio come briglie, finimenti, selle di cavalieri in transito.
Il tavolo era grande, bianco, lunghissimo, in tutto e per tutto uguale a quello tipico dell'iconografia cristiana. Ai tre frati si è aggiunto un altro, più anziano, che ci ha servito un pranzo squisito: minestra di erbe e funghi, pollo con patate e insalata. Prima e dopo il pranzo un monaco è salito sullo scranno posto al centro del refettorio per pregare ad alta voce, mentre noi restavamo in piedi davanti alle sedie. Il monaco più grosso parla un po' d'italiano, il giovane studia arte: s'interessa della basilica di San Zeno a Verona. Quello che ci ha accolto sembra il più criptico, mentre il vecchietto è rimasto in disparte. Abbiamo raccontato i nostri tre giorni a piedi sui laghi della Carinzia. Uno di loro, ridendo, ha detto che lui non lo farebbe mai.
I caratteri di questi uomini mi sono apparsi ritagliati come figurine di cartone. Qui dentro ogni piccola idiosincrasia viene esaltata. Dopo il pranzo ci hanno mostrato l'alloggio. Attraverso un porticato si sale qualche gradino e si entra nel corridoio luminoso su cui danno diverse porte: la nostra è quella in fondo, a sinistra. Le grandi vetrate sono aperte sulla valle. Il pavimento in parquet, coi tappeti, conferisce all'ambiente un che d'austero. Sopra l'inginocchiatoio è appeso il crocifisso. Nel salone sono disposti un divano, il tavolo di mogano, la stufa di ghisa. Da qui ci s'immette nella camera del riposo: i letti assomigliano a baldacchini; al lato opposto c'è il rubinetto dell'acqua. Intorno regna il silenzio.
Alle diciotto siamo di nuovo in cappella. I monaci recitano a due a due, seguendo il libro delle preghiere: fanno brevi interruzioni quando compare l'asterisco per segnare il tempo. Trascorrono così la maggioranza delle ore, lottando - questa è la mia impressione - a pugni nudi contro se stessi. Il combattimento si svolge all'interno delle loro personalità, in qualsiasi ora del giorno. Essi si trascinano dietro il silenzio derivato dal cimento interiore che hanno intrapreso, quasi fosse una bava di lumaca.
Quello più riservato - il primo ad accoglierci - nasconde fra le dita un mozzicone di sigaro spento; il pollice sinistro è amputato: resto colpito da entrambi i particolari, come se testimoniassero una vitalità ancora persistente. Stasera Plinio mi ha detto di averlo visto uscire con la Volkswagen Golf, vestito in borghese, il cane dietro.
Chi mai sarà? Un pistolero dell'impegno spirituale che ha bruciato qualcosa dentro di sé. La vocazione adesso è una lama tagliente pronta a ferire il suo stesso desiderio, pur continuando a sostenerne la dolorosa fiamma. Ci sono stati diversi momenti, nella vita di mio nonno, nei quali egli avrebbe potuto interrompere la terribile chiusura del cerchio: appena sposato, in Belgio durante il lavoro nelle miniere, prima della guerra, dopo l'8 settembre 1943. E invece tutte le volte aumentò la puntata, fin quando si mise a convincere i ragazzi a salire in montagna. Solo lui conosceva i sentieri per giungere alle basi partigiane, tra fiumi e torrenti, aggirando le vie di maggiore comunicazione. Nei mesi prima dell'arresto definitivo, guidò un gruppo di giovani dal borgo di Isola fino alle falde del monte Faggiola, in massacranti notti di marcia attraverso la vallata del fiume Senio.
Il santo e l'eroe, intesi quali modelli caratteriali, sono uniti da una spiccata attitudine al patetismo. Entrambi, oltre a commuovere, trasmettono tristezza e malinconia perché, contrapponendosi senza mediazioni a ingiustizia, ordinarietà e finitudine, smontano le risposte rassicuranti e poco dispendiose che la grande maggioranza di noi è abituata a dare di fronte alla condizione insolubile dell'uomo. Al pari dei geyser vulcanici, essi sprigionano energia vitale, dentro e fuori di sé, trasformandosi in uomini pericolosi e carismatici alla costante ricerca di una metamorfosi.
Peter Schwiefert, nato a Berlino il 5 gennaio 1917, era un cittadino tedesco di madre ebrea: Mischlinge, secondo la terminologia nazista. Come tale, non aveva nulla da temere. Ma quando in Germania furono emanate le prime leggi antisemite, egli decise di rivendicare la sua origine ebraica. Andò in esilio. Durante la guerra si arruolò volontario nelle Forze Armate della Francia libera. La madre, a cui spedì numerose lettere poi raccolte da Claude Lanzmann, lo credeva in Palestina. Cadde invece sul fronte alsaziano il 7 gennaio 1945, quasi al termine del conflitto, due giorni dopo aver compiuto ventott'anni.