Sudato e loico

 

Dal castello di Trencin, seduto vicino allo stagno, osservo le case, lo scalo ferroviario, la piscina pubblica, gli imbuti di cemento delle fabbriche circostanti. Resto così per qualche tempo, assorto e malinconico. Penso a mio nonno: vorrei sapere se controllò il senso della sua vita o se invece fu il protagonista di vicende fortuite. Faccio presto a rendermi conto che a questa domanda non si può mai rispondere. Credo lo spingessero l'energia vitale, la passione virile.

Nacque da una famiglia umile, contadina, a Casalfiumanese, un paese vicino a Imola, sulla strada che porta in Toscana. Dalla piazza si vedono i calanchi e, ancora più in là, le prime cime dell'Appennino. Era un semplice operaio, lavorava alle cisterne. Sin dagli anni Venti non aderì al fascismo, mettendo a rischio l'intera famiglia: durante una visita del Duce, proibì ai figli di recarsi a vederlo. Le autorità lo tenevano sotto tiro. In breve gli resero la vita impossibile.

Emigrò in Belgio dove per anni lavorò nelle miniere. Pare non volesse più tornare a casa. Mia nonna, non sapendo come sfamare i figli, lo richiamò in Italia. Quando si ripresentò, sembrava irriconoscibile: aveva imparato qualche parola francese, era sfasato, fuori posto nella famiglia. Fu richiamato alle armi in occasione della guerra d'Africa. Riuscì a sopravvivere. Da piccolo osservavo la sua immagine in un tondo fotografico sul comodino: mi colpivano gli occhi quasi bianchi, il volto squadrato, la pelle ruvida, scura.

Un gruppo di visitatori sale verso i ruderi romani. Io scendo giù in città. Sulla strada principale spiccano i chioschi dei gelati Algida, le vetrine delle maglie Benetton. Al contrario, le vie secondarie sembrano cortili interni di vecchi stabili pericolanti. Come già mi è accaduto in altri paesi dell'Est, sento una commozione bizzarra, l'astratta nostalgia dell'esploratore fantastico. Ritrovo nell'Europa orientale l'atmosfera della mia infanzia, le ultime stille dell'Italia del dopoguerra, un attimo prima che scompaiano, asciugate per sempre: la parete della vecchia casa dai muri scrostati, una camicia a quadri arrotolata sul braccio, le lamiere dell'autobus.

Alcune ragazze hanno volti bellissimi e corpi cellulitici: molte calzano scarpe da ginnastica sotto gonne ampie, vaporose. Mischiano donna e bambina senza reale consapevolezza erotica: sono insetti ciechi pronti a posarsi, per istinto olfattivo, su fiori di plastica quali saremmo, ad esempio, noi tre nel caso facessimo soltanto il maschile, classico segno d'invito.

Sorseggiando una birra nella città bassa, al centro del polline adolescenziale, penso a un loro possibile coetaneo in questo momento certo non lontano da qui, chiuso dentro casa, oppure nascosto in altre azioni di studio o lavoro, il quale si sta caricando sulle spalle ben altro peso. È come se tutta la Slovacchia, dalle vecchie madri rugose passate attraverso il comunismo alle fresche farfalline del nuovo consumo, stesse oscillando su di lui, su di lei, i ragazzi, le ragazze che, in ogni generazione, ci sono sempre ma non si vedono mai: quelli pronti a pagare per chi sbaglia.

Riprendiamo il convoglio verso nord. La Slovacchia scorre accanto a noi come uno strampalato corteo di operai in calzoni corti e scarpe slacciate, slavi dai baffi biondi e facce i cui lineamenti a me sembrano orientali. Capostazioni-bambine alzano la paletta rossa neanche fosse un giocattolo: i convogli, stanchi lucertoloni snodati, eseguono ciechi. Si moltiplicano gli orti sotto i muri delle finestre, le officine intrappolate fra un cortile e il cielo, i ciclisti arrugginiti e silenziosi, i silos, gli stabilimenti, i magazzini industriali. Transitiamo in mezzo a carrelli, barriere metalliche, fili spinati, carcasse d'aerei in disuso.

Povazska Bystrica.

Torri verniciate di bianco e rosso emettono fumo, soldati fanno ginnastica sul piazzale di marmo. Uomini dalle camicie sgargianti si danno energiche pacche sulle spalle. Donne con maglie a righe e borsette in similpelle rigida, ritte in piedi davanti alla sbarra ferroviaria, tengono mazzi di fiori all'ingiù, come per lasciar sgocciolare l'acqua.

Vedo grate alle finestre, strade disabitate, quartieri dormitorio, camion d'anteguerra con pneumatici enormi, simili a quelli dei trattori. Stagni putridi richiamano nugoli d'insetti. Gli interni delle case sono popolati da gente in festa: staranno nascendo storie d'amore; forse qualcuno, fra trent'anni, ricorderà ancora le mattonelle scheggiate del pavimento, i ragni in crescita sugli stipiti che in questo momento neppure considera. Accanto ai palazzi, gli stadi possiedono impianti d'illuminazione pensati in grande, come dita scheletriche sul cielo di vetro.

Povazska Tepla.

Passa il vagone: LEN-PRE OBILNINY A-31 EIV.56 ZSR. Mia madre che scantona in mezzo alla folla. L'urlo rauco della giovane SS. Nel piazzale della stazione l'uomo con la bicicletta è pronto a scattare. La ragazzina lo guarda, in una frazione di secondo lo riconosce. Nella corsa i boschi producono uno strano effetto ottico: danno l'impressione di cavalcare sulle colline. Plinio, davanti a me, ha la faccia sofferente. Il viaggio non finisce mai. Conto almeno quattro partite di calcio che incrociamo mentre sono in pieno svolgimento.

Predmier.

"Il treno si ferma, a quanto pare, in aperta campagna; non sappiamo bene se ci troviamo ancora nella Slesia o in Polonia. Il fischio stridulo della locomotiva risuona sinistro, penetrante come un grido d'aiuto, denso di presagi" (Viktor E. Frank Ho il volto riflesso nel finestrino: decifro una virilità tumefatta. Ragazzini col cappelletto della Good Year fingono di sparare contro il treno. A guerra finita mia madre fu chiamata per il riconoscimento della salma paterna. Quando aprirono la bara, ciò che era rimasto dentro all'aria aperta immediatamente si polverizzò. Scrivo come se fossi in una segheria a fare l'inventario.

Bytca.

Noto, in stretta successione, due pensiline d'alluminio, diverse pale di ferro, qualche traballante sedia di legno, la serie di vasi con piante grasse allineati nell'orto. Le porte restano aperte in una fuga di corridoi e probabili cassettoni. Il cane, accasciato vicino allo stipite, forse mugola. Lungo i binari s'accumulano macerie, rifiuti, sacchi di calce. Dove vivono gli abitanti del paese? I tetti sulla collina sono ali di farfalle posate sull'erba.

Zilina.

La motrice rallenta guidando il convoglio attraverso una selva ferroviaria di vagoni verdi, rossi e gialli, nel carbone, in mezzo ai residuati bellici del Patto di Varsavia: autoblindo scassate, cannoni, eliche, ali d'aereo, mucchi di fili di ferro. Siamo arrivati.

"Fu soltanto quarantasei anni dopo, mentre ero in aereo con Elie Wiesel da Parigi a Cracovia per far visita ad Auschwitz, che mi resi conto che lilina era solo al di là del confine di Auschwitz. Quella che mi sembrava un'insignificante coincidenza si rivelò allora parte di un efficentissimo meccanismo di morte. Il campo era lì perché quello era un importante deposito ferroviario, un buon posto per organizzare le deportazioni ad Auschwitz. In lingua slovacca zila significa 'vena', e il nome Zilina si riferisce ai numerosi fiumi che percorrono come vene quella regione montagnosa. Erano però i binari della ferrovia, anziché i fiumi, che portavano come vene il sangue delle vittime alla destinazione finale. "(Shlomo Breznitz) La sala d'aspetto assomiglia a certi locali da ballo ricavati da una sala parrocchiale. Non ci sono che le sedie attaccate al muro, panchetti da scuola uno diverso dall'altro, resti di una lontana tappezzeria. Sulla parete sinistra colpiscono tre o quattro zone di bianco pulito, come isole nel mare di macchie: i ritratti, da poco staccati, dei padri del socialismo.

Sulla parete destra spicca un sole di ceramica nel cui globo è incisa una coppia di bambini che saluta il pubblico: lei stringe nel pugno un piccolo mazzo di fiori e ha la gonna al vento, lui mostra uno sguardo tenace, fiero. Ai lati alcuni uccellini, sempre in ceramica, volano alti intorno a loro. La grande vetrata con tendine sporche e tre vasi di fiori equidistanti trasmette una patetica dedizione domestica.

Nel palazzo di fronte c'è scritto:

POTRAVINY-LAHODKY-LUDANY

I ragazzini esibiscono le Adidas nuove fiammanti come trofei di vecchie battaglie: il costume di carnevale chiamato America.

Osservo un grosso interruttore della luce. I termosifoni sono schermati da grate di legno consumato. E io, seduto con lo zaino tra le gambe, come sembro? "Ferrigno e interiore" esclama Plinio. Poi, cercando un'espressione ancora più precisa, aggiunge: "Sudato e loico." Mentre lo sta dicendo, entra un uomo dagli occhi azzurri, globi fluorescenti: non si capisce se è cieco. I denti sono cariati, i tratti del viso molto tesi. Ci guardiamo, noi e lui, come animali che appartengono alla medesima specie.

La mia barba è biondastra, non me l'aspettavo così da ulano. Quella di Plinio già quasi in zona risorgimentale. Eusebio sorride dietro il cespuglio. Questo viaggio doveva arrivare, prima o poi. Ho premuto un bottone, dentro di me, dopo averlo fissato per un tempo interminabile.  Siamo ospiti di uno storico della chiesa slovacca. A casa, due stanze e servizi, ci mostra, insieme alla moglie, le fotografie di un suo incontro col Santo Padre. Parliamo del nostro viaggio. Anch'egli mette i gulag al primo posto della barbarie: motiva questa tesi sostenendo che i campi sovietici ti divorano l'anima. Gli dico che ad Auschwitz l'anima era un lusso che ben pochi si potevano permettere.

Non conosce Primo Levi. La burocrazia dittatoriale ha tagliato la carne nel profondo: anch'io ragionerei come lui se avessi vissuto in un paese dell'Est dal dopoguerra in poi. Tuttavia mi sorprende l'ignoranza - in uno storico! - sul sistema concentrazionario nazista. Probabilmente nell'Unione Sovietica l'informazione a tale riguardo ha subito la sordina, quasi che una muta complicità avesse unito le due grandi dittature del secolo.

Il celebre Livre noir, curato da Il'ja Erenburg e Vasilij Grossman, vale come indiscutibile prova. Albert Einstein chiese la pubblicazione, già nel 1942, di un volume che avrebbe dovuto illustrare i crimini tedeschi in Unione Sovietica. Il Comitato Antifascista Ebraico, accettato da Stalin durante la guerra, fu immediatamente sciolto dopo la vittoria. Nel 1947 le testimonianze raccolte furono bloccate. I servizi segreti sovietici eliminarono i principali rappresentanti del Comitato. Il Livre noir è stato finalmente stampato, in edizione integrale, soltanto nel 1993 a Vilnius, Lituania.

Per raggiungere il centro dobbiamo superare un quartiere in completa ristrutturazione. Potrebbe essere la quinta scenografica della Slovacchia di oggi. I tetti delle case sono sventrati. Sacchi di calce e sabbia formano piccoli cumuli a terra. Le travi montate sulle pareti degli edifici rischiano di crollare da un momento all'altro, ma forse è solo la nostra impressione. Nello sfasciume generale, i vetri delle finestre mostrano ancora qualche fiorellino dipinto. In mezzo ai mattoni, appese alla corda, le famiglie hanno steso i panni ad asciugare. Prima di rimettere piede nello stradone, mi capita di scavalcare una grossa lastra di bronzo appoggiata al muro; vedo un paio di facce scolpite: soldati, contadini, muratori lanciati verso il Sol dell'Avvenire. Dev'essere uno degli innumerevoli monumenti commemorativi che gli operai stanno staccando.

Se ci raccontassero la storia di una donna nata a Potsdam il 21 ottobre 1901, nella Germania guglielmina, giovanissima sposa di Rafael Buber (figlio del grande filosofo Martin), nonché accesa comunista la quale, dopo essersi separata dal marito (rifugiato in Palestina insieme alle due figlie), si dedica anima e corpo alla lotta politica unendosi in seconde nozze con Heinz Neumann, dirigente del partito e deputato al Reichstag, proprio quando si sta affermando il nazismo, vanteremmo già qualche buona ragione per sgranare gli occhi.

Se poi apprendessimo che la medesima donna, recatasi in Unione Sovietica con spirito forse non dissimile da quello che potrebbe animare il naufrago raccolto sul ponte della nave cui si è aggrappato per salvarsi dai marosi, assiste suo malgrado all'incarcerazione dell'amato compagno, avremmo guadagnato il triste diritto all'incredulità, lo stesso che dovette pesare come un macigno sulla reale esistenza di Margarete Buber-Neumann.

ilina è una città misteriosa. Sembra di essere nella Pechino di quindici anni fa, così come l'abbiamo immaginata: pochi i passanti, rare le auto. Ogni tanto compare una piazza grandissima di lastricati bizzarri. I palazzi sono una strana mistura di barocco, edilizia sovietica, spunti quasi bizantini. In certi scorci l'impressione è quella di una località postatomica. Astratte costruzioni dalle colonne nere e bianche, fuligginose, si alternano a cattedrali dalle linee puntute.

In Prigioniera di Stalin e Hitler, Margarete Buber-Neumann rievoca tutte le sue vicissitudini: dall'arresto del marito che non rivide mai più, nella Mosca degli anni Trenta, grigia e spettrale, attraversata dai cellulari della polizia pronti a consegnare nelle segrete della Lubianka oppositori veri e presunti, alla deportazione nei gulag di Karaganda, sperduto campo di punizione davanti alle alture del Kazakistan dove il gelo, le malattie, gli stenti, il lavoro massacrante decimavano i reclusi.

Vivevano insieme a lei quella sventurata odissea quotidiana criminali, politici, artisti, epilettici, persone qualsiasi, sfortunati sorpresi a pronunciare battute irriguardose sul governo e, ironia della sorte, comunisti, tanti comunisti di ogni risma, anche allineati con le direttive di governo, i quali non si spiegavano la ragione per cui erano stati arrestati e, allo scopo di non impazzire, attribuivano a fantomatici gruppi trockisti la colpa della loro condizione.

All'inizio Margarete era una di questi sventurati. Quando nel 1940 venne liberata coi compagni tedeschi, tutto avrebbe potuto credere fuorché di essere riconsegnata proprio ai nazisti, gli stessi che aveva ferocemente osteggiato, fino al punto di andare in Unione Sovietica con l'intenzione di favorire la nascita del socialismo. Tale invece fu la tremenda realtà che il patto Ribbentrop-Molotov rese possibile abbattendo le ultime pervicaci illusioni di chi non voleva arrendersi all'evidenza.

Seduto sugli scalini di un porticato bianconero, fra le guglie, i lampioni e il cemento di questo luogo al limite della storia, osservo le avanguardie spericolate, i ranger del consumismo: sul monopattino inventano traiettorie ultraveloci che li lanciano dai burocrati di ieri agli americani di oggi, saltando tutto quello che sta in mezzo. A Èilina i secoli s'intrecciano: è una città di ringhiera piena di gente che attende il momento in cui si apriranno davvero le frontiere. Un fischio d'entrata è già stato dato, da qualche parte in Europa, ma qui una frazione di secondo potrebbe durare anche qualche anno.

Nella fredda mattina di febbraio un convoglio di uomini perduti raggiunse le pianure polacche fermandosi a Brest-Litovsk, sul fiume Bug. Agli ufficiali sovietici subentrarono le SS coi cani lupo al guinzaglio. Margarete finì dalla padella nella brace, nel campo femminile di Ravensbrùck dove la sua esperienza di veterana e il fatto di non essere ebrea le salvarono la vita. Divenne capoblocco prima in un reparto di asociali, poi in quello delle Testimoni di Geova. Incontrò Milena Jesenskà, l'amica di Franz Kafka.

L'isolamento patito da Margarete Buber-Neu-mann lascia senza fiato: nei campi sovietici le stesse comuniste la scansavano, credendola una revisionista; in quelli nazisti, come tedesca, veniva considerata pur sempre privilegiata; nei giorni della liberazione alleata perfino lei, oppositrice di Hitler, sentiva, come cittadina del Reich, di non poter partecipare sino in fondo alla festa.

Sopravvisse non tanto grazie alla sua integrità psicofisica, quanto per le amicizie che riuscì a stabilire. Superò maltrattamenti, celle di rigore, fame e freddo. Alla fine della guerra attraversò la Germania in fiamme lanciandosi oltre le linee americane fino a raggiungere a cavallo, in bicicletta, a piedi, il paese materno in Baviera.

Nonostante la sua lunga vita (si risposò per la terza volta col giornalista Helmut Faust a Francoforte, dove s'era infine stabilita), non fece in tempo ad assistere alla vera conclusione della seconda guerra mondiale. È morta, in una congiuntura simbolica impressionante, il 6 novembre 1989, tre giorni prima della caduta del Muro di Berlino.

Il destino ha voluto che a mio nonno fosse evitata la crudele delusione di veder fallire l'ideale della sua giovinezza. Quando entrò nella Resistenza, si bruciò i ponti alle spalle: sapeva di non poter più tornare sui propri passi. Dev'essere stato un personaggio, a modo suo. Pare fosse una specie di "cartomante": "Sapeva spiegare alle ragazze come conquistare un buon marito, ed era espertissimo nello sciogliere il 'malocchio'. Conosceva le magiche parole da pronunciare mentre si beveva il filtro della salute o quello dell'amore, o quando si spargeva la cenere al vento per fare gli scongiuri. In quei momenti il vecchio Gavina diventava un altro, diverso dal solito. Sembrava si sdoppiasse. I giovani gli volevano bene." (Graziano Zappi) Alzandomi in piedi, cerco il nome della piazza dove ho sostato: Mariànské Nàmestie.