Vagoni maledetti
Abbiamo preso la coincidenza per Auschwitz come tre teddy boys fuori tempo massimo rispetto a se stessi. Entro oggi dovremmo giungere al campo. Il treno è un disastro.
"Verso l'alba del lunedì, i razziati furono messi su autofurgoni e condotti alla stazione di Roma Tiburtina dove li stivarono su carri bestiame'' (Giacomo Debenedetti) Tempo brutto. Ricorda novembre. Gli scompartimenti sono vuoti. Fuori tutto è fumo, nebbia, polvere. I sentieri entrano ed escono dai boschi: sembrano rettili che strisciano nella radura.
"Quei corpi accalcati nel vagone, quel dolore lancinante al ginocchio destro. I giorni, le notti." (Jorge Semprun, 1990) A Cadca ci fanno scendere per compiere diversi chilometri in autobus. Il veicolo giunge con molto ritardo sull'asfalto viscido di pioggia. Mentre lo aspettiamo, protetti da una parete zincata, capisco di essere all'ultima tappa. L'arrivo non poteva essere che questo.
"Ci caricarono in 66 in un vagone merci, dove rimanemmo stipati per cinque giorni e dal quale, durante il viaggio, fummo fatti uscire soltanto due volte. I bisogni corporali venivano soddisfatti nel mezzo del vagone." (Bruno Vasari) Convogli scorrono a destra e sinistra. La stazione dove avviene il trasbordo è una baraccopoli in mezzo al fango. Donne col fazzoletto in testa trasportano la frutta dentro ceste di paglia. Camminano rapide senza parlare. Le guardie hanno le mani in tasca, la sigaretta in bocca. Osservo i piccioni morti sull'asfalto, le pozzanghere. Comincia a piovere.
"Della vita durante il viaggio ho pochi ricordi: si guardava le stazioni attraverso le finestrelle, quelle finestrelle da cui, quando quei vagoni sono carichi di bestiame, si vedono guardar fuori i buoi." (Aldo Carpi) È una campagna di carrucole, pozzi, binari divelti, rastrelli appoggiati al muro, colli di vecchie bottiglie nell'erba. Le grondaie, i camini, gli alberi spelacchiati appaiono fra pezzi di lamiera, casupole che sembrano disabitate, terreni incolti. Chi può vivere in queste abitazioni interrate? Eppure vicino alle baracche avverti la presenza dell'uomo.
"Nei film o nei libri su tali trasporti, che da allora sono stati messi in scena relativamente spesso, l'eroe sta pensoso alla finestra, o meglio alla presa d'aria, oppure solleva un bambino verso la presa d'aria, oppure uno che sta fuori vede un prigioniero alla presa d'aria. Ma in realtà poteva starci solo una persona, e quella non abbandonava facilmente il suo posto, edera sicuramente una persona che usava i gomiti. " (Ruth Kluger) Ragazzini sporchi giocano sul greto del fiumiciattolo. Cani scheletrici abbaiano accanto a loro. Le rotaie sono piene di foglie marce. H paesaggio è in pendenza, come un piano inclinato. Il dislivello confonde la terra, l'erba e il cielo coi paletti divisori delle piccole proprietà contadine. In cima a certi rialzi argillosi c'è gente al lavoro. Procediamo fra numerose soste.
Zwardon.
"Si sente un rumore di ferraglia, uno scossone, ed ho la sensazione che il treno si sia messo in moto. Poi un altro scossone: siamo di nuovo fermi. I battenti si aprono ed entra l'aria e la luce. Un'aria satura del fumo della locomotiva, una luce strana d'alba piovosa e di proiettori accesi." (Bruno Piazza) Sale la guardia polacca, una ragazza: inopinata macchia di colore dai capelli rossi, il basco verde, lo smalto rosa; età circa ventidue anni. Il panorama è cambiato: più boschivo, meno popoloso; quasi desertico. Uomini con cavalli da tiro appaiono e scompaiono all'orizzonte. La tensione sale. Le antenne paraboliche in aperta campagna sembrano funghi di plastica. Si susseguono villaggi di legno, staccionate, sparute galline. Prevale il nerofumo.
Tadeusz Borowski giocò una partita di pallone ad Auschwitz nel ruolo di portiere: "Allo scalo era appena arrivato un treno. Dai vagoni merci cominciò a scendere gente e ad andare in direzione del boschetto. Da lontano si vedevano solo le macchie colorate dei vestiti. Le donne erano già evidentemente in abiti estivi. La prima volta, quell'anno. Gli uomini si erano tolti le giacche e risplendevano con le bianche camicie. Il corteo si muoveva lentamente, vi si aggiungeva in continuazione nuova gente dai vagoni. Infine si arresto.
La gente si sedette sull'erba e guardò nella nostra direzione".
Czechowice-Dziedzice è il punto odierno di smistamento verso Auschwitz. Sono le 12,08. Restiamo fermi circa venti minuti. Guardo le grate delle finestre, i complicati snodi delle tubazioni, gli stabilimenti industriali. Potrebbero essere officine meccaniche. Ma allora perché sembra tutto carbonizzato? Gli operai, a gruppi di due o tre vicino al muro, mettono paura.
"'Ritornai indietro col pallone e lo calciai nel campo. Passò di piede in piede e tornò disegnando un arco sotto la porta. Lo scagliai in corner. Rotolò nell'erbetta. Di nuovo gli andai dietro. E sollevandolo da terra rimasi impietrito: lo scalo era vuoto. Della variopinta folla estiva non era rimasta nemmeno una persona. Anche i vagoni erano ripartiti. Si vedevano perfettamente iBlock dell'FKL. Presso il filo spinato di nuovo c'erano i pfleger che gridavano saluti alle ragazze, le quali dall'altra parte dello scalo gridavano loro in risposta. Tornai col pallone e lo diedi per il calcio d'angolo. Fra il primo e il secondo corner, alle mie spalle, erano state gassate tremila persone. " (Tadeusz Borowski) Le motrici si spostano sui binari. M'affaccio dal vagone: sento odore di catrame, carbone, plastica bruciata. Gli edifici hanno l'aspetto di palizzate durante l'assedio. Sembra di essere giunti al capolinea della civiltà industriale. Il silenzio viene rotto dal fragore delle porte sbattute. Osservo le pensiline di legno, i blocchi compatti di cemento dalle finestre schermate. All'interno dei laboratori ci sono i torni, le frese.
Vedo bacheche attaccate alle pareti del casello ferroviario con fogli ingialliti di vecchie classifiche, probabili circolari ad uso interno. Uccelli scuri, spaventosi, si levano in cielo. L'attesa è lenta, sfibrante fra questi depositi di materiale elettrico, fili aggrovigliati, vecchie cassette di legno, barattoli, arnesi da lavoro, macchie di petrolio incrostato. Rauchi altoparlanti annunciano arrivi. Gli operai lavorano in mezzo a serbatoi di liquidi nerastri: trascorrono ore impegnati nella fatica; ogni tanto si tirano su la cinta dei pantaloni, sistemano il berretto, rifanno il nodo delle scarpe.
"'Sessantadue persone stipate in un vagone diventano fatalmente, prima o poi, sessantadue nemici che combattono fra di loro per ogni centimetro quadrato di spazio. E la lotta si faceva sempre più penosa, c'era chi aveva perduto ogni nozione d'umanità e il desiderio di riposo rendeva feroce verso il vicino. " (Corrado Saralvo) Siamo di nuovo nella retrovia polverosa, fra carri, letame, alluminio, camicie appese ad asciugare, mucche, stufe di ghisa, villaggi da quattro case, una cupola sverniciata, il deposito d'acqua. Migliaia e migliaia di esseri umani sono passati di qui: la fila interminabile dei vagoni maledetti attraversava l'Europa come un bruco orripilante. Le ferrovie tedesche fatturavano alla Polizia di sicurezza i trasporti dei deportati. Il biglietto era calcolato in base ai chilometri effettivamente percorsi: tratta unica. Yitzhak Katzenelson, poco prima di venire deportato ad Auschwitz, descrisse in un "cantare" la stupefazione dell'uomo che vede morire il suo popolo, moglie, figli, parenti e si chiede perché senza trovare risposte. Guarda i cavalli e i treni che trasportano gli ebrei nei Lager; trova la forza d'immaginare che, se gli animali sapessero la direzione a cui sono avviati, s'impennerebbero fermando le ruote del carro; e se i convogli potessero ragionare, la deportazione non potrebbe proseguire. "Non è colpa vostra" - egli dice rivolto ai vagoni - "vi caricano e poi vi dicono: andate!" La personificazione dei macchinari adibiti allo sterminio che vanno e tornano dal ghetto di Varsavia ai campi, testimoni muti che tutto hanno visto e non sanno parlare, possiede un'intensità fosforica. È questo il vuoto logico, il rumore sordo impossibile da dimenticare. Arriva il momento in cui gli straordinari cronisti che ho letto mi prendono la mano e io li seguo in silenzio, nel buio filosofico, cercando soltanto di mettermi a loro disposizione.
"'Liberi da ogni censura sociale, i giovani si lasciavano andare apertamente ai loro istinti e col favore della notte si accoppiavano in mezzo a noi, senza preoccuparsi di nessuno, soli nel mondo. Gli altri facevano finta di non vedere. " (Elie Wiesel) A un certo punto scendiamo per proseguire a piedi. Accanto ai binari c'è un sentiero sassoso diviso in due dalla striscia d'erba. Percorrendolo ho avuto l'impressione di essere finalmente giunto dove volevo. Come sapevano i greci, si scopre solo quello che già conosciamo, si parte sempre per ritornare. Raccogliamo il testimone di chi ci ha preceduto facendo sì che l'illusione del senso non vada smarrita. Sul terriccio dove è morto un uomo, dopo gli insetti, arrivano croci, scarpe, stivali, si pronunciano nuove parole. Qualcuno getta via le sagome storte per rifare altre formazioni, nuovi schieramenti.
Camminiamo in un gorgo scenico: la casa di legno alla nostra destra ha le finestre grandi come il portone d'ingresso: perché? E questo palo della luce, in mezzo alla strada deserta, con il canestro da basket montato a tre metri d'altezza, cosa significa? Ci sono forse ragazzi che giocano qui intorno? Alzo gli occhi sul cartello pubblicitario enorme, isolato nella pianura: BIRRA OKOCIM, due uomini si sfidano in una gara di braccio di ferro.
"Alla stazione del campo, quando aprivano le porte scorrevoli dei vagoni, non si muoveva niente, gli ebrei erano per lo più morti in piedi, morti di freddo, morti di fame, e si dovevano scaricare i vagoni come se ci fosse stato del legname, per esempio, e i cadaveri cadevano tutti rigidi sul marciapiede della stazione, ce li ammucchiavano, per portarli poi, a camion interi, direttamente al crematorio" (Jorge Semprun, 1990) Durante la marcia tengo una bottiglia d'acqua minerale con la punta delle dita. A ogni villaggio frotte di bambini ci corrono dietro solo per qualche metro, poi, non reggendo il ritmo, abbandonano. Sotto i ponti, sulla ghiaia, vedo un'automobile color arlecchino: forse qualcuno ci dorme dentro. Percorriamo lunghi viali spogli dove passano pochi veicoli traballanti sugli ammortizzatori che andrebbero sostituiti. Dalle finestre si affacciano rari abitanti: la nostra presenza li incuriosisce. Cento metri più in là c'è la linea ferroviaria.
A casa, aprendo Cosmo, mi sembrerà di veder riassunta questa giornata: "Sudore, Fuks cammina, io dietro, pantaloni, tacchi, polvere, ci trasciniamo, ci si trascina, la terra, le carreggiate, le zolle, pietruzze luccicanti, bagliori, l'afa ronza, il caldo trema, il sole è nero, casette, siepi, campi, boschi, questa strada, questa nostra marcia, da dove, come mai, ci sarebbero da dire un sacco di cose". (Witold Gombrowicz, 1966) Entriamo in quello che dovrebbe essere un supermercato a chiedere informazioni. Nel locale enorme c'è soltanto la cassiera, qualche bottiglia, una fila di buste. Mentre Eusebio discute, io mi piazzo al centro del negozio sapendo di essere ormai nient'altro che un corpo in movimento. La donna dalla faccia dolce e butterata sta facendo ampi gesti per indicare la via. Continua a parlare anche quando siamo già distanti da lei e non possiamo più sentirla.
Camminiamo all'infinito, senza pronunciare una sola parola, sotto cieli d'ovatta bollente, fra sterrati e marciapiedi, inanellando una lunga serie di strade secondarie, nella primissima vampa pomeridiana, tutti e tre immersi nel bagno di sudore del fondista poco allenato. Accanto a noi si susseguono pinete dall'odore nauseabondo, cascine disabitate, canali stagnanti. I camion ci sorpassano come sporadici insulti di polvere e sabbia: i conducenti sono immobili dentro gli abitacoli, sprofondati nel gesto che stanno eseguendo, fedeli all'immagine dell'autotrenista fino al midollo spinale.
"Ora si vede meglio: nella luce dell'alba affiorano per chilometri e chilometri, a destra e a sinistra delle rotaie, i contorni di un campo mostruosamente grande. Doppi e tripli recinti di filo spinato si estendono senza fine; torri di controllo, riflettori e lunghe colonne di figure umane, vestite di brandelli, grigie nel grigiore dell'alba. " (Viktor E. Frankl) Guardo le scarpe coi fili d'erba intrecciati in mezzo ai lacci, la tela rattrappita dei calzoni. I miei amici proseguono stanchi, incantati come spettri selvaggi. Ogni venti minuti beviamo un sorso d'acqua minerale: quando il liquido si ribalta, le bollicine sembrano esplodere dentro la bottiglia. Poi riprendiamo sempre più veloce, quasi di corsa.
"Venne a un tratto lo scioglimento, ha portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata dai riflettori:' (Primo Levi, 1983) La stazione di Oswicim oggi assomiglia a un vecchio lavandino pieno di incrostazioni calcaree che non vanno più via, neppure con l'acido. Sulla strada davanti ai binari transitano furgoni, camion, autotreni. Il diciassettesimo giorno, finalmente, siamo arrivati.
Non sembra vero, eppure è così. Mi guardo intorno con gli occhi velati dalla stanchezza. Una ragazza afferma che i salesiani sono più in là, oltre il quartiere cresciuto attorno al campo. Mentre cammino, respiro forte l'aria polacca. Avanziamo spaiati sul marciapiede bianco sporco, come incursori che stanno entrando nella città occupata dal nemico. C'è una fila di palazzi alla nostra sinistra: nient'altro. Davanti si vedono alcuni alberi stranamente potati. Ci dirigiamo verso quella direzione.
La chiesa dei salesiani, un blocco di cemento armato nel verde, si trova in fondo alla strada. Alcuni uomini, da dietro il cancelletto, appena ci vedono salutano in italiano: forse hanno sentito le voci in avvicinamento. Padre Arturo ha studiato a Torino, ecco perché parla così bene la nostra lingua. Ci assegna due stanze all'ultimo piano. Il campo è a duecento metri: impazienti, decidiamo di visitarlo subito. Il tempo di attraversare la strada, qualche passo e siamo nel piazzale antistante l'ingresso.
Sbucando dal prato ci troviamo in mezzo al parcheggio intasato di veicoli, auto, pullman e torpedoni, come se fossimo nei pressi di una località turistica. Incredibile: due passi più in là c'era il deserto, qui la folla s'accalca. Le targhe provengono da tutta Europa. Gente di ogni nazione. Ho attraversato un tunnel buio: adesso la luce risulta abbagliante. Nella hall mi sento frastornato: l'assoluta concentrazione del viaggio ostacola questo brusco rientro nella quotidiana promiscuità. Troppi cartelli, troppe indicazioni. Due settimane per arrivare, senza pensare ad altro che a questo. E ora? Ecco Auschwitz. Cos'altro credevi che fosse?
"Tacere è vietato, parlare impossibile." (Elie Wiesel a Jorge Semprun, 1995) "// minimo che ci vorrebbe, per capire, sarebbero le esalazioni dei corpi umani, l'odore e le emanazioni della paura, l'aggressività compressa, la vita mutilata. " (Ruth Kluger) Scrivo sotto dettatura.
Dietro le vetrate: capelli bianchi, un tempo neri,
biondi, rossi. Occhiali, spazzole, scarpe, pennelli da barba, bacinelle, valigie con nome e indirizzo. Corredi per neonati, carrozzine. Arti falsi. Protesi. Fotografie segnaletiche dei deportati. Il Blocco della Morte. La cella di padre Kolbe. I canili dove venivano rinchiusi i prigionieri. La camera a gas. La forca di Rudolf Hòss. Il gas Zyklon B. Le immagini delle selezioni. I vestiti dei bambini. La scodella della zuppa. I numeri tatuati sulla pelle, le stelle di David, i triangoli rossi (detenuti politici), verdi (delinquenti comuni), neri (prostitute e "asociali"), rosa (omosessuali), viola (fondamentalisti cristiani). La schedatura, la fame, i topi, gli insetti, le mutilazioni permanenti, i colpi di pistola alla nuca, la tortura sistematica, gli appelli, le impiccagioni, i disegni fatti con le unghie sulle pareti delle celle, le garitte, le torrette, le epidemie di tifo, febbre, dissenteria, scabbia. I fori del gas nelle finte docce, la morte per soffocamento, gli spioncini attraverso cui ufficiali delle SS osservavano l'agonia delle vittime, i cadaveri accatastati l'uno sull'altro, l'estrazione dei denti d'oro, lo sciacallaggio di anelli, orologi, collane, orecchini.
"// cupo mistero di quanto accadde in Europa non è per me separabile dalla mia stessa identità. Proprio perché non ero là, perché un caso fortunato tolse il mio nome dall'elenco." (George Steiner) Seguiamo la guida polacca limitandoci ad annuire con la testa a ogni illustrazione. È un uomo di mezza età che ha imparato l'italiano sui libri di scuola: mentre parla, ho l'impressione che qualcuno abbia abbassato l'audio della sua voce e, ciononostante, io riesca a sentire tutto quello che dice. Dal movimento delle labbra decifro i pezzi di pane nero, le brodaglie, i calci, le bastonate, le fustigazioni, gli assiderati, le tazze che servivano per mangiare e per i bisogni corporali, le aziende interessate all'acquisto di forza lavoro (Krupp, Siemens, Bayer), i cadaveri bruciati a coppie di grassi e magri (donna e bambino, obeso e scheletrico), le radiazioni nella zona dei genitali e le successive evirazioni ordinate dal dottor Schumann, le teste di 150 "commissari ebrei bolscevichi" consegnate al professor Hirt dell'Università di Strasburgo, le centinaia di sterilizzazioni praticate dal professor Clauberg dell'Università di Kònigsberg, i famigerati esperimenti genetici sui gemelli del dottor Mengele. Il sussidiario dell'orrore, declinato come le osservazioni artistiche registrate ai microfoni nelle navate delle chiese occidentali, è un volume impolverato, dalla copertina consunta: rischia di assomigliare agli orari dei treni nelle scaffalature metalliche di qualche ufficio statale. Sta a noi distinguere le carte dai corpi, l'informazione dai fatti, il restauro dal disegno originario. Non è un compito facile soprattutto per chi rigetti, considerandola falsa, ogni prospettiva monoculare.
Un binario collega Auschwitz al campo grande di Birkenau: seguendolo, andiamo a piedi dall'uno all'altro. Sono circa tre chilometri. Intorno il paesaggio è sempre lo stesso: depositi industriali, magazzini, costruzioni basse, anonime. Discutiamo del Diavolo, così come talvolta appare disegnato nella carta dei tarocchi: la berretta a pallini colorati, gli arti asimmetrici sospesi nel vuoto, l'espressione divertita. Quando spunta la torre del portone principale, sembra di averla già vista cento altre volte. Dove? Nelle fotografie sui libri, nei documentari televisivi, in certe inquadrature cinematografiche: Alain Resnais {Notte e nebbia, 1956), Claude Lanzmann (Shoah, 1985), Steven Spielberg (Schindler's List, 1994).
Come i giovani soldati russi a cavallo che, alla fine del gennaio 1945, per primi avanzarono fra questi reticolati, anche noi procediamo guardinghi, oppressi da quello che Primo Levi in La tregua definì "un confuso ritegno". Fiancheggiamo il binario fino al punto dove avvenivano le selezioni: il medico nazista si metteva al centro e con un cenno della mano divideva la fila. A destra si andava al campo, a sinistra al gas. Rudolf Vrba, protagonista di una fuga da Auschwitz, lavorò alla banchina delle selezioni dal 18 agosto 1942 al 7 giugno 1943: "C'erano la rampa, i riflettori, e sotto i riflettori le SS allineate; ad ogni metro una SS con l'arma in pugno. Noi stavamo in mezzo, noi prigionieri, in attesa del treno, in attesa di ordini. Quando tutto era pronto arrivava il convoglio. Avanzava molto lentamente; la locomotiva sempre in testa giungeva alla rampa. Era la fine della linea, la fine del viaggio" A differenza del campo di Auschwitz, qui tutto è grande, immenso.
aA Birkenau stavo in piedi per l'appello e avevo sete e paura di morire. Ecco tutto, ecco quel che è stato. " (Ruth Kluger) Le parole della guida risuonano come tamburi battenti: i lavori forzati nel ghiaccio con gli zoccoli rotti, i piedi nudi, i cani addestrati ad azzannare i prigionieri, i malati divorati dai ratti. La baracca femminile numero 25 dove si moriva condannati all'inedia. Le fucilazioni estemporanee, secondo il capriccio dei sottufficiali. La liquidazione totale degli zingari, il 2 agosto 1944: 2897 morti in un solo giorno. Lo sterminio degli ebrei ungheresi in quella stessa tragica estate: mezzo milione di morti, mentre l'esercito sovietico ormai sfondava le linee sul fronte orientale. I forni crematori lasciati nelle macerie che i nazisti, nel tentativo di cancellarli, provocarono. Le ceneri umane nel laghetto, le cui acque, a causa della decomposizione dei cadaveri, presto si avvelenarono. Il Settore III chiamato "Messico" dove i prigionieri erano seminudi, in terra, coi parassiti. I magazzini del "Canada" ricchi di merci rubate ai deportati in arrivo. Le famiglie divise, frantumate.
"Bambini e donne, giovani e vecchi furono trascinati nudi incontro alla morte da uomini che avevano spezzato ogni legame sentimentale di identificazione e di simpatia. Inoltre, poiché queste persone condotte inermi alla morte erano raggruppate a caso, ognuna di esse si trovava abbandonata e sola in mezzo ad altre persone che non conosceva. " (Norbert Elias) Le madri che, sapendo di essere destinate al gas se colte insieme ai figli, per salvarsi, fanno finta di non riconoscerli: "Ecco, una donna cammina svelta, affrettando impercettibilmente ma febbrilmente il passo. Un bimbetto di pochi anni dal viso rubicondo e paffuto di cherubino le corre appresso, non riesce a tenerle dietro, allunga le manine frignando: - Mamma1, mamma!Donna, e piglia in braccio quel bambino! -Signore, signore, non è mio quel bambino, non è mio! - grida istericamente la donna e fugge coprendosi il viso con le mani. " (Tadeusz Borowski) Qui avvennero casi di cannibalismo: furono trovati cadaveri deturpati da morsi umani. I Block di legno, antiche stalle da campo, erano divisi in stanzoni chiamati baracca: vi alloggiarono fino a mille detenuti. Guardo le cuccette di paglia squilibrate, ormai in dissesto. Il legno delle travi s'incrina. Il pavimento è sfondato in diversi punti. Giro intorno a quelli che un tempo erano i servizi igienici: venti buchi aperti in file contrapposte. Immagino le scene.
Il tempo della pace che sta scardinando le strutture portanti s'identifica con quello da me vissuto: sono cresciuto nell'eco dei colpi di fucile, in una bolla d'aria contro la quale alcuni miei coetanei, rifiutando ciò che ritenevano fosse un silenzio storico, hanno lanciato bombe e bottoni. Io, immobile fra due pareti di calce bianca, non riuscivo a condividere nessuno sdegno.
Esco all'aperto verso le lapidi multinazionali, il monumento ai caduti. Auschwitz viene conservata sotto vetro nei Paesi dell'Est, incastonata nella Polonia come un minerale in bacheca coperto di polvere. Fra qualche secolo diventerà un'altra specie di Rapa-Nui?
Nel Lager tutto era inaudito. C'erano le SS, demoni inaccessibili e solenni agli occhi dei reclusi, c'erano i capiblocco, prigionieri eletti a dittatori assoluti, c'erano i Sonderkommando, ai quali veniva affidata la gestione dei crematori: la loro ribellione, nell'autunno del 1944, fu repressa nel sangue. Il capobaracca distribuiva il cibo, badava alla pulizia, aveva un potere illimitato sui prigionieri e, soprattutto, non lavorava. Il capoblocco controllava i pasti, verificava l'appello, eseguiva le punizioni corporali. Il Kapò guidava un gruppo di lavoro. Distribuiva la zuppa, picchiava, spesso aveva alle sue dipendenze un ragazzo chiamato "Piepel", talvolta uccideva.
Auschwitz era, secondo le parole di Otto Friedrich, "un impero penitenziario" grande come una città di provincia. Al suo interno, per quanto assurdo e incredibile possa oggi apparire, funzionavano la biblioteca, lo stadio di calcio, la panetteria, l'orchestra, il bordello, una conceria, gli ospedali; questa tensione strutturale, quasi le spoglie sfigurate della cultura di sorveglianza e punizione messa a punto - lo ha illustrato Michel Foucault - dalla cultura occidentale moderna, non può essere facilmente compresa, soprattutto se teniamo presente lo scopo essenziale che doveva realizzare: la distruzione definitiva degli ebrei.
"// mito nazi è la costruzione, la formazione e la produzione del popolo tedesco nell'opera d'arte, mediante l'opera d'arte, come un'opera d'arte." (Lacoue-Labarthe, Nancy) La contrapposizione speculare nei confronti del popolo ebreo non avrebbe potuto essere più radicale. Se l'Olocausto, come pensava Andre Schwarz-Bart in JJultimo dei Giusti, va collocato in un lungo percorso storico-spirituale dell'essere ebraico, la risposta alla volontà di potenza nazista dovremmo cercarla nel codice familiare, nella costanza genetica, regolare e ineluttabile, attraverso cui i figli si susseguono ai padri. Infatti, secondo la Leggenda, il legame di popolo e stirpe è assicurato dai 36 Giusti che in ogni generazione assumono su di sé la sofferenza degli altri uomini rendendone possibile la sopravvivenza in un mondo carico di dolore.
"L'idea di umanità, una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica questa gravissima conseguenza: che gli uomini, in una forma o nell'altra, devono assumere la responsabilità di tutti i crimini commessi dagli uomini e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte le altre. La vergogna di essere un essere umano è l'espressione puramente individuale e pre-politica di questa visione. " (Hannah Arendt) Ivan Illich (in David Cayley), sostiene un'altra posizione: UA meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di quelle cose per cui posso fare qualcosa; e non posso fare a meno di ridere di quei ragazzi, organizzati da alcuni miei amici, che sfilano per le strade di una città occidentale gridando: 'Non vogliamo il surriscaldamente del pianeta! Siamo contro l'inquinamento!' Danze della pioggia. " Ivan Illich, fra i più importanti teologi contemporanei, è un sacerdote che avrebbe potuto raggiungere i vertici della burocrazia vaticana: preferì trascorrere cinque anni fra i portoricani di New York.
Torniamo verso Oswiejcim.
Nel 1940, allo scoppio della guerra, Walter Hasen-claver (50 anni), viene internato dai francesi in un campo di concentramento. Quando, dopo la firma dell'armistizio, i tedeschi ne rivendicano l'amministrazione, egli si suicida a ferragosto, in località Les Milles, alle Bocche del Rodano. Circa un mese e mezzo dopo, un altro Walter, Benjamin (48 anni), in procinto d'imbarcarsi per gli USA, è fermato dalle autorità spagnole a Port Bou. Non volendo essere riconsegnato ai nazisti, il 26 settembre s'avvelena. Il 28 marzo 1941 Virginia Woolf (59 anni) si lascia cadere nel fiume Ouse, a Lewis, nel Sussex. Nel 1942, durante il carnevale di Rio, Stefan Zweig (61 anni) si toglie la vita insieme alla donna che ama: "Saluto tutti i miei amidi Che possano vedere l'alba che succede a questa lunga notte! Io, troppo impaziente, li precedo".
Martedì 28 agosto 1943, in un ospedale di Ashford (Kent), verso le ventidue e trenta, Simone Weil (34 anni), sfinita dall'anoressia, porta a termine "l'atto di suprema obbedienza", cioè, nell'interpretazione di Simone Pétrement, "il consenso alla morte".
La prospettiva secondo cui il disastro del Novecento poggia sulle spalle dei suicidi, come se molti di loro avessero assunto - lo abbiano saputo oppure no - la funzione di capro espiatorio nel tempo dei massacri, degli stermini, dei genocidi e delle prove atomiche, mi ronza nella testa come un moscone impazzito contro il vetro: la trovo ideologica e quindi errata. Alvarez però la enuncia in modo tale da renderla efficace: "Quella consapevolezza di una morte onnipresente, arbitraria - che colpisce come una peste medievale sia il giusto che l'ingiusto, senza motivo o preavviso - è, a mio parere, uno dei punti centrali della nostra esperienza del ventesimo secolo. "
"L'idea di umanità, una volta liberata da tutti i sentimentalismi, implica questa gravissima conseguenza: che gli uomini, in una forma o nell'altra, devono assumere la responsabilità di tutti i crimini commessi dagli uomini e che tutte le nazioni devono sopportare il peso del male commesso da tutte le altre, ha vergogna di essere un essere umano è l'espressione puramente individuale e pre-politica di questa visione. " (Hannah Arendt) Ivan Illich (in David Cayley), sostiene un'altra posizione: "A meno che io non sia pazzo, posso essere responsabile soltanto di quelle cose per cui posso fare qualcosa; e non posso fare a meno di ridere di quei ragazzi, organizzati da alcuni miei amici, che sfilano per le strade di una città occidentale gridando: 'Non vogliamo il surriscaldamento del pianeta! Siamo contro l'inquinamento!' Danze della pioggia." Ivan Illich, fra i più importanti teologi contemporanei, è un sacerdote che avrebbe potuto raggiungere i vertici della burocrazia vaticana: preferì trascorrere cinque anni fra i portoricani di New York.
Torniamo verso Os'wie_cim.
Nel 1940, allo scoppio della guerra, Walter Hasen-claver (50 anni), viene internato dai francesi in un campo di concentramento. Quando, dopo la firma dell'armistizio, i tedeschi ne rivendicano l'amministrazione, egli si suicida a ferragosto, in località Les Milles, alle Bocche del Rodano. Circa un mese e mezzo dopo, un altro Walter, Benjamin (48 anni), in procinto d'imbarcarsi per gli USA, è fermato dalle autorità spagnole a Port Bou. Non volendo essere riconsegnato ai nazisti, il 26 settembre s'avvelena. Il 28 marzo 1941 Virginia Woolf (59 anni) si lascia cadere nel fiume Ouse, a Lewis, nel Sussex. Nel 1942, durante il carnevale di Rio, Stefan Zweig (61 anni) si toglie la vita insieme alla donna che ama: "Saluto tutti i miei amici! Che possano vedere l'alba che succede a questa lunga notte! Io, troppo impaziente, li precedo".
Martedì 28 agosto 1943, in un ospedale di Ashford (Kent), verso le ventidue e trenta, Simone Weil (34 anni), sfinita dall'anoressia, porta a termine "l'atto di suprema obbedienza", cioè, nell'interpretazione di Simone Pétrement, "il consenso alla morte".
La prospettiva secondo cui il disastro del Novecento poggia sulle spalle dei suicidi, come se molti di loro avessero assunto - lo abbiano saputo oppure no - la funzione di capro espiatorio nel tempo dei massacri, degli stermini, dei genocidi e delle prove atomiche, mi ronza nella testa come un moscone impazzito contro il vetro: la trovo ideologica e quindi errata. Alvarez però la enuncia in modo tale da renderla efficace: "Quella consapevolezza di una morte onnipresente, arbitraria - che colpisce come una peste medievale sia il giusto che l'ingiusto, senza motivo o preavviso -è, a mio parere, uno dei punti centrali della nostra esperienza del ventesimo secolo. "
Ceniamo in uno degli ultimi esercizi gestiti dallo Stato, le cui insegne cubitali, RESTAURACJA, stanno per essere smontate: ce lo hanno consigliato due vecchiette sdentate sedute sugli scalini di casa. Nei tavoli accanto al nostro, uomini in canottiera a righe si battono l'uno contro l'altro i pugni sul petto, ubriachi. La cuoca, panciuta e solenne, esce dalla cucina per redarguirli: indica noi, unici clienti del locale, come per dire: un po' di rispetto!
Penso ai tre moschettieri della letteratura polacca, così li chiamava Angelo Maria Ripellino. Tre cavalieri. Tre bislacchi. Tre "wariaci", tre pazzi: Bruno Schulz, "pazzo sommerso", Stanislaw Witkiewicz, "pazzo disperato", Witold Gombrowicz, "pazzo ribelle".
Witkiewicz, quando seppe che le truppe sovietiche, in applicazione del trattato Ribbentrop-Molotov, avevano varcato il confine orientale della Polonia, già attaccata dai nazisti, si tolse la vita nei pressi di Jeziory, il 18 agosto 1939. Tanti anni prima era stato in Australia come disegnatore e fotografo insieme all'amico Bronislaw Malinowski per dimenticare il suicidio della fidanzata J.Janczewska. Bruno Schulz, durante l'invasione nazista, restò a Drohobycz, protétto da un maggiorente della Gestapo, Feliks Landau, che gli commissionò il proprio ritratto. Il 19 novembre 1942 Schultz fu sorpreso in un rastrellamento da un altro SS, Karl Gunther, nemico di Landau, il quale uccise lo scrittore con due colpi di pistola. "Hai ucciso il mio giudeo e io ho ucciso il tuo." Witold Gombrowicz morì nel 1969 a Vence per insufficienza respiratoria e infarto.
" Quei quattro milioni di ebrei massacrati sono come l'Himalaya! Proibirei questa ingenuità tipicamente polacca, secondo la quale solo alle vette c'è qualcosa da scoprire. Alle vette non ci si trova niente, c'è neve, ghiaccio e rocce-ci sono tante cose invece da vedere nel proprio giardinetto." (Witold Gombrowicz, 1970) Dopo la marcia di stamani, abbiamo una fame da lupi. Inzuppiamo nel latte l'unico dolce farinoso disponibile. Ci sono mosche morte sui tavoli davanti alla vetrina. Non facciamo che alzarci e andare a chiedere un'altra tazza, un altro dolce, a turno, per una quantità di volte, nel gioco degli spiccioli arrugginiti che entrano ed escono dalle tasche.
È passata sotto i miei occhi una Polonia di officine meccaniche, antiquate carlinghe al centro della campagna, ampi spazi, marciapiedi enormi, vita semplice da riserva indiana. Quando s'è fatto buio non riuscivamo più a trovare la strada per la chiesa salesiana. Una coppia di giovani ci ha condotto alla fermata del tram: studenti universitari di Cracovia, facoltà umanistiche.
Ho chiesto a entrambi quale sia, in questo secolo, il loro scrittore polacco preferito: hanno concordato sul nome di Witold Gombrowicz. Il fatto di sentirmelo dire così, senza tentennamenti, al termine della giornata in cui il suo spirito aveva spesso aleggiato, è stata una conferma. Guardo questi giovani con l'ammirazione dolorosa che generalmente riservo agli spettacoli della natura. Lui indossa un giubbotto nero uguale a quello dei suoi coetanei europei. Lei ha il foulard legato al collo. Va tutto bene, dico a me stesso, la giostra continua a girare. Poco più in là, come una vecchia uniforme sul manichino, sta il campo.