Il paese delle cicogne
La fronte appoggiata al finestrino, la spalla inclinata, sento di essere un uomo di gesso. Gloggnitz, Wiener Neustadt. Arrivavano i morti, fra sterco e urine, umori mestruali, le teste dei bambini schiacciate in terra come marmellata coi noccioli. Quelli del Sonderkommando li conducevano direttamente nei forni crematori, non prima di averli privati di tutto: denti d'oro, capelli, orologi, fedi nuziali.
Un vecchio mi rivolge la parola in tedesco. Rispondo I don't understand. Lui passa all'inglese - è un cambio di nastro automatico, probabile frutto degli anni d'occupazione: intendeva lamentarsi del ritardo accumulato dal treno. La signora davanti, alzando gli occhi dalla rivista, sorride per scusarlo. E aggiunge: only afew minutes. In Nel corso del tempo di Wim Wenders uno dei due protagonisti esclama: "Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio".
Alla stazione di Medling vedo transitare i primi treni merci diretti in Slovacchia. Sui muri delle pensiline leggo le medesime scritte naziste che a Monza, Ostia, Messina. Ripeto a me stesso: individui come Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka, o come Adolf Eichmann, responsabile del massacro di milioni d'ebrei, non erano mostri. Puramente esecutivi, essi permisero che la macchina dello sterminio potesse funzionare in modo ineccepibile dal principio alla fine.
Rappresentano la normalità, quello stadio preliminare da cui tutti partiamo. Scrive Hannah Arendt a proposito di Eichmann: "Questa capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote non lo abbandonò nemmeno nell'ora della morte".
Erano vuoti dentro, drogati dagli atti che compivano.
A Vienna-Medling resto in piedi mezz'ora davanti all'edicola internazionale per leggere i titoli dei giornali italiani. Sono i giorni del Tour de France; accanto alle notizie sportive, figurano quelle sulle stragi nell'ex Jugoslavia: stupri di massa, omicidi, fosse comuni, pulizia etnica. Nelle pagine interne alcuni autorevoli commentatori invitano il pubblico a contribuire in modo tangibile agli aiuti umanitari. Vengono lanciati appelli di sottoscrizione, allegando i moduli dei conti correnti da riempire. Ci sono le dichiarazioni e le foto di alcuni volontari in partenza per la Bosnia martoriata.
Come sempre più spesso mi capita, avverto tutta l'ipocrisia del solidarismo. Non ci limitiamo a voler salvare la pelle (sarebbe comprensibile e giustificato): bramiamo l'onore che spetta a chi la mette a repentaglio!
" Voglio vivere con l'ineludibile orrore di questi bambini, di queste persone, nel mio cuore e sapere che non posso amarli realmente, attivamente... Non intendo farlo perché lo considero impossibile. Perché far finta che me ne prenda cura?" (Ivan Illich, in David Cayley) A Eisenstadt il paesaggio cambia: grandi piane a perdita d'occhio annunciano la frontiera ungherese. La gente non è più vacanziera. Questi uomini dalle facce stanche, queste donne indaffarate pensano al lavoro, sono intrappolati nel circuito orario della giornata, andata e ritorno dall'ufficio, acquisto dei generi di prima necessità, risoluzione di crisi familiari. È come se, dopo aver lasciato alle spalle il parco giochi della Carinzia, ci stessimo avvicinando a qualcosa d'essenziale.
Prendiamo alloggio nella casa dove abitò Haydn, la gloria del paese. Si tratta di una deviazione rispetto alla linea prefissata. Il fatto è che Vienna, in sé, non avrebbe voluto dir niente. Ci sono già stato un paio di volte. Ne ho abbastanza.
Eisenstadt, al contrario, possiede una risonanza speciale: se leggo questo nome, mi vengono in mente le città termali del XIX secolo, la terra magiara, le giubbe dei cavalleggeri - fin qui le associazioni potrebbero essere lecite - ma poi anche la Bmw M5 nerazzurra, gli zingari, una donna col maglione a collo alto: tutte immagini che, sebbene c'entrino poco o nulla, creano in me proficue alterazioni percettive.
Giro per i polverosi corridoi della vecchia locanda. Trovo un balcone invaso da vespe. Siedo a debita distanza. Apro la cartina geografica: siamo a pochi passi dal lago di Neusiedl. Mi viene voglia di andarci subito, anche per sottolineare una simmetria simbolica con quello di Wòrth. All'andata prendiamo l'autobus, aspettandolo sotto il sole quasi un'ora insieme ad altri pazienti passeggeri. Molte bocche espongono denti d'oro: il che lascia avvertire - per qualche misterioso richiamo - la vicinanza dell'Europa dell'Est, del resto a un tiro di fucile.
Il tragitto in corriera ci conduce, attraverso pianure d'avena, luppolo e minuscoli villaggi, in un avamposto slavo. Le fermate diventano lunghissime perché bisogna far scendere lo zoppo, il mutilato, la nonna e la nipote col materassino gonfio: esistono numerose pozze d'acqua qui intorno dove i bambini fanno il bagno. In una frase rimasta celebre, Metternich dichiarò che l'Asia iniziava di là da Vienna.
Scendiamo a Rust, il paese delle cicogne. In questa stagione i grandi volatili nidificano sui tetti delle case. Li vediamo, a splendide coppie altere, sulle tegole, coi piccoli che appoggiano la testa sulla paglia. Vengono da lontano; hanno percorso i cieli africani per arrivare qui, vicinissimo al lago: è scritto su una targa attaccata al muro dove si vede tratteggiato il lungo itinerario da loro compiuto.
Il ritorno lo facciamo a piedi, sulla strada principale. Quindici chilometri al passo del bersagliere. L'immagine offerta agli automobilisti in corsa verso Eisenstadt dev'essere abbastanza inusitata, stando al numero di coloro che si voltano incuriositi. Potrei stilare una lunga lista di queste occhiate: quella falsamente distratta del conducente; quella fissa, attonita, del contadino impegnato nel lavoro; quella giocosa, senza doppio fondo, del bambino in ginocchio sui sedili posteriori; quella, ironica e divertita, di certe signore.
Durante il tragitto in autobus, sono anch'io attirato da un uomo con il collo enorme seduto in panchina accanto ad alcuni amici, uno dei quali, a sua volta, mi redarguisce con lo sguardo per aver sottolineato, seppure istintivamente, la mostruosità che forse lui avrebbe voluto tutelare, proteggere.
Sostiamo davanti all'epigrafe monumentale dedicata alle vittime austriache delle due grandi guerre, quasi tutti giovani, giovanissimi, morti a venti, ventun anni. La stessa età della prostituta che, dieci metri più in là, sta parlando con un cliente: sarà per via delle barbe lunghe, delle facce stanche, dei vestiti sporchi, o per il fatto stesso di essere sul ciglio della strada, ma avverto un terreno comune, qualcosa d'inesprimibile che ci lega.
Fania Fénelon, orchestrale ad Auschwitz-Birkenau, ricorda la festa che le prostitute, al vertice dell'organizzazione gerarchica nel campo, diedero la stessa notte in cui le SS decisero di annientare gli zingari: "Dappertutto c'erano donne che si baciavano, si abbracciavano, si carezzavano, sdraiate sui tavoli, scivolando sul pavimento... ".
Andiamo avanti all'impazzata. In certi punti cerco di scantonare nei sentieri laterali. Ma i viottoli finiscono spesso in aperta campagna. Polvere, sudore, zolle di terra schiacciate sotto le scarpe. Alcuni contadini riparano un aratro color arancione: dev'essere molto vecchio, a giudicare dalla ruggine. Fra gli alberi fitti vedo comparire un disco metallico sospeso nel vuoto con relativa coppia di fidanzati a bordo: è l'ingresso posteriore del luna park. Le bandiere austriache, alte sui pennoni davanti alle insegne del parco, sono formidabili. Torniamo sulla statale. Un paio di ciclisti, in salita, scendono e proseguono a piedi spingendo la bicicletta. Li raggiungiamo, poi loro risalgono in sella e s'allontanano.
Verso la periferia di Eisenstadt si vedono le prime fabbriche, i concessionari d'automobili, gli operai dei cantieri che riprendono il lavoro, forse interrotto nelle ore di maggior calura: vorrei chiedere a ognuno di essi l'età, le malattie e gli incidenti avuti, le scuole che ha frequentato, dove abita, chi è sua moglie, come l'ha conosciuta, chi sono i suoi figli, in quale modo trascorre il tempo libero, a cosa pensa con vera intensità. Ma questo non è mai possibile saperlo, né in viaggio, né a casa: sembriamo nati tutti dal nulla, come funghi nella boscaglia dopo una pioggia improvvisa.
Il paesaggio diventa una specie di meccano: compaiono stabilimenti, officine, supermercati, infrastrutture. Danno l'idea di pupazzi malfatti nell'angolo di gioco che un gigante infantile ha messo a soqquadro. La città è vicina. Comincia la pista ciclabile: finisce la paura della polizia che avrebbe potuto fermarci, chiedere i documenti, fare domande. Cosa avremmo risposto? Che stiamo andando in pellegrinaggio ad Auschwitz per celebrare dentro noi stessi la ricorrenza dei cinquantanni dalla fine della seconda guerra mondiale che i loro padri hanno perso?
Quasi in prossimità del centro, una ragazzina sta aprendo la porta di casa. Mentre transitiamo si ferma e ci fissa con occhi mobili, intelligenti. Credo abbia continuato a guardarci, anche quando siamo passati. Non ci capisce. E come potrebbe?