La zuppa è bollente
Sotto una pioggerellina tiepida ci avviamo verso la stazione ferroviaria, non prima di aver fatto, contando gli ultimi spiccioli in scellini, la nostra solita piccola spesa preventiva al supermercato della catena Bilia: panini, strudel, acqua minerale. Il treno parte alle 9,25. Nell'atrio noto un viaggiatore solitario, vestito in modo trasandato, dall'apparente età di cinquant'anni, sacca sulle spalle, cartina geografica in mano, occhiali da vista che scendono sul naso, pronto a chiedere informazioni allo sportello: diventerò come lui?
Primo cambio a Neusiedler-See dove prendiamo la coincidenza per Vienna-Sud. Ci accompagna una scolaresca di bambini con tre maestre-condottiere. I ragazzini impugnano bandierine di riconoscimento. Indossano magliette con il dinosauro e la scritta Dino. Giocano sui sostegni sfoggiando l'agilità di piccoli acrobati. Accanto a noi, un giovane dalla pettinatura del mohicano li redarguisce con lo sguardo.
Alla Stazione sud cambiamo ancora per quella nord: nella breve attesa della coincidenza, visitiamo l'adiacente Prater. Lo ricordo tanti anni fa. Oggi, accanto alla celebre ruota, hanno posto una giostra che volteggia per aria: in Italia si chiama Il Pirata; in Austria Ylmperator. Penso alla battaglia contro il Solimano che Ferdinando I riuscì a fermare in extremis alle porte dell'Occidente, poco distante da qui, nel 1529.
Nello scompartimento del treno per Bratislava incontriamo due turisti americani. Il padre di lui era slovacco: il figlio ora va a cercare le proprie radici; con un pennarello evidenzia sulla carta geografica le tappe del suo avvicinamento. Gli chiedo qualche ragguaglio: risponde gentile e austero, sembra un generale Patton. La moglie, originaria di Nicosia e devota di padre Pio, è andata fino in Puglia. Raccontiamo loro lo scopo del nostro viaggio: ci guardano ammirati chiedendo se compariranno nel libro che scriveremo.
Appena varcata la frontiera slovacca, il panorama cambia: è uno stacco netto, la divaricazione lacerante fra due opposte idee della vita che si sono combattute fino a ieri l'altro. Enormi agglomerati grigi, condominiali, fanno pensare all'edilizia sovietica. La vegetazione, paragonata al giardino austriaco, è quasi selvaggia, con le piante che invadono i binari. I treni e gli autobus sono sporchi, malandati, reduci da chissà quali avventure.
Alla stazione di Bratislava ragazze truccate in modo vistoso espongono una sensualità aggressiva. Gli adolescenti, riuniti in piccole bande, danno l'idea di essere pronti ad azzannare chiunque passi. Attraversando la zona adiacente, è come se penetrassimo in un caravanserraglio di uomini tatuati, bottiglie in terra, sguardi spenti. I grandi uffici spogli mettono paura. Le fisionomie alludono a un crocevia asburgico, slavo e zigano.
Percorriamo la lunga strada verso il centro: l'impatto con una città in pieno cambiamento dopo la fine del comunismo e all'indomani della dichiarazione d'indipendenza slovacca non potrebbe essere più forte. Pur avendolo previsto, mi sorprende lo stesso: non è così per tutti i viaggi del nostro tempo? Sappiamo ogni cosa in anticipo, tuttavia la conferma resta fondamentale. O dobbiamo prepararci all'idea che il progresso informatico abolirà, in un futuro prossimo venturo, l'antico scarto fra teoria e pratica?
Per la prima volta, da quando siamo partiti, avverto uno strappo rispetto all'Italia. L'albergo a cui avevo pensato non c'è più: al suo posto stanno costruendo una banca. L'Occidente pianta le bandiere. Randagi, raggiungiamo un altro hotel dove ci chiedono di pagare la prima notte in anticipo offrendo un cambio molto svantaggioso. Rifiutiamo. L'impiegata resta delusa. Al centro della Kamenné nàmestie, mentre i tram sferragliano attorno, lascio trascorrere qualche minuto, senza muovere un dito. Stanco, affamato, cerco di prendere tempo.
Osservo la gente alla fermata: sono tutti già visti, appartengono agli anni Cinquanta, oppure agli anni Novanta; sembra scomparsa un'età di mezzo. Il passaggio è stato cruento, l'opulenza capitalistica recide numerose nervature. Resta una sacca intermedia, fra burocrazia e mercato: lo stallo, anche fisico, in cui si ritrovano.
Alzo lo sguardo: vedo tre campanili. Istintivamente facciamo rotta in quella direzione. La prima chiesa è in realtà un ambulatorio; i pazienti in attesa ci guardano con aria interrogativa: entriamo di soppiatto e così usciamo. La seconda porta è chiusa. La terza ha un campanello con su scritto Quo Vadis? Suoniamo.
Dalla finestra si affaccia un uomo, l'aria interrogativa e scarruffata. Parlo direttamente in italiano, rinunciando a ogni mediazione, come avviene nei momenti di crisi. Scende con le pantofole ai piedi, forse stava riposando. Credo sia un sacerdote. Gli mostro la lettera in slovacco dell'Istituto dei Santi Grillo e Metodio: "ERALDO AFFINATI / narodeny, 21,02.1956 v Rime, PLINIO PERILLI / narodeny 7,06.1955 v Rime, Ktori konajù peso put z Benàtok do Osivifdmu-Auschwitz. " La legge con attenzione davanti a noi. Fisso i suoi sopraccigli folti e biancastri, vecchi pennelli da barba dimenticati nel cassetto, in attesa di una risposta positiva. Ci indica, duecento metri più in là, la chiesa dei Cappuccini.
Stesso campanello. Dopo un po', apre la porta un ragazzo coi bermuda colorati, i capelli biondi tagliati a spazzola, la camicia con le maniche corte. Legge la lettera e ci fa entrare. Lo seguiamo attraverso la chiesa, la sagrestia, un crocifisso davanti al quale ci s'inginocchia. Di nuovo le chiavi che aprono e chiudono cancelli, come nell'abbazia di Sankt Paul. Ci porta subito nel refettorio. Mi tolgo lo zaino. Va a prendere in cucina una minestra bianca, sembra latte, con dentro patate, aglio, qualche verdura. Di secondo c'è stufato. Poi il vino, il dolce, la frutta.
Mangiamo e basta. Mastichiamo. Il ragazzo in bermuda ci guarda: parla soltanto slovacco. La lettera è sufficiente: non bisogna dire altro. Basta e avanza. Un paio di giovani circolano attorno a noi mettendo in tavola il pane: se non fosse per il crocifisso di legno appeso alla parete, sembreremmo capitati in qualche comunità di vacanza. Poi arriva Felice, il quale parla italiano e fa le presentazioni. I ragazzi che ci hanno accolto sono frati cappuccini. Il biondo si chiama Mariano. Ma è Felice il pezzo forte: basso, tarchiato, polpacci ipertrofici, occhi miopi e sguardo acuto. Diacono, trentasettenne, ha studiato in un istituto cappuccino di Roma. Dice che la Slovacchia, fino a qualche tempo fa, era uno zoo, un Lager. Usa proprio queste parole, anche pensando al nostro obiettivo.
Intanto noi lavoriamo di mascelle. Io ho la barba lunga, gli occhi spiritati: sento che il viaggio sta prendendo la piega giusta, avverto la sua necessità. Porto il cucchiaio alle labbra, soprappensiero.
"- È bella oggi - dice Rene che la guarda con insistenza. Gli altri due non dicono nulla e io nemmeno. Dopo qualche cucchiaiata, mi fermo un poco. Guardo il livello che è sceso. Ho succhiato la parte più liquida. Anche Rene vede che ormai ne ho molta di meno, che tra poco sarò come lui, e questo lo rassicura. Sono ormai arrivato al denso. La zuppa è bollente, mi sento la faccia congestionata. Non ci chiediamo se è buona, è una domanda inutile: è semplicemente bella. Mangio ancora più lentamente, ma il livello s'abbassa. Mi fermo ancora. Non ne ho più che qualche cucchiaiata. Raccolgo per primo la purée di fave rimasta attaccata alle pareti. La gavetta è quasi vuota. I due compagni non guardano più. Finisco quello che resta. Ora sento che il cucchiaio raschia il fondo. Il fondo appare, non c'è più che lui. La zuppa è finita" (Robert Antelme) Le donne indossano gonne bianche trasparenti: ci sono parecchi tanga a Bratislava. Vicinissima alla chiesa dove alloggiamo, spicca la cattedrale. Entriamo mentre si sta celebrando un matrimonio. Gli invitati sembrano caricature dei nostri sposalizi del dopoguerra. Ascolto l'Ave Maria di Schubert cantata da un soprano accanto all'organo. Il sacerdote esce in mezzo agli sposi, fra le grandi vetrate gotiche, seguito dalla processione dei fedeli, alcuni con gli occhi pieni di lacrime. È la scena di un film in bianco e nero finanziato dallo Stato.
Le facciate delle case, alcune di legno, hanno colori accesi: rosse, gialle, blu. Eppure non riesco a togliermi l'impressione di un vecchiume. La vernice è stata passata in modo frettoloso, i muri mostrano bolle, grinze, rigonfiamenti. Le strade ricordano Istanbul. I bambini camminano scalzi: non si capisce se sono zingari. Penso al cambio folle che la ragazza dell'albergo ci aveva proposto e all'accoglienza successiva. Sabato e domenica le banche sono chiuse: si trattava di un'offerta capestro.
Improvviso compare il Most SNP, ponte della Rivolta Nazionale Slovacca: per costruire questo prodigioso blocco di cemento sul Danubio fu raso al suolo l'intero quartiere ebraico. Saliamo in ascensore sulla torre altissima, al centro della struttura architettonica, dove c'è un ristorante. Giriamo intorno ai tavoli un paio di volte guardando il panorama. Dall'alto le città non hanno veli: Bratislava sembra un soldato stanco coi piedi nell'acqua. Plinio scende a bagnarsi nel Danubio. Le strutture del ponte, geometrie grigio piombo, attirano la mia attenzione. Seduto sulla trave di ferro, sotto le arcate di cemento, spalle al fiume, puoi avere l'illusione di capire gli uccelli neri che volano sui rimorchiatori. Ci spostiamo verso la zona centrale.
Domani arriva Eusebio, il puro di cuore, l'esperto in cinematografie dell'Est, l'uomo che ci guiderà in Slovacchia. Ricordo l'appuntamento preso a Roma, prima di partire: Hotel Kiev, davanti al Charlie Club, ritrovo per cinefili. Sembrava un gioco, invece eccoci qua. Gli lasciamo un messaggio col nostro nuovo indirizzo.
Torniamo in tempo per la messa. Una folla di gente riempie la chiesa. Bambini, giovani, anziani, uomini e donne s'inginocchiano a terra, baciano le croci. Molti piangono. La Russia ortodossa delle icone non è lontana. Quando tutti si alzano in piedi per cantare, l'intero edificio riceve una scossa. Ho visto le vecchie con i capelli riuniti a cipolla sulla nuca, gli anziani sbilenchi, coi sandali slacciati e i calzini rotti, le ragazze dai calzettoni ripiegati. Ho sentito l'odore di mia nonna, nella Romagna di trent'anni fa, in questo stesso mese di grano e azzurro. Durante l'offertorio è comparso frate Mariano, stavolta con la veste francescana e la mano sul cuore. Una fedele, visto che non pregavo, si è avvicinata a me porgendomi il testo e ha indicato col dito le righe che si stavano leggendo. Ma io, non conoscendo lo slovacco, sono rimasto muto. La sua dentiera tracimava le parole al posto mio.
Abbiamo consumato un altro pasto francescano:
pane, latte, formaggio, albicocche. Padre Tommaso, un biofisico che parla italiano, ci ha spiegato che, fino a quattro anni fa, prima della caduta del comunismo, i frati vivevano in clandestinità. Non ci sono state ordinazioni ufficiali dal 1950, ma durante l'obbligatorio anonimato tutti sapevano chi fossero i frati, anche se questi erano costretti a lavorare come gli altri. I fedeli si rivolgevano a loro per farsi amministrare i sacramenti.
La sera abbiamo parlato con padre Mariano. La discussione si è svolta in uno strano idioma: un po' tedesco, un po' inglese, un po' slovacco, un po' italiano: eppure ci siamo capiti. Ha ventitré anni, ma ne dimostra anche meno. La faccia sparuta dentro il saio fa tenerezza. Cento metri più in là alcuni suoi coetanei stanno facendo baldoria sulla riva del fiume. L'aria è tiepida, le stelle sembrano piccoli fari intermittenti sopra di noi. Si sentono grida, canzoni, chitarre. Qui invece, nel chiostro dove siamo, tutto è fermo, silenzioso. Fra poco andremo a dormire. Ho chiesto a Mariano se per lui sia difficile vestire quell'abito: intendevo riferirmi, molto banalmente, alle ragazze. Mi ha guardato sorridendo, poi, con un semplice gesto, è riuscito a dare una risposta assai più intensa della mia domanda: a pugno chiuso ha alzato in su il pollice, verso il cielo, come fanno gli operatori aeroportuali per segnalare l'avvenuta chiusura del velivolo in partenza.