The Big Brother

 

Stamattina, dall'alto del castello, si godeva la famosa vista sul Danubio che divide in due il centro cittadino: da una parte il nucleo storico, dall'altra l'edilizia popolare nata nel dopoguerra. Furono i russi a liberare la Slovacchia dall'invasione nazista. Siamo andati su verso la collina Slavin dove c'è il monumento ai seimila soldati sovietici caduti nell'ultima battaglia di Bratislava.

Abbiamo attraversato la zona nord, salendo a piedi lungo una specie di ampia circonvallazione sulla quale si affacciano ricche ville immerse nella quiete dei giardini circostanti. Dalle finestre con le tendine sventolanti proveniva il rumore di una macchina per scrivere. In terra c'erano le albicocche cadute dagli alberi, schiacciate sull'asfalto. Alcuni bambini, figli degli ex comunisti oggi riciclati come nuova classe dirigente, stavano giocando sui prati. In una di queste rampe abitò Alexander Dubcek, prima e dopo la sua perestroika fuori tempo. Lo stesso monumento è oggi, in molti sensi, anacronistico, tanto è vero che pochi ci hanno saputo dare l'indicazione giusta.

Sulla cima il sole era allo zenit: il luogo sembrava deserto. L'obelisco altissimo, sormontato dal triste milite che sventola la bandiera vittoriosa, dominava i quartieri sottostanti, come un'aquila pronta a spiccare il volo. Grandi statue di marmo alla base della scalinata davano corpo al silenzio. Girando attorno ai nomi delle battaglie e dei generali protagonisti, non ho potuto fare a meno di ricordare, per istinto speculare, il cimitero americano di Nettuno: sin da bambino restavo immobile davanti alle croci bianche perfettamente allineate, così come adesso non riuscivo a staccarmi da quegli scalini, mentre una turista, la schiena appoggiata alla colonna, cercava di perfezionare l'abbronzatura.

Per quale motivo, benché avessi ormai terminato la visita, continuavo a cincischiare nei dintorni del piazzale, provando ogni possibile angolazione? Non ero interessato alla struttura architettonica dell'edificio, né m'appassionava l'immagine in sé, visto che, come al solito, non portavo macchine fotografiche. A cosa stavo pensando allora? Che la città sottostante, una delle celebri capitali della Mitteleuropa, aveva attraversato l'epoca moderna alla stessa stregua di un treno di lusso destinato ad abbattersi contro la Foresta Nera?

Io, nato nei giorni in cui Nikita Kruscev decise di rivelare al mondo i crimini commessi dal regime staliniano, forse ripetevo, come uno slogan surreale, ciò che, qualche anno prima, da più parti era stato proclamato a chiare lettere su tutti i giornali del globo (solo-con-la-caduta-del-Muro-di-Berlino-ha-avuto-fine-la-seconda-guerra-mondiale)? Oppure rendevo omaggio a chi, come mio nonno, aveva dato la vita per un'idea che, a una così breve distanza, pareva già miseramente sbriciolata?

Come risposta hanno funzionato le parole di Constantin Noica, il filosofo rumeno che all'esilio del suo amico Emil M. Cioran preferì prima la fervida reclusione domestica e poi il terribile carcere cui lo costrinse il regime di Ceausescu. Egli, senza baciare la mano di chi lo colpì, giunse a chiedere una preghiera per Karl Marx, del quale fu costretto a leggere, a fini rieducativi, l'opera-omnia, opportunamente censurata. Alla vigilia della sua liberazione, Noica sapeva che, da lì a non molto, qualcuno sarebbe venuto a dire: '''Perdonatelo, visse anche lui in preda alla follia del Bene. Pregate per l'anima del fratello Karl. Pregate per the Big Brother". (1994) Ora posso dirlo: sulla collina di Bratislava ho visto il sangue incrostato delle generazioni dei nostri padri; di fronte a loro, a qualsiasi schieramento appartenessero, mi sono idealmente tolto il cappello. Nel silenzio e nel caldo di Slavin, in anticipo sulla visita che, di lì a poco, avrei compiuto ad Auschwitz, le due grandi dittature del secolo per un attimo si sono rialzate come fantasmagoriche quinte a dirmi che il Novecento, questo secolo paralizzato dalla propria lucidità, era finalmente finito.

È stato allora che ho ricordato il suicidio del trentasettenne Vladimir Majakovskij, 14 aprile 1930, ore 10,30, vicolo Lubjanskij, Mosca: luogo e data mi sono apparsi incisi nel punto cronologico di non ritorno della Rivoluzione russa, proprio quando il sogno di dare all'uomo la libertà ricadeva brutalmente a terra. Osservare la ruga impietosa che il bolscevismo aveva già fatto nascere sul volto della sua giovinezza, per Majakovskij dovette essere insostenibile.

Quando, appena undici anni dopo, Marina Cvetaeva, quarantanovenne, nel pieno dell'invasione nazista, s'impicca a Elabuga (Repubblica Autonoma Socialista Sovietica Tartara), all'ingresso dell'isbà dov'è ospitata insieme al figlio Aseev, sembra trascorso un secolo. Cvetaeva compie un atto assolutamente inconciliabile con quello di Majakovskij. Lei aveva sempre rinunciato a portare la poesia nella storia: è come se fosse sprofondata in acqua, in un cammino di ritorno verso le sorgenti. .

Scendendo le rampe dei viali, ho fatto l'appello di tutte le innumerevoli nobili missioni che l'intellettuale moderno ha vanamente inseguito. Quando lessi il capolavoro di Gustaw Herling, Un mondo a parte, sui campi di prigionia sovietici, restai colpito da una celebre frase di Jean-Paul Sartre, citata nell'introduzione al volume, il quale, nella polemica con Albert Camus a proposito dei gulag, testualmente aveva dichiarato: "Anche se tali campi esistessero, non dovremmo parlarne né scriverne, per non togliere la speranza ai lavoratori di Billancourf '.

Mi sembra che in questa frase risuoni ancora oggi, come uno stridulo falsetto, lo spirito del tempo che abbiamo vissuto.

"Il marxismo è il cordiale degli intellettuali. Li stimola, li giustifica, li organizza, li lega alla storia, li risveglia alla realtà della miseria e della lotta. Insomma li risuscita. Da tregua alla loro solitudine, rassicura la loro alienazione: le masse non ci seguono, ma un giorno capiranno che noi avevamo ragione. " (Maurice Pinguet) Assetati, cerchiamo acqua da bere. Purtroppo la città di domenica è vuota. Entriamo in un cimitero dove sicuramente troveremo l'agognata fontanella: consiglio prezioso che ho tratto da L'arte di camminare di Jacques Lanzmann. Bevendo, fra tombe sbilenche, sono andato con la mente ad altri gesti estremi avvenuti in questo secolo: è stato l'inizio di una serie interminabile.

Quello di Pierre Drieu La Rochelle (52 anni) il 15 marzo 1945 a Parigi, in Rue Saint Ferdinand, dove la cameriera lo scopre riverso in cucina, la testa fra le braccia, intossicato dal gas e avvelenato col Gardenal. Quello di Cesare Pavese (42 anni), l'8 agosto 1950, all'albergo "Roma" di Torino; accanto al cadavere furono trovati i Dialoghi con Leucò, sedici bustine di sonniferi ancora aperte e un biglietto: "Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi." Quello di Stig Dagerman, il quale, a soli 31 anni, il 4 novembre 1954, resta asfissiato dai gas di scarico della sua automobile nei pressi di Stoccolma. Due anni prima aveva scritto: "Cos'è il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore!". Quello di Ernest Hemingway (62 anni), il 2 luglio 1961, nella casa di Ketchum (Idaho), con un colpo di fucile contro il volto: pare che la sera prima, mentre la quarta moglie Mary Welsh canticchiava Tutti mi chiamano bionda, la canzone italiana, egli le avesse fatto eco dalla sua camera. Quelli, distanti anni luce l'uno dall'altro, che nel 1970 misero in atto Paul Celan (50 anni) e Yukio Mishima (45 anni): il primo, reduce dai Lager, la notte del 20 aprile, senza dire niente a nessuno, abbandona la sua abitazione vicinissima alla Senna e viene ripescato in una gora a sud di Parigi un paio di settimane più tardi. Il secondo, alle undici del 25 novembre, idealmente reduce da Hiroshima e Nagasaki, dopo aver arringato una folla di soldati assiepata nel cortile del quartier generale delle Forze di Autodifesa, s'inginocchia a torso nudo, grida per tre volte "Tenno Heika banzai!", riempie i polmoni d'aria e spinge con forza la spada nel ventre. Morita, il fedele camerata, gli infligge tre colpi di sciabola per finirlo.

Giunti nella chiesa dei Cappuccini, siamo accolti da Eusebio che, preso atto di un nostro messaggio al Charlie Club, non ha esitato a raggiungerci. Insieme a lui facciamo nuovi progetti sdraiati sul prato del chiostro, la carta slovacca aperta in terra. Poi usciamo a bere enormi boccali di birra in un locale popolare sotto la pensilina. In tre mettiamo paura: sembriamo la polizia segreta di una qualche Interpol.

Stasera la chiesa sembrava ancora più affollata di ieri. Credo fosse un'occasione speciale. Noi eravamo di casa. Io potevo circolare in canonica come una specie di attempato chierichetto straniero. Il lettore del testo biblico pareva un pesista. Officiava un sacerdote alto, magro, giovane, calvo: la platea silenziosa e assorta ha ascoltato la sua lunghissima omelia sul Buon Samaritano. In sacrestia i monsignori si sono spogliati dei paramenti restando poi vestiti di bianco, mentre tre, quattro suore mettevano ordine sui tavoli. Ho avuto l'impressione di trovarmi nello spogliatoio di una squadra di hockey.

Fuori, sul piazzale antistante la chiesa, alcune famiglie discorrevano come accade nei paesi. Eusebio stava là in mezzo, parlando insieme ai presenti, quasi fosse uno di loro: la luce, un pastello sui palazzi, faceva assomigliare i tetti a pongo colorato. Ci siamo ambientati in fretta grazie alla sua conoscenza della lingua. Nel gruppo di uomini in abiti scuri l'ho visto alzare gli occhi verso me e Plinio: una nuova consapevolezza è passata in un lampo fra noi, come se il ricordo del viaggio che stavamo ancora compiendo fosse già formato.

Prima di addormentarmi ripenso ai suicidi del Novecento: Marina Cvetaeva, Pierre Drieu La Rochelle, Cesare Pavese, Stig Dagerman, Ernest Hemingway, Paul Celan e Yukio Mishima compiono suicidi in nome dell'arte. Questo significa, dico a me stesso, in nome della felicità. Non ci potrebbe essere distanza più forte da Vladimir Majakovskij, l'unico, in questa schiera, che si suicida in nome della vita, cioè, suppongo, in nome dell'infelicità. È la protesta dell'uomo contro qualsiasi politica che intenda surrogare l'arte, ma anche contro qualsiasi forma d'arte che voglia porsi come politica.

Da allora il viaggio ha preso il ritmo di questo lugubre appello. In seguito ho raccolto altri nomi senza rendermi conto di quello che stavo facendo. Non è stato certo l'interesse per il gesto in sé a spingermi alla riflessione: nel Dialogo di Plotino e Vorfirio (Giani comò Leopardi, Operette morali) non esiterei a immedesimarmi nella voce del compagno teso a negare il suicidio, piuttosto che in quella del più drammaticamente risoluto; le ultime parole di Plotino, alle quali specie nei momenti di crisi spesso ritorno, vorrei anzi che fossero al centro del mio bagaglio ideale, con la stessa profondità delle esperienze capaci di segnarci per sempre: '''Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita, ha quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e dameranno ancora".

Il fatto è che, se poi il suicidio realmente si verifica, compiuto da uno scrittore del secolo cui apparteniamo, e cioè da un uomo che, come a me piace pensarlo, nel momento stesso in cui abita lo spazio della propria vocazione, decide di portare il suo spirito nel fuoco di una totale consapevolezza riguardo la nostra inappellabile finitudine, la reazione non può essere quella dell'indifferenza. Scrisse Albert Camus nel Mito di Sisifo: "Cominciare a pensare è cominciare a essere minati".