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Nava strinse in mano la pistola mentre l'ascensore avanzava veloce verso il sesto piano, dove si trovava lei. Si spostò da una parte per non essere in piena vista quando le porte si fossero aperte. L'ascensore si fermò con un lieve clic metallico e le porte si aprirono lentamente per rivelare...
Niente.
Prima di entrare guardò il soffitto per accertarsi che non ci fossero sorprese, ma vide solo tre dischi fluorescenti e una minuscola telecamera di sorveglianza. Abbassò la testa, raddrizzò le spalle ed entrò. Col berretto da baseball e l'anonima tuta grigia, chiunque la stesse guardando l'avrebbe scambiata per un uomo.
Una volta a bordo, schiacciò il pulsante, le porte si chiusero e l'ascensore scese nell'interrato. Alla fine della corsa le sobbalzò lo stomaco. Nava afferrò la pistola nascosta nella tasca degli ampi pantaloni e sentì il metallo freddo attraverso il tessuto.
Quando le porte si aprirono lei si guardò rapidamente intorno. La stanza era piccola, non più di dodici metri quadrati. Pavimento bianco, pareti bianche. Una spessa porta di sicurezza con uno scanner per l'impronta della mano. Un'ampia scrivania argentata a L e una fila di piccoli monitor in bianco e nero.
Dietro la scrivania erano sedute due guardie. A differenza di quelle dell'atrio, erano uomini da non prendere alla leggera: giovani e muscolosi con capelli cortissimi, due mercenari. Un ispanico e un bianco. Nava assunse un'espressione seccata e si diresse con passo sicuro verso di loro. Con una mano posò il pacchetto sulla scrivania, mentre con l'altra impugnava la pistola nella tasca.
“Ho un pacchetto per il dottor Forsythe” disse. Il bianco guardò il collega, non sapendo cosa fare. L'ispanico era il capo. Buono a sapersi. Nava estrasse la pistola e gli sparò al collo.
L'uomo non ebbe neppure il tempo di meravigliarsi. Cadde all'indietro mentre un rivolo di sangue colava dalla siringa di tranquillante che gli si era conficcata nella pelle. Prima che l'altro avesse la possibilità di reagire, Nava gli premette forte la pistola sull'occhio destro. L'uomo gemette di dolore.
“Mani dietro la testa” gli disse.
Lui obbedì.
“Come ti chiami?”
“Jeffreys.”
Con la testa, lei gli indicò lo scanner per l'impronta della mano. “É l'unico?”
“Sì” rispose lui deglutendo a fatica.
“Quali sono le altre misure di sicurezza?”
L'uomo esitò un istante e lei gli premette più forte la canna fredda della pistola nel cranio.
“Ci sono scanner per le impronte digitali ovunque.”
“Hai schiacciato il tasto dell'allarme silenzioso?”
“No.”
“Ogni quanto tempo vi contattate con le altre guardie?”
“Ogni quindici minuti.”
“Quando è stata l'ultima volta?”
“Alle 22.45. La prossima è alle 23.00.” L'orologio segnava le 22.47. Aveva tredici minuti. Ne avrebbe preferiti venti, ma doveva farseli bastare.
“Quante guardie ci sono nell'edificio?”
“Uhm...” l'occhio sinistro puntò il soffitto, come se l'uomo stesse contando a mente. “Sei” rispose infine. “No, no, aspetta... sette. Sono sette, ne sono quasi sicuro.”
“Compresi tu e il tuo collega?”
“Sì.”
“La sua mano e le sue impronte digitali sbloccano tutte le porte?” gli chiese Nava, indicando l'uomo privo di sensi sul pavimento. Jeffreys comprese ciò che lei gli stava chiedendo e deglutì a fatica, ma annuì.
“Sì.”
Senza aggiungere altro, Nava ritrasse la pistola per le siringhe e gli sparò al braccio. L'uomo cadde accanto al collega. Lei girò intorno alla scrivania e tirò a sé la mano destra dell'ispanico. Con il pugnale che teneva nello scarponcino, gli tagliò i tendini laterali del pollice e inserì piano la lama all'interno dell'articolazione: staccò l'estremità del dito quasi intatta facendo uscire un fiotto di sangue.
Si pulì le mani sull'uniforme dell'uomo. Poi tagliò due strisce di stoffa dalla manica e gliene avvolse una all'estremità del dito reciso e l'altra intorno alla ferita. Non riusciva a credere che la sua fonte si fosse dimenticata di nominarle gli scanner. Gli errori come quello erano i motivi per cui preferiva fare da sola. Si chiese che altro avesse tralasciato di dirle. L'avrebbe scoperto molto presto.
Girò furtiva intorno alla scrivania e guardò gli schermi finché non trovò quello che cercava. David. Fissava il soffitto, ma sembrava privo di sensi, con il torace che si alzava e si abbassava ritmicamente. Il testo bianco in basso sulla destra del monitor diceva stanza C10. Nava stava per andarsene quando un altro schermo attirò la sua attenzione.
Jasper. Come David, anche lui era legato a un'ampia sedia reclinabile di metallo, con gli occhi sgranati. A differenza di David, però, sembrava cosciente. Aveva la fronte aggrottata e le mani tremanti. Nava ebbe un tuffo al cuore. Il monitor indicava che si trovava nella stanza D8. Nell'ala D, lontano da David. Strano che fossero separati da una simile distanza. Non avrebbe avuto tempo per salvarli entrambi.
L'orologio segnava le 22.48. Ancora dodici minuti. Doveva sbrigarsi.
Guardò il lungo corridoio. Come nel foyer, anche lì tutto era bianco, scintillante sotto le violente luci fluorescenti. Il corridoio procedeva per una ventina di metri prima di biforcarsi a sinistra e a destra. Quando raggiunse l'angolo cieco, sentì le voci basse di due uomini. Si fermò e vagliò le opzioni. Non voleva aprire il fuoco, perché se li avesse mancati avrebbe rischiato che quelli azionassero l'allarme.
Se invece fosse riuscita a ferirli entrambi, senza usare armi da fuoco, avrebbe potuto nascondere i corpi in uno dei ripostigli lungo il corridoio. Ma se uno dei due fosse riuscito a sparare, la sua missione segreta di salvataggio sarebbe finita lì. Doveva decidere in fretta.
Scelse di presentarsi senza armi. Le mise via e si preparò al corpo a corpo. Combatteva molto meglio con le mani libere, ma se le cose avessero preso una brutta piega poteva sempre usare il pugnale.
Innanzitutto doveva separare i due uomini. Sarebbe stato più facile metterne fuori combattimento uno prima che l'altro si rendesse conto di quanto stava succedendo, e poi aggredire il secondo. Fece qualche passo indietro e si premette contro una delle porte lungo il corridoio. Poi starnutì. O, almeno, emise un rumore simile a uno starnuto. Era il trucco più vecchio che conosceva, ma per esperienza Nava sapeva che solo i trucchi migliori sopravvivevano fino a diventare vecchi trucchi.
Gli uomini smisero di parlare all'istante. Lei riuscì quasi a percepire la loro attenzione, le orecchie tese nello sforzo di captare il minimo suono. Sentì il suo stesso respiro.
“Hai sentito qualcosa?”
“Mi è sembrato uno starnuto.”
“Sì. Resta qui, vado a controllare.”
Nel corridoio risuonarono dei passi pesanti. Nava aspettò che l'uomo le fosse quasi addosso prima di rivelarsi. Si guardarono per una frazione di secondo prima che lei attaccasse. L'uomo era alto circa un metro e novanta per novantacinque chili, con capelli biondo sabbia, sopracciglia folte e un robusto manganello con cui cercò di colpirla in testa. Nava avanzò verso di lui e gli afferrò l'avambraccio con i guanti. Avanzò di un altro passo e gli torse il polso, usando tutta la forza che aveva per farlo cadere.
Ma l'uomo era troppo veloce: sollevò l'altro braccio e la colpì con violenza al torace con il dorso della mano, togliendole il fiato e costringendola a mollare la presa. Nava aveva solo un secondo prima che l'altra guardia si accorgesse che qualcosa non andava. Non c'era tempo per l'eleganza.
Lo afferrò per le spalle e gli assestò un calcio al cavallo con tutta la sua forza, schiacciandogli i testicoli. Quando gli sferrò il violento uppercut che gli fece perdere conoscenza, il colore era già sparito dal viso dell'uomo. Cadde a terra come un castello di carte.
“Tutto bene, McCoy?” gridò una voce non appena il manganello della guardia finì per terra tintinnando. Se fosse stato furbo, l'altro avrebbe azionato l'allarme prima di andare a indagare. Ma poiché la maggior parte dei mercenari non brilla per intelligenza, Nava pensò di avere una possibilità. Afferrò il manganello di McCoy e si precipitò incontro all'altro.
Il secondo uomo era molto più basso, ma aveva la corporatura di un pesista. Nava gli lanciò il manganello contro le ginocchia. Senza riflettere, quello si chinò per afferrarlo e rimase esposto. Fu un errore che non avrebbe commesso mai più.
Nava lo colpì sonoramente alla testa con il tacco dello scarponcino.
Lui non cadde, ma il calcio lo disorientò per qualche secondo, proprio quello di cui lei aveva bisogno. Gli piantò il gomito nel collo e poi gli fracassò la mascella con una ginocchiata al mento.
Lui perse i sensi e rovinò a terra.
Dopo averli sedati e portati in uno dei ripostigli, Nava si liberò del berretto da baseball e indossò un ampio camice da laboratorio. Proseguì lungo il corridoio verso la stanza C10.
Oltrepassata l'ennesima porta di sicurezza, imboccò un altro corridoio bianco che sembrava non finire mai. Era stretto, a malapena sufficiente per due persone che camminavano l'una accanto all'altra. Ogni tre metri c'era una porta sulla destra. Due uomini erano di guardia ai lati di una porta a una trentina di metri da lei. Doveva essere la stanza C10.
Mentre procedeva, Nava vagliava le poche alternative a sua disposizione. Una manovra diversiva non avrebbe funzionato perché non c'erano nascondigli. Poteva avvicinarsi abbastanza per sedare entrambi, ma non aveva molte probabilità di riuscirci. Il corpo a corpo era una delle possibilità. L'aspetto positivo consisteva nel fatto che lo stretto corridoio le permetteva un lieve vantaggio, perché si sarebbe mossa meglio di loro. Ma d'altro canto, se si fosse trovata in difficoltà non avrebbe avuto vie di fuga. Gli uomini l'avrebbero catturata in men che non si dica.
No, il corpo a corpo era troppo rischioso. Pur avendo messo fuori combattimento le altre due guardie con relativa facilità, sapeva che la fortuna non sarebbe durata in eterno. Il suo maggior vantaggio era il fattore sorpresa e doveva sfruttarlo. Fece cadere a terra la cartelletta davanti alla stanza C6, sparpagliando una serie di fogli. Uno dei due la guardò, ma pensò che si trattasse di una delle protette di Forsythe. Mentre raccoglieva i fogli, Nava rivolse la schiena alle guardie e spostò con cura la 9mm con silenziatore dalla fondina sulla spalla a una delle tasche del camice.
Avrebbe preferito usare quella con le siringhe, ma non poteva rischiare di sbagliare: anche se la mira non fosse stata precisa, il proiettile avrebbe comunque rallentato il bersaglio. Purtroppo le guardie erano vicine l'una all'altra, perciò Nava riusciva a vederne bene solo una. Doveva avvicinarsi.
Riprese a camminare verso di loro. Tenne bassa la testa, fingendo imbarazzo per la sua goffaggine, e lasciò che i lunghi capelli le coprissero il viso. Stanza C8. Altri sei metri prima del contatto. Si portò la mano lungo il fianco e l'infilò in tasca con nonchalance.
Stanza c9. Tre metri.
Toccò il metallo freddo e passò rapidamente le dita sulla bocca della pistola prima di impugnarla. Quando arrivò alla porta si fermò e rivolse uno sguardo timido alle guardie. L'uomo più alto era tonico e asciutto, i muscoli lisci e nerboruti. Evidentemente teneva alla forma. L'altro sembrava un autocarro. Nava sentì una voce provenire dall'auricolare dell'uomo.
“Qui Dalton” disse quello. Lei s'irrigidì. Se le altre guardie erano state trovate doveva attaccare subito. Ma non poteva rischiare che chiunque fosse all'altro capo del microfono sentisse dei rumori. Decise di aspettare: se quel Dalton fosse stato messo in allerta, lei gliel'avrebbe letto negli occhi prima ancora che lui avesse l'occasione di reagire.
“Ricevuto” disse Dalton. Spense la radio con la stessa espressione minacciosa che aveva prima.
“Posso aiutarla, signorina?” chiese l'altro con voce profonda e provocatoria.
“Io... dovrei esaminare il paziente” balbettò Nava con una voce da ragazzina agitata.
Lui la guardò come se fosse la persona più stupida del pianeta. “Questa zona è riservata. Lei...”
S'interruppe quando il proiettile gli fece un buco nel torace.
Nava puntò la pistola contro Dalton ma lui le afferrò il polso e il colpo lo mancò, finendo sul soffitto. Piovvero giù frammenti di plastica e vetro e si spensero alcune luci. L'uomo le torse il polso, facendole cadere la pistola, e poi le afferrò la gola e la spinse in avanti, sbattendola contro il muro.
La testa di Nava rimbalzò contro la superficie di pietra con uno schianto. Lei ansimò in cerca d'aria mentre la mano dell'uomo le stringeva la gola come una morsa metallica. Nava aveva la mano destra completamente bloccata e il corpo di lui troppo premuto al suo per riuscire ad assestargli un calcio efficace. Perciò gli sferrò un pugno nei reni con la mano libera, ma quello restò impassibile. Sentì l'alito caldo dell'uomo sulla pelle mentre le stringeva la presa intorno al collo.
Lui la guardò dritto negli occhi e all'improvviso capì. “Credevo di averti già ucciso, Vaner.”
Nava vide tutto nero e si rese conto di avere una manciata di secondi prima di perdere conoscenza. Aprì e richiuse la bocca, tentando di respirare, ma non servì a niente. L'uomo era troppo forte. Con le ultime forze che le restavano si portò il ginocchio al petto, avvicinando il più possibile il piede sinistro alla mano tesa.
Con le dita sfiorò il bordo dello scarponcino finché non trovò l'elsa del pugnale. Lo afferrò con la mano sudata e lo sfoderò. La violenza dello strattone le fece sbattere la mano contro il muro con una tale forza che per poco il pugnale non le cadde, ciononostante riuscì a tenere salda la presa.
A quel punto sollevò il braccio e gli conficcò la lama nella schiena. Quando sentì la puntura sulla pelle, Dalton le strinse più forte la gola, ma Nava non mollò e continuò a spingergli il pugnale nella carne. Appena gli recise il tendine, Dalton la lasciò andare con un urlo. Nava cadde a terra a quattro zampe, ansimando. Era sul punto di svenire, ma fece di tutto per resistere e premette le nocche sporche di sangue sul pavimento concentrandosi sul dolore.
Si concesse un ultimo respiro prima di completare il lavoro. Doveva impedire a Dalton di urlare. Lui la sovrastava. Aveva una mano priva di vita penzoloni lungo il fianco, mentre con l'altra cercava disperatamente di afferrare il pugnale e di estrado, graffiandosi la schiena.
Nava gli agguantò il piede destro e lo tirò a sé, facendolo cadere all'indietro e atterrare sul fianco. La caduta gli spezzò in due la clavicola. Gli occhi di Dalton ardevano di dolore e rabbia. Approfittando della situazione, Nava gli piombò addosso e si mise a cavalcioni su di lui. Prese il manico del pugnale, lo girò di novanta gradi e glielo estrasse dalla schiena. Un fiume di sangue sgorgò dalla ferita, come acqua che erompe da una diga.
Lei sollevò il pugnale sulla testa e poi lo affondò nel petto di Dalton, rompendogli due costole prima che la lama gli penetrasse nel cuore. La testa dell'uomo scattò in avanti, producendo un ultimo rantolo, e poi, con gli occhi sgranati, ricadde all'indietro. Sotto di lei, il corpo si afflosciò mentre la vita abbandonava quella forma massiccia.
Respirando ancora a fatica, Nava si massaggiò la gola ed esaminò la scena. Era completamente diversa da quella dei due incontri precedenti. La guardia più magra giaceva supina, con le gambe divaricate e il petto e le mani ricoperti di sangue. Non doveva essere morto all'istante, perché sottili linee rosse solcavano il pavimento e finivano alle sue dita.
Dalton aveva fatto ancora più macello. Era disteso in una pozza di sangue scuro, che filtrava ancora dalla ferita alla spalla. Le zone del pavimento che non erano sporche di sangue erano occupate dai frammenti di vetro e plastica nera del soffitto. Chiunque fosse entrato nel corridoio l'avrebbe notato.
L'orologio segnava le 22.55. Nava aveva ancora cinque minuti prima che si scatenasse l'inferno. Almeno la luce era fioca, poiché con il proiettile aveva inavvertitamente rotto uno dei tubi fluorescenti. Guardò la zona illuminata del corridoio e poi la chiazza di oscurità davanti alla stanza di Caine.
Le venne un'idea.
Crowe imprecò a bassa voce. Nell'istante in cui aveva sentito lo sparo al di là della porta, aveva avuto la sensazione sovrannaturale che fosse Vaner. Quando guardò il monitor, Esposito era già morto, dissanguato sul pavimento. L'ultima immagine della telecamera di sorveglianza mostrava Dalton che le stringeva il polso. Il proiettile doveva aver messo fuori uso la telecamera sul soffitto.
Crowe estrasse la sua Sigsauer calibro 45 dalla fondina e corse alla porta, con le urla di Dalton ancora nelle orecchie. Stava per girare la maniglia quando sentì un forte schianto e le urla cessarono. Doveva averlo ucciso a mani nude. Lasciò la maniglia. Se era ancora viva, forse Vaner aspettava che un'altra guardia uscisse dalla stanza. In quel caso, l'avrebbe steso ancor prima che lui avesse la possibilità di sparare.
Jeffreys, Esposito, Gonzalez, McCoy e Rainer: si chiese se qualcuno di loro fosse ancora vivo. Non erano stinchi di santo, ma nessuno merita di morire. Era convinto che sei agenti delle Forze speciali bastassero. Evidentemente aveva sottovalutato l'agente deviata della Cia: non solo era tornata dal mondo dei morti, ma l'aveva fatto combattendo. L'unico aspetto del suo piano di sicurezza che aveva funzionato era il testo fasullo sui monitor della guardiola.
Invece di avvicinarsi a David Caine, Vaner era andata nella direzione opposta ed era finita davanti all'ufficio di Crowe. All'improvviso la luce rettangolare sulla parete diventò verde, a significare che qualcuno aveva fatto scattare la serratura elettronica. Crowe indietreggiò e puntò la pistola alla porta.
Esercitò una pressione sul grilletto, non abbastanza forte da far fuoco, ma sufficiente a sparare non appena lei fosse entrata. Quando la porta si aprì, vide Nava Vaner ridotta piuttosto male. Premette il grilletto prima che lei potesse reagire. Mezzo secondo dopo, il pavimento era coperto di sangue, materia grigia e qualche frammento di cranio.
Nell'attimo stesso in cui aprì la porta, Nava si rese conto di essere stata imbrogliata. Mentre il suo cervello elaborava l'informazione, l'uomo scuro che aveva visto alla stazione le puntò contro la bocca della calibro 45. Si chiese se morire fosse doloroso. Era già stata colpita in passato, due volte alla gamba e una volta alla spalla, ma non si era trattato di ferite gravi. Cruente e dolorose, sì, ma non mortali. Quel giorno sarebbe andata diversamente.
Da quella distanza non poteva mancarla.
Avvertì il proiettile ancor prima di sentire l'esplosione. Entrò proprio sotto l'occhio di Dalton. Nava aveva il cadavere in spalla per liberare il corridoio, la testa senza vita di lui sul suo petto.
Il cranio di Dalton esplose come un cocomero, inzuppandole il camice di sangue caldo e appiccicoso. Senza di lui, il proiettile le avrebbe spaccato in due il cuore invece di limitarsi a sfiorarla dopo essere uscito dalla testa della guardia. Cominciava a chiedersi se Caine le avesse trasmesso il suo intuito.
Ma non poteva fare affidamento su quello. Lasciò andare il corpo senza vita e ritornò nel corridoio. Atterrò sul fianco e scivolò sul pavimento umido, cercando disperatamente la sua 9mm, ma invano. Aveva dimenticato di rimettersela in tasca. La vide sulla soglia della stanza, a pochi centimetri dal suo piede. Sembrava un chilometro.
L'uomo scuro le sarebbe stato addosso nel giro di un secondo: non sarebbe mai riuscita a recuperare la pistola in tempo. Toccò il riquadro del braccialetto: l'emergenza che aveva previsto era arrivata. Prima di allora, Nava non aveva mai affidato la sua vita ad altri. Era pronta a una cocente delusione.
Ancora supina, estrasse un coltellino dalla cintura e tirò indietro il braccio, sperando in un miracolo.
Grimes stava scegliendo con cura quale verme di gelatina mangiare
gli piacevano quelli bianchi a strisce verdi quando un grosso cerchio lampeggiante apparve sul monitor. L'immagine era accompagnata dall'allarme rosso di Star Trek, che gli risuonò a tutto volume nelle cuffie.
Si raddrizzò sulla sedia e s'infilò in bocca un verme a caso. Bene. Cominciava la partita.
Cliccò due volte sulla sfera rossa e si appoggiò allo schienale per guardare i fuochi d'artificio, o quanto meno sentirli. Si chiese se avesse commesso un reato o qualcosa del genere, ma scacciò subito quel pensiero dalla testa ricordando a se stesso che non lavorava più per il governo degli Stati Uniti. Si concentrò invece sul denaro che era stato appena versato sul suo conto corrente estero. In più, sapeva che quando le acque si fossero calmate il dottor Jimmy sarebbe letteralmente andato fuori di testa.
Forse quello era quasi meglio del denaro. Quasi. Ma non proprio.
Crowe scansò il cadavere. Gli bastò un'occhiata per capire cosa fosse successo. Aveva colpito la testa di Dalton, non quella di Vaner. Ma la fortuna stava per abbandonarla: vide la sua pistola sulla soglia. Nel corridoio notò anche che quella di Esposito si trovava ancora nella fondina.
Superò Dalton e si avvicinò lentamente alla soglia per uccidere Vaner. Quando fu nei pressi del corridoio intravide il suo piede. Poiché lei sapeva che lui la stava braccando, non c'era motivo di indugiare. Non era un film di James Bond, non doveva aspettare di guardarla dritto negli occhi. Era vita vera e Crowe non poteva correre rischi.
Premette il grilletto senza fermarsi.
Il dolore fu lacerante. Tutte le terminazioni nervose di Nava gridarono all'unisono quando il proiettile le bucò la suola dello scarponcino. Tirò indietro la gamba e si morse forte la lingua, cercando di non urlare. Se era arrivata la fine, non voleva che risuonassero urla nell'aria, soprattutto le sue. Era già orribile che fosse supina. Aveva sempre immaginato di morire in piedi.
L'uomo era sulla soglia, la sua ombra scura apparve nel corridoio. Sarebbe morta. Frenò la mano che impugnava il coltello, digrignando i denti per il dolore, e aspettò che lui la varcasse. L'avrebbe uccisa, ma Nava gli avrebbe lasciato un ricordino.
Poi accadde.
Le luci fluorescenti guizzarono e morirono e il mondo piombò nelle tenebre.
Pur essendo stata lei a innescare il blackout con il pulsante sul braccialetto, Nava ne fu quasi sorpresa. Reagì con la velocità del fulmine. Ignorando il dolore lancinante al piede, si tirò su a sedere e si protese in avanti. Se l'uomo riusciva a vedere il suo scarponcino, lei poteva indovinare la sua posizione.
Tirò indietro l'avambraccio e scagliò il coltello. Lo sentì produrre un tonfo sordo, subito seguito da un profondo gemito e dal rumore del metallo sulle mattonelle. Gli era caduta la pistola: Nava aveva ancora una chance. Si piegò in avanti, posando la mano sul sangue appiccicoso che ricopriva il pavimento, e cercò con le dita la 9mm finita da qualche parte nelle tenebre.
Poi la trovò. La sua mano si chiuse attorno all'impugnatura metallica.
Stava per alzarla quando uno scarpone pesante le pestò il polso. Nava urlò mentre l'uomo infieriva con il tallone, frantumandole le ossa. Cercò di sparare, ma il dolore lancinante la paralizzò mentre lui tentava di disarmarla.
Nava l'afferrò freneticamente con la mano libera e trovò il grilletto. Nell'oscurità, aveva perso il senso dell'orientamento. Pazienza: se non sparava, sarebbe morta nel giro di pochi secondi. Fece fuoco. Lo scoppio fu assordante. Sperò di aver centrato il bersaglio, perché non aveva più forze per lottare.
Crowe sentì il proiettile infilarsi nella carne tra il pollice e l'indice.
Provò un dolore intenso, ma cercò di ignorarlo. Stringere la bocca dell'arma da fuoco aveva funzionato: il proiettile non avrebbe colpito niente di importante. Almeno era ciò che aveva pensato quando aveva deviato la pistola di Vaner verso la cornice metallica della porta.
Ma non aveva previsto il rimbalzo. Se non avesse avuto il pugnale conficcato nel torace, il proiettile non avrebbe rappresentato un problema. E invece... Rimbalzando sulla cornice della porta, sfrecciò a un centimetro da lui e colpì l'impugnatura del coltello. L'impatto fece ruotare la lama e gli squarciò il ventricolo sinistro.
Dal cuore lacerato uscì un fiotto di sangue che gli riempì la cassa toracica. Il cuore pompava ancora sangue, ma non riusciva a mandarlo in circolo. Crowe cadde a terra come un sasso, finendo addosso a Vaner. I loro volti erano vicinissimi.
“Dov'è Caine?” gli chiese Nava senza fiato.
Lui sapeva di avere ancora qualche minuto di vita. Non riusciva a credere che non avrebbe più rivisto Betsy... e poi si ricordò del messaggio. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare l'immagine prima che fosse troppo tardi. Temeva di non riuscirci, ma poi le parole gli balenarono in mente.
PER MARTIN CROWE:
QUANDO NAVA LE CHIEDERÀ DOVE SONO, GLIELO DICA.
É L'UNICO MODO PERCHÉ IO POSSA SALVARE BETSY.
DAVID CAINE.
Realizzando all'improvviso l'importanza del messaggio, si fece forza un'ultima volta.
“Stanza D10” rispose senza più fiato. “Glielo dica... gli dica che ho mantenuto la promessa.”
Mentre le sinapsi del cervello crepitavano, Crowe vide un bagliore colorato, un pomeriggio estivo trascorso a inseguire arcobaleni con la sua piccola. Se quella era la morte, forse non era poi così male. E con quel pensiero, le sinapsi smisero di funzionare e Martin Crowe esalò l'ultimo respiro.