20
“Ah” commentò Caine mentre scendeva le scale, indicando le tre sbarre della ringhiera mancanti che Nava aveva trasformato nella stecca e nel bastone. Lei annuì e lo aiutò a procedere lungo la stretta scalinata.
Quando arrivarono al pianterreno, Nava aprì il portone pronta ad affrontare qualunque cosa li aspettasse fuori.
Trattenne il fiato per un istante: se quelli dell'Nsa sapevano che loro erano lì sarebbe successo in quell'esatto momento. Si chiese se avrebbe sentito il proiettile trapanarle la fronte.
Niente.
Sentì solo la pioggia sulla pelle. Scendeva fitta e le appiccicava i vestiti al corpo gelandola fin dentro le ossa. Nava rivolse una rapida occhiata al cielo, un fondale grigio ardesia punteggiato da pesanti nubi nere. Era ancora viva, un risultato non da poco. Dopo essere sopravvissuta al primo ostacolo, valutò la situazione.
Quelli dell'Nsa avrebbero tenuto l'operazione sotto silenzio, soprattutto dopo la prima vittima. Tuttavia, se davvero erano convinti che Caine fosse una sorta di “intelligenza onnisciente” non se lo sarebbero lasciato sfuggire senza lottare. Erano le 9.03 e Caine era fuori dalla portata del loro radar da quasi quindici ore. Se Forsythe non aveva ancora chiamato i rinforzi, presto lo avrebbe fatto.
Il primo punto all'ordine del giorno era andarsene da New York, il cuore della caccia all'uomo. Nava immaginò di lasciare il paese, ma non voleva rischiare affrontando le misure di sicurezza aeroportuali del dopo 11 settembre. Restavano tre mezzi: l'auto, il pullman e il treno.
Avrebbe potuto facilmente rubare un veicolo, ma temeva i controlli ai caselli, che sarebbero stati sorvegliati. Avrebbero potuto prendere la metropolitana per uscire dalla città e poi fregare un'auto in un quartiere periferico, ma in quel caso ci sarebbero state le telecamere nelle stazioni della metro. Se una squadra d'assalto li avesse messi con le spalle al muro sottoterra, non avrebbero avuto vie di fuga.
Non le piaceva l'idea di prendere un pullman, per via del traffico e perché potevano restare bloccati in un ingorgo. Anche un treno poteva essere fermato, ma almeno era abbastanza grande da fornire un nascondiglio.
Si sfregò la testa, indecisa sul da farsi. Di solito era molto risoluta, ma c'era qualcosa in Caine che la turbava, inducendola a dubitare di sé. Cercò di allontanare quel senso di insicurezza.
Avvertendo l'indecisione di Nava lui la guardò. I loro occhi s'incontrarono e Caine fece un gesto molto strano: serrò le palpebre come se fosse stato accecato da una luce violenta. Lei gli afferrò il braccio. “David, che hai?” gli chiese.
Per un istante lui non rispose. Era come se la coscienza avesse abbandonato il corpo. Poi, all'improvviso, tornò in sé. Aprì gli occhi e cercò di respirare.
“David, che è successo?”
“Niente” rispose lui barcollando appena. “Sto bene.” E poi aggiunse:
“Dobbiamo lasciare la città”.
“Lo so,” replicò Nava, “il punto è come.”
“In treno” disse Caine tutto d'un fiato. “Dobbiamo prendere il treno.”
“Perché?”
“Non lo so, ma è quello che dobbiamo fare.”
“Sei sicuro?”
“Sì,” rispose lui palesemente frustrato, “ma non chiedermi perché.”
Nava annuì. “D'accordo, ma prima sarà meglio trovarti dei vestiti nuovi.” Indicò i pantaloni strappati all'altezza del ginocchio. La pelle intorno alle bende sporche era diventata violacea.
“Giusto” ribatté lui. “Ma forse servirebbero anche a te.” Nava si diede un'occhiata e annuì. Il più rapidamente possibile, per quanto lui lo permettesse, lo portò in un magazzino a due isolati da lì che vendeva eccedenze di abbigliamento militare. Dieci minuti dopo ne uscirono con i vestiti nuovi.
Lei indossava un bomber su una canotta nera aderente e aveva infilato i lunghi capelli castani sotto una bandana verde, mentre Caine aveva un paio di pantaloni mimetici piuttosto ampi e un giubbotto dell'esercito che gli nascondeva le ferite. Aveva scambiato il suo bastone artigianale con una canna da passeggio nera con il manico d'argento consunto a forma di testa di serpente. Nonostante la pioggia, inforcò un paio di occhiali da sole da cinque dollari. Nessuno dei due aveva un bell'aspetto, ma almeno non sembravano più feriti ambulanti.
Nava alzò la mano e fermò un taxi.
“Dove?” le chiese il tassista con un forte accento indiano.
“Alla Penn Station” rispose lei. “Il più in fretta possibile.”
Forsythe passeggiava nervosamente per l'ufficio. Caine era sparito da quasi quindici ore. Quindici ore, cazzo. Non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto a sfuggirgli in quel modo. Era colpa di Grimes. Non avrebbe mai dovuto permettere a quello stronzetto brufoloso di dirigere la squadra di sorveglianza.
Non era troppo tardi per assumere un altro comandante tattico, ma una volta fatta la telefonata non si sarebbe potuto permettere alcun ripensamento. Decise di aspettare fino al nuovo aggiornamento di Grimes. Uscì dalla Centrale di controllo, un'ampia stanza circolare illuminata da centinaia di monitor scintillanti, tre per ogni postazione. Le scrivanie erano disposte in cerchi concentrici con Grimes nel mezzo, seduto su una gigantesca poltrona di pelle e circondato da schermi al plasma e tastiere.
“Hai fatto qualche progresso?” sbraitò Forsythe.
Grimes si voltò, torvo in viso, e si passò la mano tra i capelli più unti del solito. Aveva gli occhi cerchiati di nero e due nuovi foruncoli ben in vista sul mento. “É sparito dalla mappa. Nessuna chiamata né in entrata né in uscita dal suo cellulare, e non torna a casa dall'incidente.
“Ho controllato la sua email, ma è ferma da un po'. Ho inserito la sua impronta vocale nel mainframe e l'ho confrontata con tutte le chiamate effettuate dagli stati di New York, New Jersey e Connecticut nelle ultime quindici ore. Non ne corrisponde nessuna. Ho anche controllato gli amici che ha in città. Non ci sono prove che li abbia contattati in alcun modo.”
Con le mani strette dietro la schiena, Forsythe fissava il pavimento.
“Sei riuscito a stabilire se la donna che era sul luogo dell'esplosione fosse Vaner?”
Grimes annuì. “Ho riesaminato la foto del satellite. Pur non avendo alcuna immagine del suo viso, abbiamo un primo piano della testa e di una mano.”
“E?” Forsythe detestava il modo di fare di Grimes: non diceva mai subito tutto quello che sapeva, ma costringeva l'ascoltatore a seguire il suo ragionamento. Indicò il monitor che mostrava una donna vista dall'alto.
“Ho confrontato il colore dei capelli e la pigmentazione della pelle della foto satellitare con le registrazioni di ieri. Sono identici a quelli dell'agente Vaner.” Schiacciò qualche altro tasto e sullo schermo apparve il suo dossier.
“Sapeva che è responsabile dell'omicidio di oltre venti membri di Al Qaeda, Hamas e Olp...”
Forsythe lo interruppe. “Conosco bene il suo curriculum. Il punto non è chi ma perché.”
Grimes bevve un sorso di caffé e scrollò le spalle. “Dovrebbe chiederlo a lei. Forse dipende ancora dalla Cia.”
Senza preoccuparsi di replicare, Forsythe si precipitò nel suo ufficio e sbatté la porta. Doveva mantenere la calma. Chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Quando li riaprì, si sedette e sollevò il telefono.
Dopo aver spiegato la situazione a Doug Nielsen, vicedirettore delle operazioni della Cia, lo sentì sospirare.
“Non so che dirti, James” replicò Nielsen con la pronuncia strascicata del Sud. “Vaner era una delle nostre agenti migliori. Sinceramente mi sconvolge che sia successa una cosa del genere.”
“E tu non c'entri niente?”
“Forse non sai, James,” disse Nielsen nervoso, “che la Cia ha pesci ben più grossi di cui occuparsi che perdere tempo con i tuoi progetti scientifici.” Forsythe era sul punto di ribattere, ma il disprezzo nella voce del vicedirettore gli fece capire che stava dicendo la verità.
Fu il suo turno di sospirare. “Va bene. Come faccio a trovarla?”
Nielsen sbuffò. “Non la trovi e basta.”
“Ma è inaccettabile.”
“Temo invece che tu debba accettarlo. Non disponi degli uomini per...”
“Io no, ma tu sì.”
Nielsen rimase in silenzio per un istante, poi disse a bassa voce: “Che cosa ti aspetti che faccia? Che ti mandi una squadra d'assalto come ha fatto il generale Fielding?”.
“E tu come fai a sapere...”
“Sapere è il mio mestiere, James. So anche che a detta del senatore MacDougal perderai il lavoro tra circa tre settimane.”
Forsythe si conficcò le unghie nel palmo della mano. Se MacDougal ci aveva messo il becco, nessuno sarebbe stato disposto ad aiutarlo. Si sentiva perso. Per fortuna Nielsen no.
“Ascoltami, James,” disse, “forse c'è un modo per aiutarti. Ti chiedo solo di ricordartelo quando andrò in pensione. Se accetti, chiuderò un occhio.”
“Su cosa?”
“Su tutte le regole che hai infranto, per non parlare del gruzzolo che ti stai mettendo da parte di nascosto.” Forsythe aveva la bocca secca. Nielsen sapeva proprio tutto. Non aveva scelta.
“Ti sarò molto riconoscente per qualsiasi tipo di aiuto sarai disposto a offrirmi” disse infine.
“Bene.” Forsythe riuscì quasi a sentire il sorriso compiaciuto di Nielsen dall'altro capo del telefono. “Ecco il mio consiglio: per prima cosa chiamerei Sam Kendall. Non credo sia al corrente dell'imminente cambiamento della tua situazione e se non glielo dici tu, sta' tranquillo che non glielo dirò neanch'io. Lui non dovrebbe avere problemi a offrirti un po' delle sue risorse e del suo talento naturale nell'ingraziarsi le autorità locali.”
“Ottimo consiglio, Doug. Grazie.” Forsythe non era ottimista sul personale extra che il vicedirettore esecutivo dell'Fbi gli avrebbe dato, e sapeva che Kendall era notoriamente poco diplomatico con la polizia, ma era meglio di niente.
“Qualcos'altro?”
“Se vuoi davvero trovare Vaner e il tuo ragazzo smarrito, io conosco un segugio che potrebbe aiutarti. Faceva parte dell'Fbi, ma ora è un cittadino qualunque. Detto tra noi, ha fatto ottimi lavori da free lance per noi. Sono certo che ti aiuterebbe, naturalmente in cambio del giusto compenso.”
“Naturalmente” replicò Forsythe con la mente già in moto. “Come si chiama?”
Nielsen esitò. “Martin Crowe.”
“Vuoi dire quel Martin Crowe?”
“Non hai detto che li volevi trovare?”
“Sì, certo, ma...”
“Allora è meglio che ti metta subito in contatto con il signor Crowe. Non perdere tempo, James.”
Quaranta minuti e mille dollari dopo, Forsythe era faccia a faccia con Martin Crowe, l'uomo più spaventoso che avesse mai visto.
Mentre il dottor Forsythe parlava, il viso olivastro di Crowe rimase impenetrabile. Crowe preferiva ascoltare un racconto senza fare interruzioni, che spesso facevano perdere il filo al narratore, inducendolo a omettere dettagli fondamentali. Quando aveva una domanda, prendeva mentalmente nota e continuava ad ascoltare. Dopo dieci minuti Forsythe finì la sua bizzarra storia dell'agente deviata della Cia e dell'uomo che lei aveva rapito.
“Ha dimenticato niente?”
Forsythe scosse la testa. “No, è tutto.”
Crowe si alzò e gli tese la mano. “É stato un piacere conoscerla.”
“Un momento” disse Forsythe alzandosi dalla sedia con un balzo. “Che mi dice del lavoro?”
“Dottor Forsythe, io ho successo perché faccio di tutto per accertarmi di non avere mai sorprese. Ecco perché sono ancora vivo. Non accetto mai un'operazione se non so esattamente quello che ho davanti. E al momento non lo so.”
“Che sta dicendo? Le ho riferito tutto.”
“Non è vero” replicò Crowe.
Forsythe era indignato. “Signor Crowe, le assicuro...”
Crowe sbatté il pugno sulla scrivania, interrompendolo a metà frase. “Non m'insulti, dottore. So capire quando qualcuno mi mente. Se vuole il mio aiuto deve dirmi la vera ragione per cui David Caine è importante per lei.”
Forsythe digrignò i denti mentre rifletteva sul da farsi. Quando infine decise di parlare, Crowe tornò a sedersi. Alla fine del racconto, Crowe annuì lentamente valutando la situazione. Era chiaro che Forsythe credeva a tutto ciò che aveva detto, ma lui era ancora scettico. Il “demone” che aveva descritto non poteva essere reale. Se lo era, allora non esisteva il libero arbitrio, e questo Martin Crowe non poteva proprio accettarlo.
Era abbastanza aperto da pensare che forse Caine aveva poteri paranormali o precognitivi. Ma qualunque altra cosa era fuori discussione. A ogni modo, se avesse avuto anche solo metà delle doti descritte da Forsythe, la missione si sarebbe rivelata estremamente difficile.
Questo, più l'agente deviata della Cia, gli procurarono una brutta sensazione. Se gli fosse successo qualcosa nessuno si sarebbe preso cura di Betsy. Ma se non racimolava un po' di soldi, Betsy non avrebbe vissuto a lungo, con o senza di lui.
Malgrado i rischi, se c'era in gioco del denaro non aveva scelta. “La mia tariffa è di 15.000 dollari al giorno con un bonus di 125.000 quando centro il bersaglio, 250.000 se lo prendo in meno di ventiquattr'ore. Non negoziabili.”
Forsythe restò in silenzio per un po' e poi rispose: “Non ci sono problemi”.
“Bene.” Crowe si alzò e gli tese una delle sue mani possenti. Stavolta Forsythe ricambiò. I loro occhi s'incrociarono brevemente prima che lui distogliesse lo sguardo. A Crowe non piacque quello che vide, ma ormai non aveva importanza. I tempi in cui si batteva dalla parte dei buoni erano passati. L'unica cosa per cui si batteva ora era Betsy. Finché lei avesse avuto bisogno di lui, l'etica avrebbe aspettato.
Mentre rifletteva sulla nuova missione, l'adrenalina cominciò a scorrergli nelle vene. Quella sensazione gli fece tornare in mente il giorno in cui era diventato agente federale, quando c'era ancora una linea netta a separare il bene dal male.
Prima di conoscere Sandy.
Prima di avere Betsy.
E prima che lei si ammalasse.
Da che aveva memoria, Martin Crowe voleva servire il prossimo. La madre aveva tanto sperato che lo facesse diventando prete, ma lui sapeva di essere fin troppo aggressivo per intraprendere quella strada. Perciò, invece di entrare in seminario, frequentò la facoltà di Legge alla Georgetown University, convinto che la natura competitiva del sistema di giustizia sarebbe stata adatta alla sua personalità combattiva.
Tuttavia, dopo la laurea, piuttosto che cercare lavoro in un ufficio legale, decise di entrare nell'Fbi. Una volta iniziato l'addestramento a Quantico non si voltò più indietro. Superò le esercitazioni con facilità traendo piacere dall'accesa competitività che gli mancava dai tempi delle gare agonistiche universitarie.
Spinto da un vivo desiderio di giustizia, dimostrava di continuo ai suoi superiori di essere una rarità: un agente eccezionale privo di interessi esterni, in grado di lavorare quindici ore al giorno, sette giorni su sette, per mesi e mesi di fila, senza mai mostrare segni di stanchezza.
Era disposto a fare i lavori più umili e i peggiori piantonamenti, e non gl'importava se erano a Milwaukee o a Miami. Qualunque cosa l'Agenzia gli ordinasse di fare, lui obbediva con precisione e bravura. E quando c'era da effettuare un arresto, Martin Crowe era il primo a varcare la soglia con la pistola puntata.
Nei primi anni niente era più importante del lavoro. Poi conobbe una collega di nome Sandy Bates e tutto cambiò. Dopo una vorticosa avventura di tre mesi le chiese di sposarlo. Un anno e mezzo dopo, Sandy partorì una bella bambina e durante il battesimo di Betsy Martin Crowe pianse le uniche lacrime della sua vita adulta. Non era mai stato così felice.
Diventare capofamiglia diede al lavoro un significato nuovo e sebbene Crowe non gradisse più restare lontano da casa per settimane, sapeva di rendere il suo paese un luogo più sicuro per la moglie e la figlia. Un giorno, però, la sua vita si arrestò bruscamente. Ricordava ancora la voce strozzata con cui Sandy gli disse che a Betsy era stata diagnosticata una leucemia mielomonocitica giovanile. All'improvviso il mondo diventò un luogo spaventoso, in cui il male non veniva giudicato in base al codice penale ma in base alle cellule cancerogene e alla conta dei globuli rossi.
Aveva di fronte un avversario che non poteva sconfiggere: poteva solo restare a guardare mentre la sua piccola veniva divorata. Sandy lasciò il lavoro per prendersi cura della figlia e lui cominciò a lavorare oltre il suo orario normale per compensare la mancanza del secondo stipendio. Purtroppo, per quanto lavorasse, i soldi non bastavano mai, soprattutto quando scoprì che la cassa malattie non copriva la maggior parte delle procedure sperimentali che i medici di Betsy volevano provare.
Nel giro di sei mesi avevano speso tutti i loro risparmi e la figlia era moribonda. Crowe era con le spalle al muro e cominciava a impazzire. Gli avrebbe fatto bene un periodo di aspettativa, ma gli servivano i soldi, perciò faceva addirittura più turni.
Fu così che lavorò al caso Duane.
“Big Daddy” Duane aveva rapito e ucciso sette bambini: li teneva con sé una settimana e poi li rispediva a pezzi ai genitori. I mezzi d'informazione l'avevano soprannominato il “Killer FedEx” (con grande disappunto della società di spedizioni) e Crowe giurò a se stesso che, in un modo o nell'altro, l'avrebbe assicurato alla giustizia.
Quando entrò a far parte della squadra, i colleghi stavano cercando Bethany O'Neil, una bimba di sei anni di Falmouth, Massachusetts, che era stata rapita nel parco quattro giorni prima. Il tempo volava e tutti lo sapevano. Poi individuarono un primo indizio: Stephen Chesterfield, uno dei pervertiti con cui Duane spesso chattava in rete, fu arrestato nel corso di una retata di pedofili. Tuttavia, dopo ventiquattr'ore di interrogatorio, gli agenti federali che gestivano l'indagine non erano ancora riusciti a farlo cantare.
Perciò chiamarono Martin Crowe.
Tutte le telecamere furono spente e Chesterfield fu lasciato solo con Crowe in una stanza insonorizzata con la porta chiusa a chiave. Fu lì che, di fronte a Stephen Chesterfield e alla consapevolezza che una bambina era in pericolo e la sua era in ospedale, Crowe esplose.
Uscì dalla stanza un'ora dopo con l'ubicazione di Big Daddy scarabocchiata su un foglio sporco di sangue. Gli altri agenti non gli chiesero come avesse fatto. Non volevano sapere. Volevano solo trovare Big Daddy prima che cominciasse a spedire per posta i pezzi della bimba ai genitori.
Due ore dopo fecero irruzione nella casetta di legno del pedofilo e lo uccisero. Dissero che l'uomo aveva una pistola, ma l'arma non fu mai trovata. Tuttavia, mentre i due colleghi che avevano portato a termine l'operazione si beavano del successo, Crowe fu fatto a pezzi dalla stampa per aver violato i diritti civili di Chesterfield.
Se l'uomo fosse stato un delinquente qualunque, avrebbero potuto insabbiare la faccenda. Purtroppo per Crowe, però, Stephen Chesterfield era il fratello di un pubblico ministero e quando fu trovato contuso e ammaccato, si decise che qualcuno doveva pagare. Dopo che le foto del suo volto insanguinato finirono sui giornali, i titoli distrussero Martin Crowe rendendolo il simbolo di tutto quello che non funzionava nel sistema legale. Il “New York Post” gli affibbiò il soprannome di “Black” Crowe, che gli rimase anche in seguito. Fu immediatamente licenziato dall'Fbi e incriminato.
Otto mesi dopo il suo avvocato puntò il dito contro i superiori, nel disperato tentativo di creare un ragionevole dubbio. Forse Crowe avrebbe avuto il massimo della pena - dieci anni in un penitenziario federale - se non fosse stato per la famiglia O'Neil, che partecipò a ogni udienza del processo seduta alle sue spalle, così che ogni volta che i giurati guardavano l'uomo accusato di essere un sadico, vedevano anche la bella bambina che aveva salvato. Ci vollero solo tre ore per giungere a un verdetto.
Non colpevole.
Malgrado l'assoluzione, il logorante processo aveva distrutto ciò che restava della sua vita. Quando fu tutto finito, Crowe si ritrovò disoccupato, senza assicurazione, al verde e sull'orlo del divorzio. Per quanto terribile fosse la sua situazione, non era niente in confronto a quello che stava passando Betsy, che combatteva una battaglia impossibile, una battaglia che di certo avrebbe perso se non le avessero fatto un costoso trapianto di midollo osseo. I medici dovevano ancora individuare un donatore compatibile, ma Crowe promise loro che il giorno in cui l'avessero trovato lui avrebbe avuto il denaro sufficiente per pagare l'operazione.
Così diventò un mercenario. Sapeva che la maggior parte dei suoi datori di lavoro conduceva attività illecite, ma non gli importava. Ogni principio religioso, etico e filosofico era irrilevante finché Betsy era malata. Negli ultimi mesi Crowe aveva compiuto gesti immorali, ma era riuscito a non uccidere nessuno. Si ripeteva che non l'avrebbe mai fatto, per nessuna somma di denaro.
Ma in cuor suo sapeva che avrebbe superato anche quella linea se, così facendo, fosse riuscito a salvare la sua unica figlia. Era solo una questione di tempo.
C'era qualcosa negli occhi spenti di Crowe che faceva venire i brividi a Forsythe. Temendo di interrompere i suoi pensieri, fece finta di esaminare lo schermo del computer. Crowe allungò le dita e appoggiò il mento sulle punte. Dopo quella che sembrò un'eternità, sollevò lo sguardo e cominciò a impartire ordini.
“Saranno diretti fuori città. Gli aeroporti sono troppo rischiosi, perciò useranno l'auto o il treno. Se sono partiti ieri sera siamo fregati, altrimenti potremmo avere una botta di culo. Ha degli agenti alla Penn Station?”
Forsythe alzò la testa, lieto di poter rispondere affermativamente alla domanda. Nielsen aveva avuto ragione: non sapendo che sarebbe stato sostituito, Kendall gli aveva assegnato qualche agente per la caccia all'uomo.
“Ci sono agenti dell'Fbi su ogni binario e alla stazione degli autobus.”
Crowe scosse la testa. “Pattugliare la stazione degli autobus è uno spreco di risorse. Nessun agente addestrato si chiuderebbe nella trappola di un pullman. Chi è il responsabile della comunicazione?”
“Grimes.”
“Lo chiami.”
Forsythe lo convocò nel suo ufficio. Nell'attimo stesso in cui Grimes entrò, Crowe assunse il comando.
“Tolga gli uomini dalla stazione degli autobus e li raddoppi in quella ferroviaria.”
“Altro?” domandò Grimes.
“Sì” disse calmo Crowe. “Mi procuri un elenco di tutti i conoscenti del bersaglio nel raggio di mille chilometri. Poi controlli tutte le loro comunicazioni fino a quando non lo prenderemo.”
“E secondo lei saranno così stupidi?”
“Se è Vaner a comandare direi di no, ma non possiamo esserne certi. Quando i civili fuggono, di solito contattano qualcuno di cui possono fidarsi. Se abbiamo qualche speranza di prenderlo, lo faremo attraverso gli amici. O i parenti.
“Ora,” disse Crowe voltandosi verso Forsythe, “mi parli del gemello.”