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Caine aveva un'epilessia del lobo temporale. Il medico lo informò che le allucinazioni olfattive e visive erano tipiche prima di una crisi, così come le voci o il déjà vu. Gli odori, le visioni, i suoni e le sensazioni erano tutti raggruppati nella stessa classificazione denominata “aura”. Caine immaginava che il fatto di sapere che le aure erano comuni tra i pazienti affetti da epilessia del lobo temporale avrebbe dovuto farlo sentire meglio, ma invece sortì l'effetto opposto.
L'anno successivo fu come un brutto sogno, con Caine che entrava e usciva dall'ospedale, e le crisi che peggioravano di volta in volta.
“David, non ne avevo idea” disse Jasper quando ebbe finalmente ascoltato tutta la storia. “Mi dispiace.”
Caine alzò le spalle. “Anche se l'avessi saputo, non avresti potuto farci niente.”
“Lo so, ma vorrei che me l'avessi detto lo stesso.” Jasper contrasse le spalle.
“Hanno capito qual è la causa delle crisi?”
“Il mio medico dice che è 'idiopatica', ovvero che non ne hanno idea.”
“E non c'è modo di curarla?”
Caine scosse la testa. “In un anno ho provato sei diversi farmaci antiepilettici con l'unico effetto di vomitare l'anima ogni volta.”
“Cristo” disse Jasper. “Pensavo che l'epilessia fosse curabile.”
“I farmaci e le altre procedure funzionano per circa il sessanta per cento degli epilettici. A quanto pare io sono capitato nel fortunato quaranta per cento.”
Prima che Jasper potesse dire qualcosa, si sentì bussare alla porta. “Si può?” chiese il dottor Kumar in modo meccanico, entrando con disinvoltura nella stanza di Caine senza aspettare risposta.
“Prego” rispose Caine, anche se l'uomo era già entrato. Il dottor Kumar prese la cartella medica di Caine e la sfogliò muovendo energicamente il capo, come se fosse intento in un'accesa discussione con se stesso. Infine la mise da parte, puntò la torcia stilo in tutti e due gli occhi di Caine e fece un passo indietro.
“Come ti senti?”
“Stanco, ma bene.”
“Quanto è durata l'aura prima delle convulsioni?”
“Solo qualche minuto.”
“Mmm. Ed è stata l'aura più breve dopo la terapia vns ?”
“Sì.” Inconsciamente Caine si massaggiò la cicatrice nel punto in cui i medici l'avevano aperto in due. Tre mesi prima il dottor Kumar gli aveva impiantato un apparecchio a batterie sotto un nervo del collo. Tale tecnica, detta stimolazione del nervo vago, funzionava soltanto sul venticinque per cento dei pazienti che vi si sottoponevano. Nonostante questo Caine, preso dalla disperazione, l'aveva provata. Sfortunatamente con lui non aveva funzionato.
Il dottor Kumar sospirò. “Non so cosa dirti, David. Abbiamo già provato tutte le terapie possibili e fra tutte le medicine che ci sono sul mercato non ce n'è una che ti faccia effetto. Devo essere sincero, non resta più nulla da tentare.” Il medico tacque un attimo, poi aggiunse: “A meno che tu non abbia cambiato idea sulla mia ricerca”.
La prima volta che il dottor Kumar aveva chiesto a Caine di partecipare alla sperimentazione del suo farmaco era stata quasi nove mesi prima. All'inizio Caine aveva accettato. Si era persino sottoposto a tutti gli esami del sangue e aveva sbrigato le varie pratiche burocratiche, ma all'ultimo minuto, quando il medico gli aveva elencato i possibili effetti collaterali, si era tirato indietro.
Ma quello era stato prima della terapia della stimolazione del nervo vago, quando c'era ancora speranza. Adesso, come il dottor Kumar aveva così delicatamente fatto notare, non restava più nulla da tentare. Se le crisi fossero continuate, nel giro di pochi anni Caine sarebbe diventato un vegetale. E nel frattempo avrebbe vissuto nella paura, senza mai sapere quando sarebbe svenuto, crollando a terra tramortito come un pesce fuor d'acqua.
“C'è ancora un posto libero?”
“Fino a ieri no, ma una mia paziente si è ritirata proprio stamattina, perciò...”
“Perché si è ritirata?” lo interruppe Caine.
“Come? Oh, si lamentava, diceva che il farmaco le provocava incubi terribili. Personalmente credo che fosse psicosomatico...”
Il medico s'interruppe di colpo e fece un profondo respiro. “A ogni modo, al momento ho un posto vuoto. Però devi decidere subito.”
“Va bene.” Caine annuì, rassegnato.
“Ricordi i possibili effetti collaterali?”
“Come potrei dimenticare?”
“Ah, già: c'è un precedente di schizofrenia nella tua famiglia, giusto?”
Jasper alzò la mano. Il dottor Kumar si girò verso di lui, come se avesse notato il fratello di Caine per la prima volta.
“Ah, lei deve essere il gemello. David mi aveva detto che ha avuto un episodio psicotico da poco.”
Jasper guardò il fratello, che gli fece un cenno del capo, come per dire: Rispondi alla domanda che poi ti spiego. Jasper si girò di nuovo verso il medico.
“Sì.”
“Da quanto l'hanno fatta uscire?”
“Cinque giorni.”
“Che medicinali ha usato?”
“Al momento prendo lo Zyprexa, anche se per un periodo ho preso del Seroquel con una spruzzata di Risperdal.”
“Interessante. E al momento i sintomi sono sotto controllo?”
“Le voci hanno smesso di dirmi che il governo è a caccia del mio cervello, se è questo che intende-offende-calende-tregende” disse Jasper con un sorriso sofferente.
Caine osservò il dottor Kumar che squadrava Jasper, e cercò di mettersi nei panni del medico, di vedere quello che vedeva lui. L'aspetto di suo fratello era devastato dalla schizofrenia: non lo si poteva più considerare bello e a vederlo qualunque persona sana di mente avrebbe attraversato la strada per evitare di incrociarlo. Dopo un attimo il medico si girò di nuovo verso Caine.
“Allora, cosa vuoi fare?” gli chiese.
“Che altro posso fare?” Caine sospirò. “Accetto.”
“Bene” disse il dottor Kumar con un mezzo sorriso. “Dirò al mio assistente di occuparsi delle varie pratiche. Domani sarai dimesso dall'ospedale, ma devi tornare ogni tre giorni per le analisi del sangue. Vorrei che tenessi nota dell'ora e della durata di tutte le aure e le crisi. E se ti capita di avere sintomi di schizofrenia come illusioni, disturbi del linguaggio o allucinazioni che non siano correlati a una crisi parziale, allora...”
“Ehi, aspetti un attimo!” Jasper si alzò in piedi, allungando le mani come per bloccare quella monotona litania. “Per quale motivo dovrebbe avere sintomi di schizofrenia?”
Il medico si girò verso il gemello di Caine come se fosse un bambino petulante, ma quando vide lo sguardo furibondo negli occhi di Jasper, decise di rispondergli.
“Il farmaco antiepilettico che sto testando ha come effetto collaterale quello di aumentare la produzione cerebrale di dopamina. Come di certo saprà, si è riscontrata una relazione tra gli alti valori di dopamina e la schizofrenia. Dal momento che il farmaco antiepilettico stimola il rilascio di dopamina, è possibile che David abbia un episodio psicotico.”
Quando il dottor Kumar vide David e Jasper che si scambiavano uno sguardo nervoso, si affrettò a tranquillizzarli. “Non sto dicendo che succederà, dico solo che c'è un lieve rischio.”
“Quanto lieve?” chiese Jasper.
“Meno del due per cento” rispose lui rapidamente.
“E se mi accorgo che mi sta succedendo, interrompo la terapia, giusto?” chiese Caine.
Il medico scosse la testa. “Oh no, potrebbe essere molto pericoloso. Anche se sembra che l'antiepilettico non funzioni, è comunque possibile che abbia un effetto. Se interrompessi bruscamente la terapia, ci sono elevate probabilità che avresti crisi gravissime.”
“Quindi se vedo che sto impazzendo, cosa devo fare esattamente?”
“É molto difficile autodiagnosticarsi una malattia mentale, perciò ti invito a fare le visite settimanali col mio assistente per una valutazione psicologica.”
Caine si accasciò sul letto. Dall'espressione di Jasper intuì che suo fratello era davvero dispiaciuto per lui. Cristo santo. Caine chiuse gli occhi, cercando di isolarsi dal mondo. Le parole del dottor Kumar gli ronzavano ancora nella testa: un episodio psicotico. Non poteva credere che si stava esponendo, di sua spontanea volontà, a un simile rischio. Ma le crisi... se fossero continuate senza tregua sarebbe finito peggio di Jasper. Non c'era scelta.
“D'accordo” disse, sentendosi contemporaneamente sollevato e atterrito.
“Bene.” Il dottor Kumar si stava avviando alla porta quando si bloccò e si girò. “Ora che ci penso, dovrai firmarmi una liberatoria che mi permetta di mandarti in un istituto di igiene mentale, se necessario.” Prima ancora che Caine potesse rispondere, il piccolo medico orientale era scomparso.
“Gran simpaticone” disse Jasper secco.
“Eh già. Un vero principe, cazzo.”
Un attimo di silenzio. Poi: “Quindi vuoi farlo davvero?” chiese Jasper.
“Devo.”
“Non hai paura di finire come il tuo fratellone? Pazzo, con la schiuma alla bocca come un cane rabbioso-goloso-pauroso-peloso?”
Caine trattenne il respiro. “Jasper, sei sicuro di stare bene? Le rime non sono sintomatiche di...”
“Non sono un bel niente” lo interruppe il fratello. Gli angoli della bocca gli si voltarono all'insù. “Le rime mi divertono e basta. Mi piace il suono che fanno.” Schioccò la lingua contro il palato un paio di volte, come per dare enfasi alla frase. “Ma torniamo a te. Sei sicuro di voler provare questa cosa?”
“Non ho altra scelta. Non posso andare avanti così. E se le crisi continuano come negli ultimi tempi, be'...” Caine si lasciò morire le parole sulle labbra.
“Vuoi che resti? Potrei dormire sul tuo divano per un paio di giorni se ti va.”
Caine scosse la testa. “No, me la caverò. E ho bisogno di affrontare questa cosa da solo. Mi capisci, vero?”
“Si,” rispose Jasper, grattandosi il mento ispido, “direi proprio di sì.”
“Posso farti una domanda però?”
“Certo.”
“Com'è? Cioè, la schizofrenia” domandò Caine imbarazzato, rendendosi conto che non gliel'aveva mai chiesto prima. “Come ci si sente?”
Jasper alzò le spalle. “Ci si sente normali. Le illusioni sembrano vere. Naturali, persino ovvie. Come se fosse la cosa più scontata del mondo che il governo ti spii i pensieri e che il tuo migliore amico ti voglia ammazzare.” Rimase in silenzio per un po'. “É per questo che fa una paura bestia.”
Jasper inghiottì prima di proseguire. “Il fatto è che a prescindere da cosa sta succedendo o da cosa tu credi stia succedendo continui a sentirti perfettamente lucido. Cerca solo di ricordarti che sei sempre tu. Aspetta che passi. Cerca di trovare degli appigli, posti in cui ti senti al sicuro o persone con cui ti senti al sicuro. E cerca di fare scelte intelligenti all'interno del mondo che ti crei. Prima o poi ritroverai la strada per tornare alla realtà.”
Caine annuì, pregando di non aver mai bisogno di ricorrere ai consigli di Jasper.
“Allora” disse Caine, cercando di riportare la conversazione a una parvenza di normalità. “Dov'è che stai in questi giorni?”
“Nel mio solito vecchio appartamento a Filadelfia, a un paio di isolati dal campus.”
“Mica male.” Rimasero entrambi zitti per un pezzo, ciascuno assorto nei propri pensieri, preoccupato di ciò che sarebbe accaduto. Alla fine Jasper guardò l'orologio e si alzò. “Se non vuoi che resti, sarà meglio che vada a prendere il prossimo pullman.”
La delusione che provò all'idea che suo fratello se ne volesse andare lasciò Caine stupefatto. Ed evidentemente glielo si leggeva in faccia, perché Jasper fece subito marcia indietro.
“Certo, se ti va, posso darmi malato al lavoro e fermarmi da te un paio di giorni.”
“No, non importa. Non vorrei crearti casini al lavoro. Sono sicuro che non dev'essere facile trovare un lavoro quando...” Caine si interruppe prima di finire la frase, ma era chiaro quello che sottintendeva.
“Cosa, quando sei pazzo?” chiese Jasper.
“E dai” disse Caine, spossato. “Lo sai cosa intendo.”
“Sì. Scusa, è solo che sono un po' nervosetto in questi giorni.”
“Non c'è problema. Lo sono anch'io.” Caine tese la mano al suo gemello, un semisconosciuto, e si chiese come mai le cose si erano incasinate fino a quel punto. “Grazie di essere venuto. L'ho apprezzato molto, specie considerato che non sono stato molto presente negli ultimi tempi.”
Jasper fece un cenno della mano come per allontanare le parole di Caine. “Altrimenti a che serve un fratello gemello?” Si girò e fece per andarsene ma quando fu sulla porta si fermò con un piede dentro e uno fuori. “Se hai bisogno di qualunque cosa hai il mio numero di cellulare-mare-fare-dare.”
“Grazie” rispose lui, un po' a disagio. “Significa molto.” Quando Jasper se ne fu andato, Caine si sorprese nel rendersi conto che era veramente così.
Julia sapeva di essere innamorata.
Lo capiva dalla fitta al cuore che provava quando erano separati e da come le tremavano le mani quand'erano insieme. Da come le si mozzava il respiro mentre facevano l'amore e da come si sentiva dopo essere venuta, calda e formicolante, come se al posto delle ossa avesse della gelatina. Ma soprattutto, aveva sempre un'incredibile sensazione di sicurezza. Quando Petey la stringeva tra le braccia, nulla poteva ferirla.
Petey. Le piaceva così tanto il nomignolo che gli aveva dato. Non le pareva vero quanto lui le avesse cambiato la vita. Quando l'aveva conosciuto era ancora una ragazzina, ma adesso, be', adesso era una donna.
Due anni prima, quando aveva cominciato il dottorato, Julia si era rassegnata all'idea che non avrebbe mai trovato un uomo. Sapeva di essere forse troppo giovane per rinunciare all'amore ma, dato che non aveva mai frequentato ragazzi, non era poi un gran sacrificio. Non un singolo compagno alle superiori o al college aveva mai manifestato il minimo interesse nei suoi confronti. Cominciava a credere di avere qualcosa di profondamente sbagliato. Qualcosa che era sotto gli occhi di tutti. E alla lunga si stancò così tanto di sperare, di restare delusa, che si chiuse in sé. Finché non conobbe Petey.
Era l'ultima persona al mondo con cui Julia si sarebbe aspettata di perdere la verginità. Più vecchio di lei di vent'anni, il suo relatore era un omino peloso, con sopracciglia ribelli e ciuffi di peli grigi che gli spuntavano dalle orecchie. Julia sapeva che le altre ragazze del dipartimento lo consideravano un balordo, ma non le importava. Non era stato il suo aspetto a farla innamorare di lui, ma il suo modo di pensare. Petey era semplicemente l'uomo più intelligente che avesse mai conosciuto. E le sue ricerche erano davvero rivoluzionarie. Julia era sicura che se... no, non se: quando avesse dimostrato le sue teorie, il suo nome sarebbe finito sulla bocca di tutti.
Non solo avrebbe vinto il Nobel, ma di sicuro i talk show avrebbero fatto carte false per accaparrarsi il grande dottore e farsi spiegare in che modo la trama stessa della vita di ognuno era collegata a quella degli altri, dipanandosi in un gigantesco arazzo cangiante di energia, spazio e tempo. Se solo l'università non gli avesse fatto tutte quelle storie per i finanziamenti, avrebbe già finito.
Julia rabbrividì al pensiero di quando ne avevano parlato l'ultima volta.
“Pensi davvero che ti daranno la sovvenzione?” gli aveva chiesto passandogli una mano tra i folti capelli brizzolati.
Petey era rimasto di sasso: il momento perfetto era rovinato.
“Scusami” aveva detto lei, pentendosi immediatamente di averglielo chiesto. “Non volevo...”
“No, figurati. Devo pur affrontare la realtà. Se quest'ultima tornata di test non da i risultati che mi servono, quei mentecatti burocrati dell'università l'avranno vinta.”
Petey aveva ragione: erano tutti dei burocrati. Se davvero gli fosse importato della scienza, non avrebbero abbandonato il mondo della ricerca per entrare in amministrazione. Invece, gli stavano tutti col fiato sul collo perché erano invidiosi della sua intelligenza, pronti a mettergli i bastoni tra le ruote ogni volta che era a un passo dal successo. Ma non potevano fermarlo. Julia era certa che gli ultimi esperimenti avrebbero comprovato la sua teoria. E allora si sarebbero fatti in quattro per dargli soldi e avrebbero riconosciuto la genialità delle sue idee.
Julia non vedeva l'ora. A quel punto, lui le aveva promesso che avrebbero potuto ufficializzare la loro relazione e avrebbero messo fine agli esperimenti. Sospirò, pregustando il sollievo che avrebbe provato, sapendo che non sarebbe più dovuta andare in quel... quel posto. Un brivido la attraversò, un terrore misto a uno strano senso di ansia. Chiuse gli occhi e riuscì quasi a raffigurarselo, ma poi l'immagine scomparve.
Le veniva difficile ricordare quel posto quand'era sveglia, ma ogni notte se lo ritrovava lì, nei suoi sogni. Ultimamente sognava parecchio. In sogno tutte quelle stramberie avevano senso, ma appena si svegliava diventavano confuse. Per un paio di settimane aveva sognato numeri intrappolati in sfere giganti che brillavano di una luce bianca e rossa, e nel pulsare erano così luminosi che le facevano palpitare gli occhi.
Il sogno della notte scorsa aveva a che fare col poker, cosa strana, visto che lei non conosceva nemmeno le regole. Nel sogno, però, era una giocatrice provetta e sapeva calcolare tutte le probabilità in un batter d'occhio, nonostante la puzza putrida di pesce marcio che le aveva invaso il cervello.
Petey diceva che quei sogni non volevano dire nulla, ma Julia aveva il sospetto che dipendessero dagli esperimenti. Per quanto la elettrizzasse l'idea di partecipare alle ricerche di Petey, sapeva che c'era qualcosa di sbagliato, e che il giorno in cui fossero finiti gli esperimenti avrebbe segnato l'inizio di una nuova fase nel loro rapporto. Basta con gli appuntamenti a metà strada in squallidi bar, o le scopate nel laboratorio la sera tardi. Si rigirò nel letto e restò a fissare il soffitto, allungò le gambe e s'immaginò di averlo lì steso accanto a sé.
Come sarebbe stato svegliarsi tra le sue braccia? La mattina avrebbero fatto l'amore e poi lei gli avrebbe portato la colazione a letto. Dopo il caffé (lui lo prendeva con un goccio di latte e senza zucchero) avrebbero fatto di nuovo sesso. Julia allungò una mano per accarezzarsi la parte interna delle cosce e si sentì pervadere di calore.
Per la prima volta in vita sua era felice. Mentre faceva scorrere lentamente le dita lungo la pancia, suonò la sveglia. Senza un attimo di esitazione Julia saltò giù dal letto e corse in bagno, dove teneva le pillole. Il contenitore trasparente era senza etichetta: Petey non voleva assolutamente che si potesse risalire al laboratorio.
“Pillola-pullula-cellula-cannula” disse ad alta voce, ridendo della sua rima senza senso mentre si versava in mano due pillole da cinquanta milligrammi. Ultimamente si trovava spesso a fare rime. Non sapeva bene perché, ma qualunque fosse il motivo, la faceva morir dal ridere. Sfortunatamente, Petey non sembrava condividere l'ilarità. La prima volta che aveva fatto una rima dopo una delle loro scopate, Julia l'aveva sentito irrigidirsi: e non nel senso buono. Se era una cosa che lo infastidiva avrebbe smesso di farla. Niente aveva più importanza della felicità di Petey.
Inclinò la testa all'indietro e si buttò in bocca due pillole, mandandole giù rapidamente con un sorso d'acqua. Le lasciavano sempre un retrogusto amaro e gessoso che durava per un po'. Ma quello non era niente paragonato alla puzza. All'inizio si era spaventata, ma Petey le aveva detto che era solo un piccolo effetto neurologico collaterale, niente di preoccupante. Quindi smise di pensarci.
Dopo tutto, Petey non le avrebbe mai mentito.
Le cose non apparivano affatto sotto una luce migliore la mattina dopo. Mentre Nava spegneva con un colpo la sveglia, si rese conto che non poteva andare avanti così. Erano più di sei anni che vendeva i segreti degli Stati Uniti a svariate nazioni senza mai un intoppo, ma quello che era successo la notte prima era stato un avvertimento. Alla lunga si sarebbe fatta beccare o uccidere: era solo questione di tempo.
Se fosse stata disposta a vendere i suoi colleghi agenti della Cia o a trafficare in tecnologia bellica, sarebbe già andata a vivere su un'isola tropicale, ma quelli erano due ambiti per lei intoccabili. Nava vendeva solo informazioni che riteneva potessero essere utilizzate per salvare vite umane o per riequilibrare le forze in campo. Non aveva importanza che si trattasse di nascondigli di terroristi palestinesi per il Mossad israeliano o di foto satellitari della Repubblica ceca per il servizio di controspionaggio austriaco. Nava non aveva lealtà, né patria.
Il compenso della notte prima era stato il più alto fino a ora, il risultato di più di otto mesi di lavoro. Adesso Nava aveva un totale di un milione e mezzo di dollari sul conto alle Isole Cayman. Non era abbastanza per vivere da regina, ma abbastanza per scappare. Poteva andarsene subito. Prendere i documenti di una delle sue sei identità e saltare sul primo aereo per una destinazione qualunque. Nel giro di quarantott'ore poteva dileguarsi nel nulla.
Un pensiero allettante, ma sapeva che non era realistico. Anche se la Cia non sarebbe stata felice di veder scomparire uno dei suoi sicari, Nava dubitava che l'avrebbero inseguita. Sfortunatamente, non poteva dire lo stesso degli Spetsnaz dell'Rdei. I nord-coreani non l'avrebbero mai lasciata andare. Magari ci avrebbero messo anni, ma prima o poi l'avrebbero stanata e uccisa.
No, fuggire era impossibile: doveva rubare di nuovo le informazioni relative alla cellula terrorista islamica mobile dalla banca dati della Cia e girarle all'Rdei. Dopodichè poteva pure trasformarsi in un fantasma. Nell'attimo stesso in cui liquidava la faccenda dei nord-coreani, avrebbe lasciato New York e avrebbe cominciato una nuova vita. L'aveva appena deciso quando il suo palmare BlackBerry si mise a vibrare.
Il messaggio era sempre lo stesso: l'ora e il luogo in cui recarsi quella sera per recuperare il dischetto che conteneva le informazioni sul suo nuovo incarico. Il modo in cui venivano trasferite le informazioni relative alla sua prossima missione era antiquato, ma per l'Agenzia restava l'unico per essere sicuri che nessun altro le intercettasse. Solo il meccanismo era cambiato.
Mentre vent'anni prima gli agenti ricevevano le istruzioni per gli incarichi impresse da stampanti a matrice di punti, oggi si vedevano consegnare dei dvd fotosensibili che diventavano illeggibili dopo venti minuti di esposizione alla luce. I dvd potevano essere letti solo da computer portatili con una configurazione speciale, come quello che Nava teneva nella stanza accanto, dotato di una minuscola telecamera. Questa non aveva altro scopo che scansionare la retina di chi stava guardando lo schermo del computer per verificare che soltanto il destinatario designato sbloccasse le informazioni.
Nava andò in bagno e si schizzò un po' d'acqua in faccia prima di controllare il messaggio sul palmare. Quando lo vide, restò di sasso. Sullo schermo, invece di un orario e un indirizzo in codice, c'erano solo tre parole:
PRESENTARSI ALLA BASE.
L'unica persona che poteva convocarla era il direttore. Che lui sapesse? Impossibile: era sicura che la notte prima nessuno l'aveva seguita nell'appartamento. Eppure, per quale altro motivo poteva volerla vedere faccia a faccia? No, era un'idea ridicola. Se il direttore avesse saputo che Nava stava vendendo i segreti del governo non le avrebbe chiesto di andare nel suo ufficio: le avrebbe mandato direttamente una scorta armata alla porta.
Tuttavia, forse era proprio questo che volevano farle pensare. Se avessero cercato di prenderla con la forza, c'era la possibilità che Nava scappasse, ma una volta dentro la base di New York della Cia, la fuga sarebbe stata impossibile. Se voleva scappare doveva farlo subito: sempre che non fosse già troppo tardi. Se casa sua era già sotto osservazione non le avrebbero mai permesso di lasciare la città.
Nava mise in moto il cervello, sapendo di non avere molto tempo per decidere. Quando si era aperto il messaggio, il palmare aveva automaticamente inviato all'Agenzia la sua posizione tramite GPS. Se non si fosse trovata nell'ufficio entro mezz'ora avrebbero capito che c'era qualcosa che non andava. Nava chiuse gli occhi e fece un profondo respiro, con la dolorosa consapevolezza che i minuti correvano.
Restare o andare. Non potevano esserci due alternative più semplici. Ma le ripercussioni erano tutt'altro che semplici. Dopo quasi un minuto aprì gli occhi, la decisione era presa. Munita delle sue tre armi preferite una Sigsauer 9mm nella fondina sulla spalla, una Glock semiautomatica 9mm fissata con una cinghia al polpaccio e un pugnale nello scarponcino oltre a quattro passaporti falsi e cinque caricatori, si diresse alla porta.
Prima di andarsene, girò la testa per guardare casa sua un'ultima volta. Dubitava che ci avrebbe mai più messo piede. Quando fu per strada chiamò un taxi. Doveva sbrigarsi.
L'aria era così ghiacciata che Jasper vedeva il suo stesso fiato, ma la cosa non lo disturbava. Il freddo gli dava una sensazione stupenda, il dolore sordo nelle dita gli ricordava cosa volesse dire essere di nuovo vivo. Era tornato all'attacco. Aveva smesso di prendere i farmaci antipsicotici un paio di settimane prima e il suo organismo li aveva quasi del tutto eliminati. Si sentiva come se qualcuno gli avesse infilato una canna per annaffiare nell'orecchio e gli avesse sciacquato via tutta la garza che gli obnubilava il cervello. Se le strade non fossero state gremite da una moltitudine di gente, si sarebbe messo a correre sul marciapiede per il puro brivido di passare veloce tra gli edifici.
Dio, che ficata.
“Ficata-manata-giornata-alata !” urlò senza rivolgersi a nessuno di preciso. Più di una persona lo guardò strano, ma a Jasper non importava niente. Gli piaceva da morire fare le rime. Quel suono che gli echeggiava nella testa, rimbalzando di qua e di là come una sfera perfetta.
Non vedeva l'ora di tornare a Filadelfia. Non...
Non puoi tornare ancora.
Jasper si fermò talmente di colpo che un tizio gli andò a sbattere contro. Ignorando il mondo reale, inclinò la testa come se stesse cercando di udire un suono lontano. Era stata la Voce. La Voce che era stata sua compagna costante per quasi un anno intero, fino a quando i farmaci non l'avevano mandata via.
Fu solo quando la sentì echeggiare nella mente che Jasper si rese conto di quanto gli fosse mancata. L'amava così tanto che gli venne da piangere. Avvertì un lieve ronzio nelle orecchie, segno che la Voce doveva dirgli qualcosa. Strizzò gli occhi. Ascoltare la Voce gli riusciva sempre meglio se teneva gli occhi chiusi.
Deeeeevi restare.
- Perché?
Perrrrrché devi protegggggere tuo fratello.
- Cosa gli succederà?
Stanno per arrivare. Tu devi essssssere qui, per aiutarlo,
- Stanno chi?
Quelli del goveeeeeerno.
- Perché lo inseguono?
Perrrrrché lui è speciale. Ora, ascoltami bene...
E Jasper ascoltò, immobile come una statua in mezzo al marciapiede affollato del centro, con la gente che gli scorreva attorno come se lui fosse uno scoglio che affiorava da un fiume tumultuoso. Quando la Voce smise di ronzargli nella testa, Jasper aprì gli occhi e sorrise. Si voltò e si avviò più veloce che poteva, galvanizzato dal suo nuovo scopo.
Avrebbe aiutato David. Il fratello non sapeva che gli stavano dando la caccia. Ma Jasper sì. Finché obbediva alle istruzioni della Voce tutto sarebbe andato per il meglio. Incurante degli sguardi furibondi dei pedoni tra cui si faceva strada a gomitate, Jasper si mise a correre. Doveva sbrigarsi.
Doveva ancora comprare una pistola.
6
Nava si fece coraggio mentre oltrepassava le porte di sicurezza grigio piombo della sede di New York della Cia. Se volevano arrestarla l'avrebbero fatto lì, nell'anticamera. Mentre le porte si serravano alle sue spalle, osservò le due guardie armate, cercando di intuire cosa avessero in mente. Ma avevano un'espressione vuota.
Avanzò lentamente verso l'ultima postazione di controllo. La cornice del metal detector lampeggiò di rosso mentre la oltrepassava, ma le guardie non la perquisirono. Sapevano già che era autorizzata a entrare nell'edificio con armi da fuoco. Nava posò la mano sullo scanner accanto alla porta e attese che la striscia di luce bianca le scorresse sotto le dita.
Si udì un clic quando la serratura elettronica si sbloccò e la porta antiproiettile si aprì. Nava entrò, con un senso di sollievo. La prima cosa che vide fu la reception. A parte il simbolo della Cia che decorava la parete, sembrava di essere in un'azienda qualsiasi, completa di due segretarie: una vivace e un'altra austera. Quando Nava si annunciò, quella austera l'accompagnò attraverso il labirinto di cubicoli fino all'ufficio del direttore.
Appena Nava entrò nella stanzetta senza finestre, il direttore Bryce si alzò in piedi per stringerle la mano. Era un uomo alto e magro con folti capelli argentati, occhi castani e una stretta decisa. Sembrava l'amministratore delegato di un'azienda di prestigio più che un funzionario dei servizi segreti. Non fece grandi giri di parole prima di venire al dunque.
“La trasferisco.”
“Cosa?” Nava era pronta a essere arrestata, ma questo non se lo sarebbe mai aspettato.
“Il laboratorio Ricerche scientifiche e tecnologiche dell'Nsa è a corto di uomini e ci ha richiesto un agente.”
Nava non capiva. Gli agenti dell'Nsa erano cinque volte più di quelli della Cia. Fra l'altro un trasferimento interdipartimentale come quello non si era mai visto né sentito. Si trattava senz'altro di una trappola. Doveva temporeggiare e farsi dare altre informazioni.
“Ma, signore, non posso...”
“Può benissimo, e lo farà. L'ordine di trasferimento ha effetto immediato. Ecco la sua nuova tessera di riconoscimento” le disse, passandole sulla scrivania un tesserino laminato di fresco. “Può restituire il suo distintivo dell'Agenzia a quelli della sicurezza quando esce.”
“Ma, signore, che bisogno ha l'Nsa di un'agente della Cia?”
“Evidentemente preferiscono non dircelo, altrimenti avrebbero richiesto la nostra assistenza piuttosto che un trasferimento in piena regola” sbraitò lui. L'astio nella sua voce fu una spiegazione sufficiente per tutto quello che voleva sapere. Il trasferimento non era una scelta del direttore. Non era una trappola, dopo tutto, ma solo qualcosa cui l'avevano costretto.
“Ma perché hanno scelto me?” chiese Nava, ancora confusa.
“Lei è l'unica agente che al momento non ha incarichi e che possiede le abilità richieste.” A queste ultime due parole tutto le fu chiaro. Il solo motivo per cui l'Nsa poteva richiedere un'agente della Cia come Nava era che aveva bisogno di interrogare, rapire o uccidere qualcuno. Il direttore prese un foglio dalla stampante laser e glielo passò.
“Ecco l'indirizzo dell'ufficio dell'Str. L'aspettano entro mezzogiorno, quindi le conviene darsi una mossa.” Tornò a concentrarsi sullo schermo del computer dal momento che non aveva più niente da dirle. “Ora, se vuole scusarmi.”
Una guardia armata stava aspettando Nava fuori dall'ufficio del direttore. La squadrò inflessibile dall'alto in basso.
“Mi è stato chiesto di accompagnarla fuori, signora.”
Nava mise in moto il cervello. Doveva connettersi al computer centrale e copiare i dati che le servivano su un altro dischetto. Alzò gli occhi verso la guardia, battendo le ciglia.
“Le dispiace se uso un secondo uno dei terminali per controllare l'email? Faccio in un attimo.”
“Temo che non sia possibile, signora. I suoi codici di sicurezza sono stati disabilitati. Devo chiederle di seguirmi.”
Nava scrollò le spalle come se la cosa non avesse importanza e si lasciò scortare dalla guardia fuori dal palazzo. Si domandava cosa avrebbero fatto quelli dell'Rdei quando avrebbe comunicato loro che non aveva più accesso alle informazioni. Non appena uscì si accese una sigaretta con le dita tremanti. Dall'altro lato della strada notò un coreano alto con occhiali a specchio che parlava al cellulare. Merda. La stavano già seguendo.
Fece finta di non essersene accorta e si incamminò verso il laboratorio dell'Str a quindici isolati da lì. L'uomo teneva il passo, senza nemmeno cercare di nascondere il proprio intento. Nava sapeva bene che gli Spetsnaz potevano fare di meglio. Se era riuscita a individuarlo con facilità era solo perché lui voleva farsi vedere. Era lì per ricordarle che la tenevano d'occhio. Come se potesse dimenticarsene.
Nava rimosse il pensiero dell'uomo e si spremette le meningi. Il suo piano originale di copiare un altro dischetto di dati alla base era ormai sfumato. Doveva farsi venire in mente qualcos'altro da dare all'Rdei. Se non avesse portato nulla entro le prossime sedici ore l'avrebbero uccisa.
La sua unica speranza era scoprire qualche informazione all'Str che fosse considerata un'equa merce di scambio. Un'impresa disperata, ma doveva tentare. Se non avesse trovato niente sarebbe scappata.
Stava ancora pensando a possibili piani di fuga quando entrò nel palazzo di downtown dove si trovava il laboratorio Str dell'Nsa. Dopo aver superato i controlli della sicurezza salì in ascensore fino al ventunesimo piano. Una ragazza della reception era lì ad accoglierla col sorriso sulle labbra.
“Benvenuta, agente Vaner” le disse. “La prego, mi segua. Il dottor Forsythe la sta aspettando.”
Quando Tversky baciò delicatamente Julia sulla fronte, la sentì tremare.
“Tutto bene, cara?”
“Benissimo” mormorò lei, con gli occhi chiusi. “Sto sempre benissimo quando sono con te, Petey.”
Cristo. Va bene che aveva un grave caso di cotta adolescenziale, ma qui si sfiorava il ridicolo. Si domandò per quanto ancora avrebbe dovuto sopportare quell'assurdità. In qualche angolo della sua mente, aveva stabilito che se l'esperimento fosse fallito del tutto, perlomeno avrebbe potuto liberarsi da quella relazione.
Fingendo quella che sperava venisse percepita come tenerezza, Tversky le diede una rapida stretta al braccio e poi fece un passo indietro per esaminare la sua amante, il suo soggetto. Era stesa sul tavolo, nuda tranne che per un sottile lenzuolino di cotone posizionato con cura sul pube. I piccoli seni erano scoperti, i capezzoli marrone scuro erano ritti all'aria fredda e frizzante del laboratorio.
Sei elettrodi argentati erano attaccati con del nastro adesivo subito sotto il seno, con i fili che scendevano dalla pancia prima di scomparire sotto il tavolo e snodarsi fino all’elettrocardiografo. Altri otto elettrodi erano attaccati allo scalpo, due per ogni lobo: occipitale, centrale, frontale e temporale. Questi fili erano collegati all'elettroencefalografo, che misurava gli impulsi elettrici emessi dal cervello. Tversky distolse l'attenzione da Julia e si concentrò sulla fila di monitor accanto a lei, in particolare sul tracciato che mostrava le sue onde cerebrali.
Studioso tanto di storia quanto di scienze, Tversky era stupito dalla catena di eventi che l'aveva portato fin lì. Si poteva ricondurre tutto al 1875, quando un medico di Liverpool di nome Richard Caton scoprì per la prima volta i segnali elettrici neuronali mentre sondava i cervelli messi a nudo di alcuni animali. Cinquant'anni dopo, Hans Berger, psichiatra austriaco, inventò Pelettroencefalografo, che misurava l'intensità e la frequenza delle onde del cervello umano. Come Tversky, anche Berger credeva negli esperimenti sugli esseri umani. Nel 1929 pubblicò i primi settantatré tracciati dell'elettroencefalografo eseguiti tutti sullo stesso soggetto: suo figlio Klaus.
Ma era la ricerca che Berger aveva condotto su pazienti epilettici negli anni trenta che interessava veramente Tversky. Berger scoprì che gli impulsi elettrici mostrati dalle onde cerebrali degli epilettici durante le crisi erano più intensi rispetto a quelli dei pazienti normali. Ancora più interessante era il fatto che subito dopo una crisi le loro onde cerebrali si appiattivano, come se avessero subito un cortocircuito temporaneo. Era questa polarità che Tversky riconosceva come la scintilla che l'aveva spinto a studiare le onde cerebrali di chi era affetto dalla malattia un tempo nota come il flagello divino.
Tversky aveva sempre saputo che erano le onde cerebrali la chiave di quello che stava cercando. Beta, alfa, theta, delta: qui stava la risposta. Mentre controllava il tracciato di Julia, rimase per un attimo ipnotizzato dal cursore elettronico che rimbalzava con la sua lunga coda argentata e rappresentava le onde alfa della ragazza.
La frequenza dell'onda, misurata in hertz, illustrava il numero di volte al secondo in cui un'onda si ripeteva: l'ampiezza o altezza dell'onda rappresentava l'intensità degli impulsi elettrici del cervello. Anche se all'interno di ciascuna delle quattro categorie di onde c'era sempre attività, in ogni dato istante c'era una sola categoria dominante.
Al momento le onde alfa di Julia erano dominanti, come era prevedibile. Le onde alfa sono il ritmo naturale per un adulto a riposo. Toccano l'apice d'intensità quando una persona sogna a occhi aperti e vengono spesso descritte come un ponte sul subconscio, correlate sia alla memoria che all'intuizione. La frequenza delle onde alfa di Julia era di dieci hertz, esattamente al centro del loro raggio normale.
Tversky decise di controllare le sue onde beta prima di addormentarla. Le onde beta sono dominanti solo quando la persona tiene gli occhi aperti oppure ascolta attivamente, pensa o elabora informazioni, quindi fece una domanda a Julia per azionare, letteralmente, il suo cervello.
“Tesoro, voglio che cominci a dirmi i numeri primi finché non ti fermo, a partire da ora.”
Julia fece un lieve cenno di assenso e si mise a contare ad alta voce. “Due, tre, cinque, sette, undici, tredici...”
All'inizio non ci furono grossi cambiamenti nell'attività delle sue onde cerebrali, probabilmente perché i primi dieci li sapeva a memoria. Tuttavia, nel contare numeri sempre più grandi, Julia fu costretta a mettere in funzione la mente conscia e le onde beta ebbero un picco, ciclizzandosi a circa diciannove hertz, come previsto.
“Va bene così, Julia. Puoi fermarti ora.”
Julia smise di contare: l'ampiezza e la frequenza delle onde beta calarono all'istante. Le onde alfa tornarono a essere dominanti. Tversky scrollò due cc di una soluzione giallastra in una siringa ipodermica. “Ora ti darò un leggero sedativo. Sentirai pungere per un secondo.”
Le infilò l'ago nel braccio e Julia si irrigidì per un attimo. Dopo pochi secondi la sentì rilassarsi, come se tutti i muscoli del suo corpo stessero espirando contemporaneamente. Julia cominciò a respirare a fondo e adagiò la testa di lato. Tversky schioccò le dita a pochi centimetri dalla sua faccia. Lei batté le palpebre lentamente un paio di volte, poi le richiuse.
“Julia, mi senti?”
“Sento” mormorò Julia.
Non era del tutto incosciente, ma c'era vicina, proprio dove la voleva lui: persa in un limbo tra realtà e sogno. Tversky lanciò un'occhiata al monitor e annuì tra sé. Adesso erano le onde theta le dominanti, e questo indicava che Julia si trovava a metà strada tra la veglia e il sonno. Le onde theta erano quelle in più stretto rapporto con la creatività, i sogni e le fantasie.
Era raro che fossero dominanti negli adulti in stato cosciente, ma era del tutto normale nei bambini fino ai tredici anni. Gli scienziati non sapevano se la fervida immaginazione dei bambini dipendesse dalla loro predominanza di onde theta, ma sapevano di certo che, almeno dal punto di vista biochimico, un bambino è, in media, molto più creativo di un adulto.
Mentre Tversky osservava le onde theta di Julia aumentare d'intensità, la sua mente continuava a vagare. Le palpebre della ragazza sembravano pulsare sopra le pupille che si muovevano rapide. Tversky versò un altro cc e le somministrò un'altra dose. Aspettò un paio di minuti che il sedativo facesse pieno effetto.
Dopo un po' le onde theta diminuirono in frequenza e ampiezza, lasciando spazio alle onde delta. Queste si ciclizzavano a un ritmo molto inferiore rispetto alle altre - solo due hertz - , ma con un'intensità decisamente superiore. Ora Julia era in un sonno profondo e senza sogni, e la sua mente inconscia aveva finalmente preso il comando. Le onde delta erano quelle che gli interessavano di più, perché attingevano direttamente alla capacità che stava cercando di comprendere: la pura intuizione.
Fu allora, quando le onde delta di Julia erano all'apice d'intensità, che Tversky le fece un'ultima iniezione, però stavolta alla base del cranio. Al contrario delle altre, non era un sedativo: era un nuovo siero che aveva elaborato lui stesso. Gli ci erano voluti non meno di quattro anni di ricerche per sintetizzare un composto base che sortisse l'effetto desiderato sulle scimmie Rhesus e altri due anni di sperimentazione sugli umani.
I primi erano poveri ubriaconi che aveva trovato in cliniche per l'epilessia in giro per il paese, tutti in cerca di una cura miracolosa. Erano talmente disperati che erano disposti a tutto. Se avessero compreso appieno qual era il suo vero obiettivo, sospettava Tversky, forse sarebbero stati meno collaborativi. Sarebbe stato falso dire che si sentiva in colpa per il loro destino. Certo, si rammaricava della conseguenza finale, ma più per la scienza che per i soggetti del test.
Quando ebbe sciolto gli ultimi nodi e si sentì sicuro del successo, passò a sperimentare su Julia. Dopo tutto se riusciva a raggiungere il suo obiettivo voleva qualcuno che potesse controllare, e chi meglio di una studentessa consumata d'amore? Guardò la sua amante e le accarezzò delicatamente la testa, stando attento a non rimuovere gli elettrodi. Piccola dolce cavia.
All'improvviso l'elettrocardiografo cominciò a suonare concitatamente. Il battito cardiaco di Julia era quasi raddoppiato, sfiorando le centoventi pulsazioni al minuto. Tversky sentiva il suo stesso cuore martellargli nel petto, come se cercasse di stare al ritmo con lei. L'intensità delle onde beta, alfa e theta era in ciclo alla stessa ampiezza delle onde delta. Tversky respirava a stento. Se aveva ragione lui, in quel momento Julia poteva elaborare informazioni ed essere contemporaneamente in contatto col proprio inconscio.
Era così nervoso che gli tremavano le mani. Si costrinse a fare un respiro profondo: lo trattenne per un attimo e poi espirò lentamente. Un rapido sguardo alla telecamera gli confermò che stavano registrando tutto. Gli venne il desiderio perverso di andarsi a controllare i capelli allo specchio: dopo tutto, se aveva ragione, quello era un momento storico, ma poi si levò il pensiero dalla testa. Occupati dell'oggi, non del domani. Occupati del presente. Annuì fra sé ripetendosi la frase nella mente.
Occupati del presente Occupati del presente Quando fu sicuro che non gli si sarebbe smorzata la voce né che avrebbe tremato, si sporse in avanti, a pochi centimetri dal viso di Julia e le pose la domanda che lo tormentava da anni.
“Julia,” aveva la voce gracchiante, “cosa vedi?”
Senza aprire gli occhi, lei girò la testa verso di lui.
“Vedo... l'infinito.”
Caine fissava la pillola oblunga, chiedendosi se quel farmaco l'avrebbe spinto oltre il limite della lucidità.
“Non posso andarmene finché non prende la medicina, signor Caine” disse l'infermiera.
“Lo so” rispose lui sommessamente.
“C'è qualche problema?”
“Non ancora.” L'infermiera non colse la battuta. Senza indugiare oltre, Caine si portò la pillola alle labbra e buttò la testa all'indietro, ingoiandola. Poi prese il bicchiere di plastica pieno d'acqua e lo alzò verso l'infermiera come per brindare. “Alla speranza che le cose restino come sono.”
L'infermiera ricambiò il sorriso nervoso di Caine con uno sguardo perplesso. Dopo avergli guardato sotto la lingua per controllare che avesse mandato giù la capsula, uscì dalla stanza, lasciandolo solo con le sue paure. Il suo stomaco ci avrebbe messo venti minuti a digerire l'involucro di plastica che conteneva i granuli del nuovo farmaco sperimentale del dottor Kumar. Dopodichè, era impossibile fare previsioni.
Caine si domandò cosa fare dei suoi (potenzialmente) ultimi momenti di lucidità. Considerò l'idea di scrivere un testamento, ma non possedeva nulla di valore. Se non avesse visto Jasper quel giorno stesso avrebbe buttato giù due righe per il suo gemello, ma sentiva che non era più necessario. Alla fine decise di accendere il televisore e guardare la seconda parte di Jeopardy!
Un uomo tarchiato di nome Zeke stava sbaragliando gli altri due concorrenti. Andò come un treno nella sfida a due, sistemandosi in continuazione gli occhiali spessi con la montatura nera quando non toccava a lui. Poi però si fece prendere dall'avidità del raddoppio e perse più della metà delle vincite, passando al secondo posto per poche centinaia di dollari. Si sarebbe risolto tutto alla fine. Dopo un fiume di pubblicità che reclamizzava cibo per cani, furgoncini e società di mediazione, il presentatore, Alex Trebek, tornò per la domanda finale.
“Quando Napoleone chiese a questo astronomo del XVIII secolo perché il suo libro sul sistema solare non menzionasse Dio, lui rispose: 'Sire, non ho alcun bisogno di ipotizzare Dio'“ disse Alex, scandendo bene ogni parola prima che partisse la sigla di Jeopardy!
“Simon Pierre Laplace?” domandò Caine alla stanza vuota.
Era sicuro di avere indovinato, ma prima di averne conferma si addormentò, sprecando quelli che avrebbero potuto essere i suoi ultimi tre minuti di lucidità.
Forsythe usò ogni possibile eufemismo per descrivere l'attività del laboratorio Str, ma Nava non abboccò nemmeno per un secondo. Lo scopo dell'Str si poteva riassumere in una parola: “rubare”, e quella era una parola assai familiare per Nava. Sperava solo che qualunque cosa Forsythe volesse farle rubare fosse interessante per l'Rdei.
Quando le fu assegnata una postazione di lavoro, Nava cominciò a far scorrere sul video i nomi dei file dei documenti che gli hacker dell'Str avevano soffiato dal computer di Tversky. Accanto a ogni documento c'erano dimensione, data di creazione e ultime tre date di modifica, che l'aiutavano a valutarne la frequenza d'uso. Dopodichè Nava mise in ordine i file e cominciò a selezionare quelli con i maggiori livelli di attività.
Come si aspettava, il grosso del materiale andava ben al di là delle sue conoscenze. Per trovare un capo e una coda alle annotazioni di Tversky le ci sarebbero voluti quasi dieci anni di studi approfonditi di biologia, fisica e statistica. Comunque, era valsa la pena provare. Nava cercava sempre di andare direttamente alla fonte prima di affidarsi all'interpretazione altrui, ma in questo caso non poteva fare altrimenti.
Tirò fuori un paio di abstracts scritti dalla squadra di scienziati interni all'Str. Nava leggeva e intanto sgranava gli occhi. Per la prima volta nelle ultime dodici ore la fortuna girava dalla sua parte. Ciò che Tversky sosteneva di aver scoperto non aveva niente da invidiare alla fantascienza. Anche se i dati non erano ancora definitivi, il professore sembrava esserci molto vicino. Nava non poteva credere a quella botta di fortuna. Sul mercato nero il valore di quei dati grezzi era inestimabile.
Se anche l'Rdei non fosse stato interessato, Nava poteva sempre tirarla per le lunghe e trovare un altro acquirente. Personalmente non credeva nel progetto di Tversky. Non capiva né la biochimica né la fisica quantistica alla base delle sue teorie, ma se ne intendeva abbastanza del mondo per capire che ciò che Tversky sosteneva era semplicemente impossibile. Non poteva essere altrimenti. Ma questo non significava che un governo straniero non ci avrebbe creduto: era sicura di poter trovare da qualche parte un acquirente per le folli idee di Tversky.
Una volta vendute le informazioni poteva sparire per sempre. Infilò una mano nello zainetto e si mise gli occhiali da lettura. Fece bene attenzione a tenere la testa perfettamente immobile mentre scorreva gli abstracts e i file originali, in modo che la telecamera in fibra ottica nascosta nella stanghetta degli occhiali riprendesse un'immagine chiara dello schermo. Arrivata all'ultima pagina, Nava cominciò a far scorrere tutti i dati sullo schermo una seconda volta per assicurarsi di non aver perso nulla.
Quando ebbe finito, restò a fissare il titolo della teoria, chiedendosi perché mai Tversky avesse deciso di battezzare il suo progetto con un nome tanto bizzarro. Non aveva importanza. Scacciò il pensiero dalla testa e guardò l'orologio. Era l'una. Le restavano quattordici ore per contrattare sulla propria vita.
Mentre tornava alla svelta verso casa fumò due sigarette. Il tempo di arrivare al suo appartamento e aveva già formulato un piano. Passò le poche ore seguenti a comunicare con l'Rdei, il Mossad e l'M16 tramite un'email criptata. Mentre aspettava le relative risposte camminava avanti e indietro per la stanza con una sigaretta in mano. Per le cinque aveva fissato l'appuntamento e un'ora dopo prese un taxi fino al Bronx, poi salì sull'ultimo vagone della linea D diretto a Manhattan.
Con voce a stento udibile, il conducente annunciò che si sarebbero fermati in tutte le stazioni locali fino a Coney Island. Mentre si dirigeva a sudovest il treno divenne sempre più affollato, fino a quando raggiunse la Quarantaduesima Strada. Da lì in poi, il numero di passeggeri diminuì lentamente finché ne rimasero pochi. Dei dodici che erano saliti insieme a lei nel Bronx restavano solo due coreani: uno corpulento che leggeva il giornale e l'uomo con gli occhiali a specchio.
A quel punto Nava era certa che la Cia non l'aveva seguita. Chiuse il libro tascabile che aveva in mano e lo infilò nello zainetto. Era il segnale. Quasi subito l'uomo corpulento si ripiegò il giornale sotto il braccio e si andò a sedere accanto a lei.
“Dov'è Tae-Woo?” chiese Nava.
“Yi Tae-Woo è a farsi sistemare il naso” rispose lui solennemente. “Mi chiamo Chang-Sun.” Nava sapeva che Chang-Sun era uno pseudonimo, ma non le importava. Senz'altro anche Yi Tae-Woo era un nome fittizio. L'unica cosa che le importava era se “Chang-Sun” aveva il potere di trattare.
“Ha una risposta?” Non era necessario scambiarsi convenevoli con quell'uomo.
“I nostri scienziati al ministero hanno analizzato i dati e li hanno trovati di un certo interesse” disse Chang-Sun senza sbilanciarsi.
“E?”
L'uomo era irritato dai modi precipitosi di Nava, ma le rispose comunque.
“Concluderemo l'affare quando ci consegnerà i file originali insieme al soggetto Alfa.”
“Il soggetto Alfa non faceva parte della mia offerta.”
“Senza il soggetto non possiamo concludere l'accordo” disse semplicemente Chang-Sun e aprì le mani che teneva sulle ginocchia come per dimostrare che non poteva farci nulla.
Nava si era aspettata una cosa del genere. Le altre due conversazioni, la prima con gli inglesi e la seconda con gli israeliani, erano andate in modo simile. Nessuno dei due governi era interessato ai dati grezzi senza il soggetto che li aveva prodotti. Nonostante ciò, entrambi le avevano offerto più di due milioni di dollari, una cifra di gran lunga superiore al valore delle informazioni che aveva precedentemente consegnato all'Rdei. Sapeva di avere lo spazio per contrattare, visto che per l'Rdei i file di Tversky valevano più che vederla morta.
“Mi ci vorrà un altro milione di dollari” disse.
“Non se ne parla nemmeno.”
“Allora non abbiamo niente di cui discutere. La vostra offerta è troppo bassa.” Nava si alzò come per scendere dal treno: l'agente Spetsnaz le posò una mano sul braccio. Lei si girò a guardarlo in faccia per la prima volta, forte della sua posizione.
“Non sapevo che si trattasse di un'asta.”
“La mia è una situazione delicata, certo, ma non vi sarete mica aspettati che, con una merce così preziosa per le mani, mi sarei rivolta solo a voi?”
“Chi sono gli altri offerenti?”
“Questo è irrilevante.”
Chang-Sun annuì tra sé. “Si è offerta di vendere alla Madre Russia, forse?” le chiese. Nava trasalì, ma tenne a bada le proprie emozioni. Tuttavia, lui sapeva di aver catturato la sua attenzione. “Sono certo che i suoi vecchi compagni dell'Svr sarebbero molto interessati a sapere che la loro spia ribelle ha abbracciato il capitalismo con tanto ardore.”
Nava si concentrò sul proprio respiro. Si domandò come avesse fatto l'Rdei a scoprire la sua vera identità quando nemmeno il suo paese c'era riuscito. Guardò Chang-Sun come se fosse stato un insetto.
“Non credo di capire a cosa si riferisce. A ogni modo, il prezzo resta invariato.”
“Ah no?” Chang-Sun le fece un gran sorriso, sfoggiando i denti perfettamente incapsulati, chiaro prodotto di odontoiatria occidentale. Sapeva di averla in pugno. Qualunque cosa l'Rdei potesse farle compreso ucciderla sarebbe stata un'inezia in confronto a quello che sarebbe successo se l'Svr avesse scoperto della sua esistenza.
“Cinquecentomila. Se non v'interessa nemmeno questa offerta, sono certa che la Repubblica di Corea la troverà di suo interesse.”
Il collo dell'agente Spetsnaz si arrossò nel sentir nominare la Corea del Sud. Nava stava bluffando, non aveva un contatto affidabile all'interno del governo sud-coreano. Tuttavia, le sue parole sortirono l'effetto desiderato. Chang-Sun fece un rapido cenno del capo.
“Dovrò spiegare l'aumento del prezzo ai miei superiori, ma in linea di principio possiamo dichiarare l'affare concluso.”
“Vi contatterò quando avrò il soggetto in custodia.”
“Ovvero quando?”
“Entro la fine della settimana.”
“Due giorni.”
“Ma non c'è abbastanza te...”
Chang-Sun le affondò le unghie nel braccio e la tirò a sé violentemente, con voce bassa e minacciosa.
“Non stiamo più seguendo i suoi tempi. Tra due giorni ci consegnerà il soggetto Alfa, insieme al resto dei materiali di ricerca originali dello scienziato. Se tarderà accadranno due cose. Innanzitutto dirò ai miei superiori che ha falsificato i documenti scientifici. In secondo luogo telefonerò personalmente a Pavel Kuznetsov dell'Svr e gli racconterò per filo e per segno cos'ha combinato negli ultimi dieci anni. Ha già mancato due consegne. Non ne manchi una terza.”
Chang-Sun mollò la presa proprio quando il treno si fermò di scatto e le porte della metropolitana si aprirono sibilando. Senza aspettare risposta scese dal vagone, lasciandola sola con l'uomo dagli occhiali a specchio. Mentre la metropolitana si allontanava dalla stazione, Nava si domandò come avrebbe fatto a catturare il soggetto Alfa senza che l'Nsa capisse cos'era successo. Ipotizzò una serie di possibili sviluppi, ma non riuscì a trovare un modo per farcela senza dover ammazzare qualcuno.
Era desolata, ma se era necessario per uscire da quel mondo l'avrebbe fatto. Non aveva scelta.