10

La tavola calda preferita di Doc aveva una grossa insegna al neon sopra l'entrata, che pubblicizzava i suoi “Hamburger e zuppe famosi in tutto il mondo”. A Caine era sempre parsa una strana combinazione, visto che non ricordava di aver mai preso hamburger e zuppa insieme, però era vero che in quel posto si mangiava da dio. Mentre Doc lo aggiornava sulle ultime pubblicazioni, lui raccoglieva il coraggio per chiedere al suo vecchio professore di dargli un lavoro. Ma Doc era nervoso. Aveva qualcosa che lo faceva sembrare... sfasato. A momenti aveva staccato la testa alla cameriera perché aveva sbagliato a portargli da bere. Non era da lui.

Caine pensò che era solo la sua immaginazione e che stava cercando delle scuse e si decise a fare la domanda. Sfortunatamente, prima che ci riuscisse, entrò un tale che guardò Doc con aria speranzosa, e Doc gli fece subito cenno di unirsi a loro. L'uomo era fisicamente l'opposto di Doc, tutto leccato con un abito grigio tre pezzi e un farfallino rosso scuro. Caine lo riconobbe: era il compagno di ricerche di Doc che andava e veniva, ma non riusciva a ricordarne il nome.

“Ti ricordi David, vero?” chiese Doc all'uomo, tralasciando le presentazioni.

“Ma certo, piacere di rivederti” disse l'uomo e strinse la mano di Caine con tutta la fermezza di un pesce bagnato, fissandolo come se fosse stato un animale allo zoo.

“Allora, che pensieri hai?” chiese Doc al collega. “Sembri incazzato.”

L'Uomo-Farfallino si passò una mano tra i folti capelli e bofonchiò: “É una brutta giornata, ecco tutto. Ho litigato con uno a proposito di Heisenberg. Mi ha fatto venire il mal di testa”.

“Non dirlo a me” replicò Doc, facendosi per un attimo pensieroso. “Neppure io sono mai stato un suo grande fan. E tu che ne pensi, Rainman?”

“Uh?” chiese Caine, meravigliato che Doc lo coinvolgesse nella conversazione. “Oh, non saprei... per me Heisenberg non ha mai avuto molto senso.”

“Davvero?” chiese Doc, con gli occhi che gli brillavano. “Cos'è che non hai capito?”

Caine si morse la lingua. Aveva dimenticato l'insaziabile appetito del professore per spiegare i fenomeni complessi. Nel corso degli anni, Caine aveva passato ore intrappolato nell'ufficio di Doc mentre lui ricamava su ogni possibile argomento, dal Big bang alla Teoria del caos.

Guardò l'Uomo-Farfallino in cerca di aiuto, ma quello aveva già gli occhi fissi sul menu, incurante della conversazione. Infine Caine disse: “Quello che non ho mai capito, mi sa, è per quale motivo i fisici credono che una particella non abbia una posizione precisa solo perché loro non riescono a individuarla. Mica può essere in due posti nello stesso momento”.

“A dire il vero, in un certo senso può” ribatté Doc, palesemente felice di aver portato la conversazione verso qualcosa su cui poteva tenere banco. “I fisici sono riusciti a usare l'esperimento della doppia fenditura per dimostrarlo.”

“Va bene, mi arrendo” disse Caine. Sapeva che non c'era modo ormai di arginare Doc, quindi tanto valeva imparare qualcosa. “Cos'è l'esperimento della doppia fenditura?”

“Immagina di puntare una luce su questo piatto attraverso un taglio in un foglio di carta. Cosa ti aspetti di vedere?”

Caine alzò le spalle. “Una striscia di luce, direi.”

“Esatto.” Doc versò una linea sottile di ketchup al centro del piatto vuoto. “I fotoni di luce che riescono a superare la fessura urteranno il piatto creando una striscia uniforme.” Fece una pausa per bere un po' d'acqua. “Ora, immagina di puntare una luce attraverso un foglio di carta che abbia due tagli. Cosa vedresti?”

“Due strisce di luce.”

“Sbagliato” disse Doc. “Vedresti una serie di strisce indistinte e ombre, così.” Doc versò altre linee di ketchup nel piatto parallele alla prima e poi le sbavò con una patatina. “Se pensi alla luce come a un'onda, questo modo di scomporsi non è poi tanto sorprendente, perché puoi immaginare le diverse onde di luce che interferiscono l'una con l'altra al di là del foglio mentre si dirigono verso il piatto, creando così un disegno indistinto.”

“Va bene, quindi si spiega. E allora, cosa c'è di così straordinario?” chiese Caine.

Doc alzò un dito. “Ci sto arrivando. Poco tempo fa alcuni fisici hanno elaborato una fonte di luce che emette solo un fotone alla volta, e hanno ripetuto l'esperimento. E sai cos'è successo? Hanno ottenuto lo stesso identico profilo di interferenza dall'altro lato.”

Caine aggrottò la fronte. “Come faceva a esserci un profilo di interferenza dall'altro lato se il taglio nel foglio viene attraversato da un singolo fotone per volta? Con cosa interferisce?”

“Ogni singolo fotone interferisce con se stesso dall'altro lato del foglio perché nel corso dell'esperimento passa contemporaneamente attraverso entrambi i tagli.” Doc sorrise trionfante.

“Ma come?”

“Il fotone, che prima veniva ritenuto una particella, è anche un'onda. In presenza di un solo taglio si comporta come una particella, ma in presenza di due tagli, si comporta come un'onda.

“Questo avviene perché il fotone ha contemporaneamente le proprietà di una particella e di un'onda. Ciò è noto come dualità particella-onda.

“Di base, tutta la materia è due cose, con proprietà diverse, in posizioni diverse, contemporaneamente, fino a che non viene misurata.”

“Ma non ha senso” disse Caine.

“Benvenuto nella fisica quantistica” disse Doc, addentando una patatina.

L'Uomo-Farfallino infine si rianimò. “Se proprio vuoi lasciarlo a bocca aperta,” disse a Doc come se Caine non ci fosse, “raccontagli del gatto di Schrödinger.”

Caine alzò la mano. “No, davvero, non importa...”

“E dai, ci vorrà solo un attimo” disse Doc. “Rapido e indolore, te lo prometto.”

“D'accordo” si arrese Caine. “L'ultima.” Aveva dimenticato quanto fosse divertente starsene così, seduto a chiacchierare senza doversi chiedere se il tizio accanto a te sta bluffando. Per la seconda volta quel giorno, si era concesso di dimenticare i suoi problemi e perdersi nel momento. Una bella sensazione, anche se stavano parlando di fisica quantistica.

“Nonostante il fatto che Erwin Schrödinger sia stato uno dei padri della fisica quantistica, egli si rendeva conto di quanto fosse illogico quel campo, specie quando lo si applicava al mondo reale. Quindi avanzò un problema filosofico riguardante il suo gatto, proprio nel periodo in cui Heisenberg stava completando il suo Principio di indeterminazione.

“Essenzialmente il problema diceva questo: immaginiamo di avere un atomo radioattivo che vacilla tra due stati: 'eccitato', durante il quale emana energia in eccesso; oppure 'non eccitato’, durante il quale giace inattivo. Secondo la fisica quantistica, una volta che osserviamo l'atomo, esso sarà in uno stato o nell'altro, ma che fino a che non lo osserviamo, fondamentalmente quello mantiene i due stati allo stesso tempo: proprio come nell'esempio precedente il fotone era in due posti contemporaneamente.

“Il problema filosofico di Schrödinger era questo: cosa succederebbe se mettessi in una scatola un gatto insieme a un'ampolla di gas di cianuro, un atomo radioattivo e un martello robotizzato programmato per colpire quando rileva energia? Se l'atomo radioattivo è eccitato, il martello colpirà l'ampolla e questa rilascerà il gas, uccidendo il gatto. Ma se l'atomo radioattivo è non eccitato, il martello resterà al suo posto e il gatto vivrà.

“Tuttavia, finché non si apre la scatola e non si osserva l'atomo, questo non è né eccitato né non eccitato, ma è piuttosto una combinazione probabilistica dei due stati. Quindi, il punto è: mentre la scatola è chiusa, cosa succede al gatto?”

Caine ci pensò un attimo. “Direi...” Gli si affievolì la voce, poi sorrise. “Oh, ci sono. Visto che in teoria l'atomo si trova contemporaneamente in due stati diversi, lo stesso si può dire per il gatto: è allo stesso tempo sia vivo che morto. Almeno finché non si apre la scatola e si osserva l'atomo, e a quel punto il gatto assume definitivamente uno stato o l'altro.”

Doc sorrise. “Ecco qui. E meno male che non ci capivi niente di fisica quantistica.”

“É ovvio che il punto,” si intromise l'Uomo-Farfallino, rivolgendosi ora a Caine, “è che sebbene la fisica quantistica sia tecnicamente corretta, sembra ancora più illogica quando si cerca di applicarla al mondo reale piuttosto che a particelle subatomiche invisibili.”

“Quindi, stai dicendo che non credi a Heisenberg?” gli chiese Doc.

“E tu ci credi?” ribatté lui.

Doc alzò le spalle. “Di solito credo solo a quello che vedo coi miei occhi. Tutto il resto è solo teoria.” Poi si rivolse di nuovo a Caine. “Scusami, stavi per chiedermi qualcosa prima che divagassimo.”

Caine mangiucchiò una patatina di Doc, all'improvviso imbarazzato di chiedere aiuto, specie davanti a terzi.

“Be', sono un po' nei pasticci...”

“Oh” disse Doc, preoccupato. “Di che si tratta?”

“Ho un problemino di contanti.”

“Lo sai che te la ridarei in un lampo la borsa per l'insegnamento, ma dopo i tuoi, uhm, disturbi, il preside del dipartimento non me lo permetterebbe mai. Almeno non per questo semestre. Ma c'è sempre l'anno prossimo.”

“Sì, lo so, è solo che ho dei tempi un po' più strettini.” Caine era mortificato, e ancora di più perché l'amico di Doc non era abbastanza sveglio da scusarsi e lasciarli soli. Se ne stava lì a fissarlo come se odorasse di qualcosa di molto maturo. Caine fece del suo meglio per ignorare il biostatistico col farfallino e si affrettò a proseguire. “Magari hai un progetto di ricerca privato in cui ti serve una mano, anche del lavoro noioso, io lo farei. Sono un po' disperato.”

Doc guardò fisso il soffitto per un attimo, perso nei suoi pensieri. Quando si rivolse di nuovo a Caine, aveva un'espressione che non faceva ben sperare. Scosse la testa, piano.

“Se avessi modo di aiutarti lo farei. Ma al momento non ho proprio niente per le mani.”

Caine cercò di non sprofondare sulla sedia, ma non era facile.

“Mi dispiace” disse Doc.

“Va bene lo stesso” disse Caine, pensando che non c'era nulla che andasse anche solo lontanamente bene in quella situazione. “Sapevo che era un tentativo disperato. Non ti preoccupare, mi inventerò qualcosa.”

Abbassò gli occhi sul tavolo per evitare di incontrare lo sguardo di Doc. Passò l'ultima patatina nel piatto, raccogliendo il ketchup con cui Doc aveva illustrato l'esperimento della doppia fenditura. Mentre si portava la patatina alle labbra, un po' di ketchup sgocciolò da un'estremità e ricadde nel piatto, schizzando minuscole strisce di rosso attorno al punto di impatto.

Mentre Caine osservava, il tempo sembrò rallentare.

.....

Le strisce di rosso si ispessiscono, si protendono oltre il bordo del piatto. La gocciolina adesso è una pozza rosso scuro che cresce, pulsa di vita. Cresce fino a diventare una massa tale che comincia a traboccare, si versa sul tavolo, spruzza goccioline rosse nell'aria.

(92,8432% di probabilità)

Le goccioline volano al rallentatore verso la faccia di Doc e del suo collega, tracciano righe sulla fronte e le guance, lasciano chiazze enormi sulle camicie, le gocce corrodono i loro vestiti e la loro pelle. Ora i due dottori sanguinano, il sangue rosso scuro gli scorre sui visi e gli zampilla dai petti.

(96,1158% di probabilità)

Caine si alza in piedi, non riesce a respirare. La bocca di Doc si muove come se stesse pronunciando delle parole, ma non produce alcun suono. Lui ha la gola piena di sangue che gli esce gorgogliando dalle labbra. Caine ha la sensazione che dalla stanza sia stato risucchiato tutto l'ossigeno. Boccheggia, ma non c'è niente, solo il vuoto e un dolore intenso al cranio.

(99,2 743 % di probabilità)

Ecco, sta succedendo. Un'altra crisi. Ma è diversa da tutte le altre. Di solito ha delle allucinazioni visive, sì, ma niente del genere. Niente che ci somigli nemmeno. Vorrebbe poter urlare, interrompere quello che sta succedendo ma non può...

Si ferma tutto.

Doc, il suo amico e gli altri clienti sono immobili come statue; il sangue è sospeso nell'aria in tante gocce luccicanti, come di pioggia rossa. E poi, pian piano, le cose riprendono a muoversi. Ma c'è qualcosa che non va. Caine ci mette un attimo per accorgersi che si sta muovendo tutto al contrario.

(98,3667% di probabilità)

Le gocce rosse tornano sfrecciando da dov'erano partite. Le ferite sì assottigliano e guariscono, ma non prima di aver espulso minuscoli frammenti di vetro, che schizzano davanti alla faccia di Caine verso la gigantesca vetrata che ora è una voragine spalancata nel muro.

(94,7341 % di probabilità)

Si spostano in fretta mentre dal nulla compare la mascherina di un furgoncino che inizia a uscire in retromarcia dal locale passando sopra il loro tavolo. Il furgone scompare; i frammenti di vetro si riuniscono come un puzzle gigante e si fondono insieme fino a ricreare il pannello di vetro.

....

Caine boccheggiò.

Doc e il suo amico erano tali e quali a prima: intatti, incolumi. Caine guardò il piatto e la pozzanghera di sangue era scomparsa, sostituita da una gocciolina di ketchup. Aprì la bocca per lo stupore e la patatina gli scivolò tra le dita cadendo a terra.

“David. David?” Era Doc, il solito sguardo allegro trasformato dalla preoccupazione. “Ti senti bene?” ...

“Uh?” disse Caine, scuotendo la testa come se si stesse risvegliando da un sonnellino pomeridiano. “Ch'è successo?”

Sangue... quanto sangue.

“Hai avuto un'assenza per qualche secondo.” Doc lo fissava.

Caine batté le palpebre rapidamente e ricambiò lo sguardo, ma non vide altro che il sangue che gli scorreva sul viso. Pian piano, allungò la mano tremante. Doc non si mosse. Caine si tenne ben fermo, aspettandosi quell'inconfondibile sensazione di bagnato e appiccicaticcio tipica del sangue. Ma quando, con le dita tremanti, toccò il viso di Doc, non sentì altro che i peli della barba che stavano ricrescendo. Il sangue non c'era più.

“Ehi, Rainman?” disse Doc, stavolta in tono più pacato, come se temesse di svegliare una tigre che dorme nella stanza accanto. All'improvviso, Caine capì. Il furgone. Il furgone aveva buttato giù la vetrata e li aveva uccisi tutti. Aveva? No, non l'aveva fatto. Era tutto così confuso, mescolato nella sua mente. Non aveva: avrebbe. Il furgone avrebbe buttato giù la vetrata. Restava solo da capire se loro si sarebbero trovati ancora seduti lì quando fosse successo.

...

(94,7341 % di probabilità)

...

“Dobbiamo spostarci da qui” sussurrò Caine con voce rauca.

“In che senso?” chiese Doc.

“Il furgone... il sangue” disse Caine, consapevole di quanto fossero incomprensibili le sue parole. “Moriremo se non ci spostiamo.”

“Ok, David, certo” disse Doc con il tono rassicurante che si usa con gli squilibrati. “Pago il conto e andiamo. Va bene?”

Caine scosse la testa lentamente. “No. Non va bene. Dobbiamo spostarci subito!” esclamò, alzando la voce, perché sapeva - era questa la parola giusta, no? Sapere - perché sapeva, in qualche modo sapeva che c'era una probabilità del 94,7341% che gli restassero solo altri dieci secondi di vita.

“Mi sa che hai bisogno di fare un bel respiro profondo e rilassarti” disse l'Uomo-Farfallino, arricciando il naso. “Stai dando spettacolo.”

Caine chiuse gli occhi e cercò di pensare. Era tutto così confuso, discordante. Cos'era quello, un episodio psicotico? Sembrava tutto tal mente reale, ma d'altronde Jasper gli aveva detto che sarebbe stato così. Eppure, l'urlo che sentiva nel cervello gli diceva che ora aveva meno di cinque secondi. In una frazione di secondo Caine decise cosa fare. Aprì gli occhi e si alzò in piedi.

Ancora quattro secondi.

Allungò le mani di scatto e afferrò tutti e due i professori, ciascuno per un braccio. Li tirò su in piedi.

Tre secondi.

Nell'indietreggiare Caine urtò qualcuno...

....

è una cameriera, si chiama Helen Bogarty, vive in un edificio di cinque piani senza ascensore sulla Tredicesima Strada, decide di adottare una bambina cinese

...

...mentre trascinava Doc e il suo amico con sé.

Due.

“Ehi!” urlò la cameriera mentre quattro tazze di porcellana si in frangevano sul pavimento. Caine non se ne preoccupò. Dopo l'incidente non se ne sarebbe preoccupata neanche lei.

“A terra!” urlò Caine, tirandoli tutti giù.

Uno.

L'aria si riempì di rumori: metallo e vetri volanti. Caine non lo vide, perché tenne gli occhi chiusi, ma lo sapeva. Poteva raffigurarsi la scena come se fosse lo spezzone di un film che aveva visto un milione di volte. Le migliaia 19.483, per la precisione di frammenti di vetro nell'aria, la mascherina dello Chevrolet Silverado Z71 che sporgeva dal buco, il loro tavolo schiacciato sotto le sue ruote, distrutto nel momento in cui il furgoncino era entrato rompendo il vetro dopo essere saltato sopra il bordo del marciapiede.

E poi cambiò tutto. Era diverso. Le particelle di vetro seguivano traiettorie diverse, mentre gli veniva sottratta la carne tenera in cui era

no affondate prima... ma non era prima. Era adesso. Solo, non questo adesso. Un altro adesso. Un adesso che poteva verificarsi, ma non l'aveva fatto.

Fu allora che Caine svenne. Se fosse stato cosciente durante quel primo secondo di incoscienza avrebbe capito tutto. Ma non lo era, e così non sentì nulla. E andava già bene così... per ora.

 

 

Fumo.

Fu questa la prima cosa che percepì Caine mentre riprendeva faticosamente coscienza. Il fumo gli bruciava i polmoni, gli pizzicava gli occhi. Avvertiva il calore tutto attorno. Poi si sentì trascinato via da ciò che restava della tavola calda. Vedeva la luce al di là delle palpebre chiuse; l'aria fresca e pulita mentre il suo soccorritore lo posava a terra.

Provò a respirare, con una certa esitazione, ed ebbe un senso di sollievo nello scoprire che ci riusciva di nuovo. Tossì e inspirò a pieni polmoni.

“David, stai bene?”

Caine socchiuse gli occhi e guardò la sagoma che lo sovrastava. Era Doc. “Sì, direi di sì.” Doc allungò la mano e lo aiutò a mettersi seduto. Caine si guardò attorno. Non vedeva l'Uomo-Farfallino da nessuna parte. “Dov'è...?”

“Sto bene” disse l'amico di Doc, avvicinandosi. “Grazie a te.”

“Uh?” A Caine girava ancora la testa.

“Se non ci avessi fatti spostare, quel furgone ci avrebbe ammazzati tutti quanti.” Il professore inclinò appena la testa e abbassò la voce. “Come facevi a saperlo?”

Caine lo fissò: aveva i capelli scompigliati e l'impeccabile giacca di tweed su misura era tutta rovinata. Non sapeva cosa rispondere. Chiuse gli occhi, cercando di ricordare. Le immagini che gli scorrevano nella mente erano un reticolo ingarbugliato, flash montati insieme come in un brutto videoclip. Ketchup. Sangue. Vetri. Furgone. Morte.

“Io... io non lo so” disse, e all'improvviso gli venne da vomitare. Si alzò in piedi a fatica. Udì il suono delle sirene e decise che sarebbe stato meglio non farsi trovare lì quando la polizia avrebbe cominciato a fare domande. “É meglio che vada.” Si girò per allontanarsi, ma si sentì afferrare con forza per il braccio.

“David, credo che dovremmo parlare di quello che è appena successo” disse il professore.

Quando Caine guardò l'uomo negli occhi, vide qualcosa che non gli piacque. “Non è successo niente. Ho visto il furgoncino con la coda del l'occhio, tutto qui. Adesso mi lasci andare.” Lentamente, l'Uomo-Farfallino allentò la presa, ma lo sguardo che aveva negli occhi restò tale e quale. Caine si girò verso Doc. “Ti chiamo dopo.”

Si girò verso l'Uomo-Farfallino. “Arrivederci, professore.”

“David, puoi anche mettere da parte le formalità e chiamarmi Peter.”

Caine non si diede la pena di rispondergli. Se ne andò e basta.

 

Non sapeva da quanto andasse in giro per la città. Zigzagava tra strade e viali, lasciando che fossero i semafori a scegliere la direzione da prendere. Mentre camminava, gli avvenimenti alla tavola calda si ripetevano nella sua mente senza tregua.

Non c'era una spiegazione razionale. Anche se in fondo non era proprio vero, no? In effetti c'era una spiegazione molto razionale e plausibile, solo che lui non voleva ammetterlo: il farmaco antiepilettico l'aveva spinto oltre il limite della lucidità. Stava impazzendo. Tutto questo faceva parte di un episodio psicotico, un'allucinazione incredibilmente realistica.

Solo che era successo davvero. Bastava uno sguardo ai suoi abiti bruciacchiati per dimostrarlo, no? E se fosse stata un'allucinazione anche quella? E se invece stava vagando per la città con abiti perfettamente puliti ma che lui pensava fossero neri di fumo? Non sarebbe stato più logico di... non voleva nemmeno permettersi di pensarlo. Oh, che cavolo, perché no? Avanti, formula la parola: precognizione.

Quindi era con questo che aveva a che fare.

Cos'era più plausibile: che fosse pazzo o sensitivo? Doveva riprendersi. Aveva bisogno di parlare con qualcuno. Mentre attraversava la strada aprì il cellulare. Il display gli diceva che aveva perso le ultime tre chiamate. Che poi non era del tutto vero, dato che non le aveva “perse” per niente, ma solo evitate.

A chi telefoni quando stai diventando pazzo? C'era una sola risposta valida alla domanda. Scorse la rubrica, selezionò il nome giusto e premette CHIAMA. La voce all'altro capo del telefono rispose dopo appena uno squillo.

“Ciao, hai chiamato Jasper e questo è il segnale acustico.” Bip.

Caine non sapeva se lasciargli un messaggio, ma alla fine decise di no. Cosa poteva dirgli? Ehi, Jasper, sto perdendo la testa, richiamami. Richiuse il telefono con uno scatto e quello si mise subito a vibrare. Guardò il display prima di rispondere, in caso fosse di nuovo Nikolaev. Ma non era lui. Era un numero che non aveva mai visto, ma riconobbe le prime cifre: erano quelle della Columbia.

“Pronto?” rispose con voce esitante.

“David, sono contento di averti beccato. Sono Peter.”

Caine restò in silenzio.

“Senti, vengo dritto al punto. Credo di avere un'opportunità che potrebbe interessarti. Ti frutterebbe duemila dollari.”

Caine restò di sasso. “Hai detto duemila dollari?”

“Sì.”

“Sono tutto orecchie.”

“Vedi, sto conducendo una ricerca e penso che tu potresti essere un ottimo candidato...”

 

Caine fissò il soffitto e contò al contrario da cento a uno. Odiava le siringhe, ma ne valeva la pena: in circa dieci minuti sarebbe stato più ricco di duemila dollari. Il tecnico del laboratorio gli sfilò l'ago ipodermico dal braccio e lo sostituì con un pezzo di garza.

“Tienilo lì per circa un minuto” gli disse con voce assente mentre etichettava le tre fiale di sangue. Caine obbedì, felice che gli eventi della giornata fossero quasi finiti. Non ricordava di aver mai fatto tante analisi, nemmeno la prima volta che gli avevano diagnosticato l'epilessia. Quattro risonanze magnetiche, tre tac, analisi delle urine e del sangue. Peter era stato molto restio a parlare quando lui gli aveva chiesto cosa stesse studiando ma, nonostante la curiosità, Caine non lo incalzò. La sola cosa importante era che lo pagava in contanti.

Il giorno prima, dopo aver riattaccato con Peter, aveva telefonato a Nikolaev e aveva raggiunto un accordo: Vitalij si impegnava a non stargli col fiato sul collo e lui si impegnava a pagargli duemila dollari a settimana per sette settimane di fila, un totale di quattordicimila dollari. Non aveva idea di dove avrebbe rimediato la seconda rata, ma comunque Nikolaev questo non lo sapeva. Gli serviva solo un po' di tempo. Se ne avesse avuto abbastanza, avrebbe trovato una via d'uscita.

Un'ora dopo l'ultimo esame del sangue, entrò nel Chernobyl: Nikolaev e Kozlov lo stavano aspettando. Kozlov lo guardava con aria truce, come se non desiderasse altro che una scusa per saltargli addosso. Caine tentò di ignorarlo e si concentrò su Nikolaev.

“Ciao, Vitalij.”

“Caine, che piacere rivederti in salute” disse Nikolaev con un sorriso aperto. “Sei palliduccio però, o no?”

“É stata una giornata lunga, tutto qui” rispose lui, sentendosi ancora un po' fiacco per le cinque ore di esami medici.

Nikolaev annuì. Caine sapeva bene che non gli importava un accidenti di come stava, a patto che lo pagasse. Il russo gli posò una mano decisa sulla spalla. “Andiamo nel retro a fare due chiacchiere.”

Caine lo seguì giù nel sotterraneo, chinandosi mentre scendeva la scala ripida, con Kozlov alle calcagna. Quando furono dentro il podval batté le palpebre un paio di volte per adattare gli occhi alla scarsa luce. In un angolo era in corso una partita, per lo più di habitué. Caine li salutò con un cenno del capo e fu ricambiato da quelli che avevano già passato la mano.

Poi si spostarono nell'ufficio angusto di Nikolaev, in cui entravano appena un divano, una minuscola scrivania e una poltrona girevole. Caine si sistemò sul divano pieno di bruciature di sigaretta e Nikolaev si sedette alla scrivania. Kozlov rimase in piedi, appoggiato con tutta la sua mole alla parete come se fosse lui a tenere su l'intero edificio.

Senza aspettare che glielo chiedessero, Caine estrasse uno spesso rotolo di soldi e contò venti banconote da cento dollari. Nikolaev ne prese una a caso e la sollevò alla luce per controllare la filigrana. Quando si ritenne soddisfatto, piegò il mucchietto e lo fece scomparire nella tasca della giacca.

“Mi dispiace per il tuo appartamento,” disse Nikolaev, “ma gli affari sono affari.”

“Naturale” disse Caine, come se fosse una prassi regolare, negli affari, fregare alla gente televisore, videoregistratore e stereo.

Nikolaev si sporse in avanti, con i palmi piatti sulla scrivania.

“Allora, dove li prendi i soldi per ripagarmi? Te lo chiedo solo perché sono... preoccupato che questa rata sia la prima e l'ultima.”

Caine si alzò in piedi e sorrise, senza perdere un colpo.

“Stai tranquillo, ho provveduto a tutto.”

Nikolaev annuì. Quasi certamente non gli aveva creduto, ma non aveva importanza. O Caine rimediava altri duemila dollari entro una settimana o Kozlov gli spezzava il braccio. Era semplicissimo. Nikolaev si alzò e gli diede la mano, stringendogliela un pelo troppo forte, con uno sguardo freddo e tagliente.

“Vuoi fermarti per pranzo? Offre la casa.”

“Grazie, ho già mangiato” rispose Caine. L'ultima cosa che gli andava di fare era restare con il russo un secondo in più dello stretto necessario. “Magari la prossima volta.”

“Certo,” disse Nikolaev, “la prossima volta.”

11

Il dottor Tversky rilesse il referto medico di Caine per la quinta volta. In pratica l'aveva imparato a memoria, ma si sentiva comunque obbligato a leggerlo ancora, concentrandosi sui livelli di dopamina di Caine e sull'analisi chimica del farmaco antiepilettico. Era tutto lì sotto i suoi occhi. Il medico di Caine aveva trovato per caso l'agente scatenante senza nemmeno rendersene conto. Adesso a Tversky non restava altro che apportare qualche piccolo cambiamento alla formula che aveva e...

Era restio a provare il nuovo farmaco su Julia senza prima testarlo su un animale, ma i minuti correvano. Gliel'aveva detto anche lei: ogni attimo che passava l'equilibrio precario della composizione chimica del suo cervello poteva mutare e lui avrebbe perso la sua opportunità. L'errore non stava nell'azione, ma nell’inazione. Doveva mettersi subito all'opera.

Ritornò al referto e lo rilesse per accertarsi che non gli fosse sfuggito nulla. Aveva una sola possibilità, quindi doveva essere assolutamente sicuro che sarebbe andata a buon fine. Se così fosse stato, avrebbe saputo quali mosse fare dopo. Anzi, avrebbe saputo ben di più.

Avrebbe saputo tutto.

 

“Sei pronto?” Il signor Sheridan era così emozionato che sembrava stesse per scoppiare dentro il suo abito da due soldi. A Tommy venne la nausea alla vista dell'enorme sorriso di plastica dell'addetto stampa del Powerball.

Sono solo i nervi, nient'altro. Sei nervoso perché stai per diventare una celebrità.

Ma sapeva che non era vero. Gli era venuto da vomitare non appena si era svegliato, ore prima di sapere che sarebbe andato in tv. L'acido che gli sciaguattava nello stomaco non era dovuto alla sua imminente celebrità, ma piuttosto al fatto che la notte prima non aveva sognato.

C'era stato un tempo in cui quei sogni gli sembravano una maledizione, quando avrebbe dato qualsiasi cosa per passare una notte senza essere perseguitato dai numeri giganteschi e luminosi. Ora però si rendeva conto che senza di essi si sentiva vuoto, solo. Cercò di scrollarsi di dosso la sensazione.

É logico che non mi appaiano più. Non ne ho più bisogno. Ho vinto.

Era così, lo sapeva, ma questo non lo faceva sentire certo meglio.

“Forza, andiamo” disse il signor Sheridan con un enorme sorriso, dandogli una bella pacca sulla spalla. Tommy lo seguì fuori dalla porta fin sul podio in miniatura che l'Associazione della lotteria intentatale aveva allestito per l'occasione. Guardò i fotografi accalcati lì davanti, ma prima di poter vedere bene fu accecato da venti flash, che sembrarono scattare tutti insieme, subito seguiti dai fruscii e dai clic delle macchine fotografiche.

Tommy sfoggiò il suo miglior sorriso, a un tratto felice che la truccatrice avesse impiegato venti minuti a nascondergli i punti neri. Ipnotizzato dalle luci, saltò quasi per aria quando si sentì la mano del signor Sheridan sulla spalla.

“.. .Il nostro vincitore è un cassiere di ventotto anni che vive a Manhattan. Il giovanotto ora vale più di DUECENTOQUARANTASETTE MILIONI DI DOLLARI!” Il sorriso del signor Sheridan, già enorme, riuscì inspiegabilmente ad allargarsi ancora. “Cioè, almeno finché lo zio Sam non si prende la sua fetta.” I giornalisti risero educatamente. “E ora, bando alle ciance, sono lieto di presentarvi il signor Thomas Da Souza!”

Il signor Sheridan fece un passo di lato e piazzò Tommy davanti al mazzo di microfoni che spuntavano dal podio. Scattarono altri flash e intanto venti giornalisti urlarono il suo nome. Il signor Sheridan si sporse davanti a Tommy.

“Per favore, uno alla volta.” Si guardò attorno e poi indicò qualcuno. “Sentiamo prima Penny, poi Joel.”

Una bionda platino con un tailleur pantalone rosso scattò dalla sedia sorridendo. “Come ci si sente a essere un multimilionario?”

Tommy guardò verso il signor Sheridan, che gli fece un cenno del capo, indicandogli i microfoni. Si sporse appena un po' in avanti, facendo del suo meglio per parlare a tutti. “Piuttosto bene.” Risate.

“Come ha scelto i numeri?” urlò un uomo calvo.

“Li sognavo.” Non appena gli uscirono quelle parole di bocca, capì che era stato un errore, ma era troppo tardi. I giornalisti si misero a urlare all'unisono.

“Uno alla volta, uno alla volta!” gridò di nuovo il signor Sheridan. “Curtis, Bethany, Mike e poi Bruce.”

Un grassone di colore si alzò per richiamare l'attenzione di Tommy. “Da quanto tempo faceva questi sogni?”

“Da tutta la vita, o quasi, direi.”

“E com'erano?” chiese una donna che si era sottoposta a qualche lifting di troppo.

Tommy chiuse un attimo gli occhi, ricordando le gigantesche sfere fluttuanti. “Erano bellissimi.”

Per il quarto d'ora successivo gli chiesero di tutto, da “Crede in Dio?” a “É repubblicano o democratico?”. Lui rispondeva alle domande che sapeva e farfugliava un “Non saprei” a quelle che non sapeva. Quando il signor Sheridan interruppe i giornalisti, Tommy ebbe la sensazione di volare.

Era felice. Per la prima volta da che si ricordava, Thomas William Da Souza si sentiva felice. Mentre tornava a casa con la limousine offerta dai simpatici ragazzi dell'Associazione della lotteria interstatale, non potè evitare di interrogarsi sui suoi sogni, e su come sarebbe stata la sua vita se erano veramente finiti.

 

Nava cercò una foto di Tversky, ma non ne trovò nessuna. Evidentemente Grimes stava aggiornando le immagini sul server: avrebbe dovuto controllare dopo per vedere la faccia della sua preda.

Poi ripassò i suoi dati personali. Con due matrimoni e due divorzi alle spalle, Tversky viveva da solo in un modesto monolocale. Sebbene il primo matrimonio fosse terminato a causa di “divergenze inconciliabili” , la seconda moglie l'aveva accusato di vessazioni psicologiche e adulterio, accennando a una relazione con una delle sue studentesse.

La signora Tversky non avrebbe dovuto meravigliarsi tanto di quella relazione, considerato che lei stessa era una sua ex allieva nonché probabilmente la causa del primo divorzio. Nava si ripromise di chiedere a Grimes di controllare i tabulati telefonici di tutte le studentesse di Tversky per capire con chi andava a letto in quel periodo. Da quanto aveva sentito dire di Grimes, non gli sarebbe dispiaciuto ficcare il naso nella vita sessuale del professore.

Anche se era probabile che quelle informazioni non le sarebbero mai servite, Nava credeva fermamente che fosse sempre meglio essere più preparati del dovuto. Se avesse rapito Tversky, conoscere ogni dettaglio della sua vita privata avrebbe potuto rivelarsi utile per snervarlo.

Dopodichè si concentrò sul curriculum. Tversky aveva terminato l'università a diciannove anni, laureandosi con lode alla Caltech in matematica e biologia. Prima del suo ventiquattresimo compleanno aveva terminato un dottorato in biostatistica sulla costa orientale, alla Johns Hopkins. Dopodichè, il suo curriculum era un susseguirsi delle migliori scuole: Stanford, Penn, Harvard e poi la Columbia. Nel corso degli anni aveva ottenuto sovvenzioni di ricerca dall'Istituto nazionale per la salute, dall'Organizzazione mondiale per la salute, dal Centro per il monitoraggio delle malattie e, naturalmente, dall'Nsa.

Nava scosse la testa. Un altro genio che pensava di poter cambiare il mondo con l'aiuto del governo. Certo, loro gli davano i soldi, ma alla fine lui non era altro che l'ennesimo strumento politico. Anche lei era stata ingenua in passato, un'arma nelle mani del suo paese natio. Ma grazie a una fortunata congiuntura di eventi mondiali, la situazione era cambiata radicalmente da più di un decennio.

Il suo status di libero agente era ironico, considerato che era cresciuta con il comunismo. Dubitava che Dmitrij avrebbe approvato, ma avrebbe potuto biasimarla? Anche di questo dubitava. Comunque non aveva importanza. Dmitrij Zaitsev era morto da molto tempo ormai, proprio come era morta Tanja Aleksandrova, la ragazzina che era stata prima di diventare Nava Vaner.

Cambiare identità era stato come indossare un paio di jeans nuovi. All'inizio se la sentiva scomoda: le stava stretta in certi punti, troppo larga in altri. Con il passare del tempo, però, le aderì così completamente che divenne una specie di seconda pelle. Dopo un po', Nava aveva cominciato a dimenticare Tanja, finché non fu solo un lontano ricordo, una vecchia amica che non vedeva da quand'era bambina.

Adesso, Nava non era nessuno. Non doveva lealtà a nessuno, non aveva famiglia, né patria, né conseguenze da considerare. Aveva vissuto in quel modo per tanto tempo che ormai aveva dimenticato cosa fossero i veri sentimenti. Era una cosa che avrebbe voluto cambiare, ma sapeva che era impossibile farlo senza scomparire. Avrebbe cominciato di nuovo un'altra vita, ma stavolta avrebbe fatto le cose per bene. I suoi unici ostacoli erano il dottor Tversky e il suo soggetto Alfa.

Doveva scoprire l'identità del soggetto entro trentasei ore. Se non fosse riuscita a raccogliere abbastanza informazioni dal file, sarebbe stata costretta a pedinare Tversky. Se neanche quello fosse bastato avrebbe dovuto strappargli le informazioni con la forza. A ogni modo, una volta intrapresa quella strada avrebbe dovuto tenere prigioniero il professore fino a che non avesse trovato il soggetto Alfa. Altrimenti, avrebbe dovuto ucciderlo. Nessuna delle due alternative l'attraeva particolarmente.

Doveva esserci un modo più semplice, un qualche indizio nei suoi appunti che poteva portarla all'identità del soggetto Alfa. Era lì, doveva solo scoprirlo. Per le tre ore seguenti, Nava studiò attentamente più di mille pagine di documento, in cerca di una risposta. Proprio quando stava per arrendersi, trovò quello che stava cercando:

SONO STATI SOMMINISTRATI AL SOGGETTO ALFA 5 MILLIGRAMMI DI FENITOINA (1 MG OGNI DIECI CHILI DI MASSA CORPOREA)

Eccolo lì. Se il dosaggio era di 1 mg ogni dieci chili di massa corporea, il soggetto Alfa pesava circa cinquanta chili. Nava sorrise. Era chiaro: il soggetto Alfa era una donna. Dopo aver letto del passato di Casanova di Tversky, avrebbe dovuto immaginarselo. Probabilmente una del suo laboratorio. Nava afferrò il cappotto e corse fuori dall'ufficio, a caccia di una dottoranda sui cinquanta chili.

 

Con la sua enorme pancia, la pelle butterata e i capelli folti e stopposi, Elliot Samuelson non conduceva una gran vita sociale e così passava quasi tutte le sue ore da sveglio nel laboratorio. Era esattamente il tipo di cui aveva bisogno Nava. Lo trovò a un chiosco di hot dog subito fuori da uno degli edifici di scienze della Columbia.

In circostanze normali, Nava ci avrebbe messo settimane a tessere una relazione con Samuelson, per carpirgli le informazioni che le servivano senza destare sospetti. Quel giorno però non aveva tempo per le sottigliezze. Si era spacciata per un investigatore privato assoldato da una delle ex mogli di Tversky. All'inizio Elliot era stato riluttante a rispondere alle sue domande, ma dopo avergli infilato in mano un centone, Nava ebbe difficoltà a farlo smettere di parlare. Alla fine, dopo aver ascoltato l'elenco di tutte le caratteristiche fisiche di quasi ogni donna del laboratorio, lo interruppe.

“Ci sono donne minute? Diciamo sui cinquanta chili?”

“Hmmm” Elliot pensò ad alta voce e intanto si grattò il braccio. “C'è Mary Wu, è piuttosto piccola lei. Anche se non l'ho vista molto negli ultimi tempi perché è stata a Cambridge a scrivere un articolo insieme a un pezzo grosso di Harvard.”

Nava cancellò mentalmente Wu dalla lista di studentesse che le aveva dato Grimes. Secondo i file di Tversky, negli ultimi tre mesi aveva condotto esperimenti sul soggetto Alfa almeno due volte alla settimana. Elliot proseguì.

“Candace Rappaport e Maria Parker sono entrambe piccoline, ma Candace è fidanzata e ho sentito dire che Maria è lesbica.”

Anche se lui scartò le due donne, Nava non lo fece. Nella sua esperienza, essere fidanzati non escludeva le relazioni, e non si fidava minimamente della teoria lesbica di Elliot. Gli elencò i nomi che restavano ma, secondo lui, nessun'altra corrispondeva alla descrizione. Nava stava per andarsene quando Elliot la fermò.

“Ehi, aspetti, in effetti c'è un'altra.”

“Ah sì?”

“Sì. Tecnicamente non farebbe parte del nostro laboratorio perché è una studentessa della New York University, ma negli ultimi due anni ha lavorato da noi per un programma di scambio. Comunque, è una piccolina, sarà alta un metro e cinquantasei, e cinquantasette, però non credo sia quella che cerca.”

“Perché no?”

“Boh” Elliot alzò le spalle. “É che è strana, ecco. Specie da un po' di tempo in qua. Tipo che nelle ultime due settimane si mette sempre un berretto da baseball. Deve darle noia perché è sempre lì a grattarsi la testa e a sistemarselo in modo che non la intralci mentre usa il microscopio, però non se lo toglie mai.”

“Nient'altro?” chiese Nava, con la mente che le girava a mille. Era possibile che il parrucchiere le avesse azzannato i capelli, ma Nava sospettava che fosse un altro il motivo della sua improvvisa passione per i copricapo.

“Nient'altro, a parte le rime.”

Nava restò di sasso. Tversky aveva scritto che il soggetto Alfa aveva mostrato alcuni sintomi di schizofrenia inclusi i disturbi del linguaggio e, nello specifico, le rime.

“Come sarebbe?” gli chiese.

“Negli ultimi tempi capita che magari sta parlando e se ne esce con cose del tipo: 'Ehi, io vado a prendere qualcosa da mangiavefareparedaré. Lazzo, è ben strano.”

Nava finse di non essere interessata, anche se il cuore le galoppava nel petto. Non voleva che Elliot ricordasse la sua curiosità per la ragazza che aveva intenzione di far scomparire quel giorno stesso.

“Darò comunque una controllata, anche se probabilmente non è quella giusta” gli disse. “Come ha detto che si chiama?”

 

Quando Julia si guardò allo specchio saltò per aria, temendo per un attimo che un abominevole sconosciuto si fosse intrufolato nel bagno.

Sono solo io. Adesso sono così. Non ti ricordi?

Si morse il labbro tremolante. Julia non era mai stata vanitosa, però aveva sempre pensato che i capelli, per quanto spenti e ingovernabili, fossero il suo pezzo forte. Ora li aveva persi tutti. Si passò le dita sullo scalpo rasato, coperto solo di un'ispida peluria marrone.

Vedeva gli otto cerchietti che Petey le aveva disegnato sulla testa per contrassegnare i punti in cui inserire gli elettrodi. Al centro di ogni cerchietto blu scuro c'era un minuscolo forellino rosso. Ne toccò uno con delicatezza e sussultò. Le faceva ancora male dalla sera prima. Tirò su col naso, trattenendo le lacrime. La voce che aveva in testa e che lei identificava con la propria coscienza la rimproverò.

Come ha potuto farti questo?

- Lui non fa niente che non vogliamo entrambi.

Stai scherzando? Guardati! Tu volevi che ti rasasse la testa? Volevi che ti facesse assomigliare a una figurina da colorare umana?

- Smettila. Lui mi ama e io amo lui. E poi, ormai ci siamo quasi...

Sì, ci sei quasi a farti ammazzare. Quei farmaci ti hanno già incasinato il sistema, tanto che metà della giornata la passi a dormire. Ormai non mangi quasi più, sei emaciata. Dacci un taglio prima che sia troppo tardi. Ti supplico...

- NO. Finalmente ho qualcuno e sono felice. Perché non mi lasci in pace e basta?

Julia chiuse gli occhi e scacciò dalla mente i dubbi, ripetendosi senza sosta: Lui mi ama. Lui mi ama. Lui mi ama.

Quando si fu un po' ripresa aprì gli occhi e indossò la parrucca. Non era proprio come i suoi capelli di un tempo, ma piuttosto simile. Erano due settimane che se la metteva e nessuno se n'era ancora accorto. A parte Petey, mai nessuno la guardava. Non bene, quanto meno.

Mentre Julia usciva di casa e si affrettava per strada, incrociò una ragazza alta e bruna che fumava una sigaretta. Che schifo. Non aveva mai capito la gente che fumava, specie le belle donne come quella. Non riusciva a capire perché si ostinassero a essere così autolesioniste. Guardò l'orologio: le 14.19. Doveva correre se voleva arrivare in tempo al laboratorio.

A Petey non piaceva aspettare.

 

Nava fumò l'ultima sigaretta, poi la schiacciò sotto lo scarponcino. Decise di lasciare che Julia Pearlman la precedesse di mezzo isolato prima di seguirla. Non temeva di essere vista: la ragazza sembrava troppo spossata per prestare attenzione a quello che la circondava. Inoltre, non si trattava certo di una sorveglianza di lunga durata. Non appena le si fosse presentata l'occasione l'avrebbe catturata.

La seguì per sette isolati e rimase a guardarla dall'altro lato della strada mentre entrava nell'edificio a dieci piani dove si trovava il laboratorio di Tversky. Dopo aver mostrato il pass alla guardia, Julia scomparì dalla vista. Nava aspettò qualche secondo prima di seguirla dentro. Si avvicinò piano alla guardia, e sfoggiò il suo sorriso più civettuolo.

“Mi scusi, avevo un appuntamento qui con la mia amica venti minuti fa ma non è ancora arrivata. Non è che per caso c'è un'altra uscita?”

“No, signorina” rispose l'uomo, cercando di tirare in dentro la pancia. “A parte le uscite di sicurezza, si esce solo da qui.”

“Grazie” disse lei. “Forse non l'ho vista.”

Uscì dalla porta girevole, attraversò la strada e comprò un pacchetto di Parliaments da un tabaccaio. Con gli occhi incollati all'edificio, agitò il pacchetto e ne estrasse una sigaretta. Quando la prima botta di nicotina le andò in circolo, Nava si rilassò. Sapeva che sarebbe stata una lunga attesa, ma la cosa non la preoccupava: aveva trovato il soggetto Alfa.

La brutta parrucca sotto il berretto da baseball di Julia aveva disperso all'istante ogni possibile dubbio. Tutto tornava. Se Tversky stava monitorando costantemente le onde cerebrali di Julia, senz'altro voleva inserire gli elettrodi ogni volta nello stesso punto e il modo più semplice per farlo, ovviamente, era raderle la testa.

Quando Julia fosse uscita dal laboratorio, Nava l'avrebbe seguita, caricata con la forza sul furgone che aveva posteggiato in fondo alla strada e poi l'avrebbe consegnata all'Rdei, insieme al dischetto contenente la versione originale della ricerca di Tversky. Dopodichè avrebbe preso il primo volo per San Paolo, cambiato i documenti di identità, sarebbe salita su un altro aereo per Buenos Aires e sarebbe scomparsa. Era semplicissimo.

Doveva solo aspettare che Julia uscisse dall'edificio. Dopodichè, tutto si sarebbe risolto.

 

Caine fingeva che si trattasse di una semplice passeggiata, ma sapeva che era una bugia. Al tramonto si ritrovò in Mott Street davanti al Wong's Szechwan Palace, a fissare l'insegna al neon intermittente con raffigurata una gigantesca ciotola rossa stracolma di noodle gialli. Si tastò il portafoglio, portava con sé tutti i suoi averi. Ce la poteva fare. Sapeva di potercela fare. Se solo avesse giocato con calma e si fosse concesso una pausa ogni volta che stava per andare in tilt, poteva vincere.

Certo, era la stessa cosa che aveva pensato prima di entrare da Nikolaev e perdere undicimila dollari. Ma quella volta era diverso. Un evento irripetibile, a bassa probabilità. Una sfortuna nera come quella significava che ora gli toccava una botta di fortuna. Semplice regressione alla media. Espirò a lungo, lentamente.

Caine non voleva giocare, ma non aveva molta scelta. Nel giro di sei giorni doveva dare a Nikolaev altri duemila dollari e i pochi soldi che aveva non sarebbero bastati a dissuadere Kozlov dal mandarlo all'ospedale. Se fosse riuscito a vincere 267 dollari al giorno per i prossimi sei giorni, sarebbe riuscito a pagare la seconda rata e ad avere 40 dollari extra per comprarsi da mangiare. Avrebbe potuto anche fare di meglio. Quando era ancora dipendente dal gioco, una volta aveva vinto più di tremila dollari in una maratona di poker alla texana durata trentasei ore.

Quando era ancora dipendente dal gioco.

Buffo. Come se ora non lo fosse più. Figurarsi. A parte il suo assistente della Giocatori anonimi, non la dava a bere a nessuno. E probabilmente non la dava a bere nemmeno a lui: non che gli importasse davvero. Grazie a Nikolaev, aveva finalmente imparato la lezione. Quella sarebbe stata l'ultima volta. Se solo giocava in modo intelligente sarebbe andata bene.

Una volta pagato il debito avrebbe smesso davvero. Sarebbe andato a cinque sedute al giorno, avrebbe fatto tutto quello che c'era da fare. Caine annuì tra sé, approvando il piano. Un po' nervoso ma anche sicuro di sé, attraversò la strada ed entrò nel ristorante. La ragazza che lavorava sul davanti non alzò quasi lo sguardo mentre lui le passava oltre veloce e disinvolto. Caine attraversò la cucina rumorosa e arrivò alla stanza sul retro.

Anche se il posto sembrava piuttosto raffazzonato, Caine sapeva che il locale di Billy Wong era uno dei più sicuri della città. Tutti sapevano che il fratello di Billy era Jian Wong, il dai lo dai o capo delle Ombre fantasma, la banda cinese più forte e spietata di New York. Insieme ai Dragoni volanti, le Ombre fantasma controllavano tutta Chinatown, droga, prostituzione, gioco d'azzardo e strozzinaggio. Sì, Caine era in una botte di ferro.

“Chi non muore si rivede!” annunciò Billy Wong quando lo vide dall'altro lato della porta in acciaio rinforzata. Nonostante le origini cinesi, Billy aveva proprio l'accento di Brooklyn. “Avanti, accomodati!” disse, mettendogli un braccio sulle spalle.

“Mi fa piacere vederti, Billy” disse Caine, scoprendo con sua sorpresa che era vero.

“Contanti ne hai?” domandò Billy con aria disinvolta, come se gli avesse chiesto l'ora.

“Billy, mi conosci” disse Caine.

“Sì, e conosco anche Vitalij Nikolaev. Gira voce che gli devi venti pali.”

“Sono calati a dodici, inclusi gli interessi, e sono già coperto.”

“Senz'altro” disse Billy, con uno scintillio negli occhi. “Ma ti dico subito che non posso farti credito. Niente di personale.”

Caine annuì, la gravita della situazione gli pesava sui polmoni. Non scorreva certo buon sangue tra Billy e Nikolaev, anzi, si disprezzavano apertamente. Quindi, se Billy sapeva del suo debito con Nikolaev, di sicuro lo sapevano tutti in città. Caine avrebbe dovuto risalire la china facendo affidamento solo sul suo rotolo di banconote.

“Oggi mi sento fortunato, Billy. Non ho bisogno di credito.”

Billy buttò indietro la testa e rise. “Certo che no!” Gli diede una pacca sulla schiena. “Allora, quanto cambi?”

Caine si infilò una mano in tasca e tirò fuori il rotolo di banconote: 438 dollari. Li prese tutti tranne venti: abbastanza per qualche bicchierino al Cedar in caso fosse andata male. Billy gli diede le fiches e poi lo accompagnò al tavolo, arrivando addirittura a porgergli la sedia.

Quando Caine si sedette, gli altri giocatori lo guardarono ansiosi, sperando di vedere la faccia da cherubino di qualche giovane sprovveduto di Wall Street con un grasso portafoglio. Ci rimasero male quando videro Caine. Anche se la maggior parte di loro non sapeva chi fosse, bastava uno sguardo alle occhiaie e alla faccia smunta per capire. Non era certo un novellino: era uno di loro. Forse era bravo o forse no, ma di sicuro non era un pollo.

Gli fecero svogliatamente un cenno del capo e poi tornarono alle carte. Caine assistè alla fine della mano, sperando di cogliere qualcosa degli altri giocatori prima che distribuissero le carte anche a lui. Il piatto lo vinse un uomo con la faccia da uccello seduto in un angolo che aveva puntato forte in apertura e aveva fatto uscire tutti al flop. L'uomo fece un sorriso sbilenco mentre arraffava le fiches e mostrava stupidamente a tutti la sua coppia di regine.

A giudicare dalla velocità con cui gli altri erano usciti dopo la puntata di Faccia d'Uccello, Caine immaginò che fosse un esibizionista che di rado stava dentro a meno che non avesse della sostanza. Ora doveva soltanto capire chi diavolo fossero tutti gli altri, imbroccare qualche mano, giocare schiscio e vincere. Non appena avesse intascato 267 dollari si sarebbe fermato. Non si sarebbe lasciato trasportare, non avrebbe forzato la sorte: si sarebbe alzato e sarebbe andato via.

Un gioco da ragazzi.