7
Tommy stava leccando l'interno untuoso della bocca della pistola quando sentì squillare il telefono. Si spaventò talmente tanto che per poco non si fece saltare le cervella.
Anche se aveva programmato di suicidarsi, programmare non era lo stesso che decidere. Sapeva che, una volta premuto il grilletto, non ci sarebbe stato ritorno, quindi voleva essere assolutamente sicuro, al cento per cento. Lo squillo acuto l'aveva quasi defraudato di quella decisione. Si estrasse la calibro .45 dalla bocca e la posò sul tavolo.
La prossima volta, stacco il telefono.
“Pronto?”
“Tommy! Hai visto?!”
Era Gina, la sua ex fidanzata. Era l'ultima persona che si aspettava di sentire quella sera. “Visto cosa?”
“Il telegiornale! I numeri!”
“Non so di cosa stai parlando, ma se vuoi scusarmi ero impegnato. Magari ti chiamo dopo...”
“Non hai mica capito, vero?” disse Gina col fiatone, la voce bassa ed emozionata.
“No, te l'ho detto...”
“Tommy, hai vinto ! Sono usciti i tuoi numeri. Hai sentito o no? Hai... vinto... cazzo.” Gina pronunciò le ultime tre parole lentamente, scandendo ogni sillaba come se stesse parlando a qualcuno che non c'era del tutto con la testa. Nonostante l'avesse pronunciato chiaro e tondo, Tommy ci mise qualche secondo prima di capire cosa gli stava dicendo.
“Nel senso che...” Tommy si lasciò morire le parole sulle labbra, per paura di finire la frase.
“Sì, Tommy.”
“Ma sei sicura?”
“Cazzo, se sono sicura! Ero in cucina quando hanno annunciato i numeri. Li ho sentiti e ho capito al volo. Dopo tutti quegli anni ad ascoltarti mentre te la menavi con quei numeri, come potrei non ricordarmeli? Poi mi sono fiondata a cambiare canale finché non li hanno ripetuti e li ho scritti e tutto, giusto per essere strasicura. Porca puttana, Tommy... sei milionario.”
Tommy si limitò a guardare fisso fuori dalla finestra, senza sapere che dire, mentre piano piano la verità gli si affacciava alla mente. Era milionario. Tommy DaSouza. Milionario.
“Tommy? Ci sei, Tommy?”
“Uhm, sì.”
“Ehi, ti va se vengo lì da te? Possiamo festeggiare, proprio come ai vecchi tempi, solo che stavolta avremo veramente qualcosa da festeggiare, no?”
Le parole di Gina lo colsero impreparato. Gli era mancata così tanto che aveva desiderato di morire, letteralmente. Ma sentendo il suo tono disperato, si rese conto che stare con lei in quel momento avrebbe rischiato di farlo sentire più solo di prima.
“Mi sa che... uhm... mi sa che mi tengo l'offerta valida per un'altra volta, ok?”
“Guarda, mi metto le scarpe e arr...” Gina si interruppe da sola quando ebbe elaborato le parole di Tommy. “Oh, certo, vuoi stare da solo. Lo capisco.”
“Grazie” le disse Tommy, sentendosi all'improvviso alto tre metri. Non aveva mai detto “no” a Gina prima di allora. Che cavolo, non se l'era mai nemmeno sognato.
“Tommy, uhm, io ti amo ancora. Lo sai, vero?”
Strano, non la pensavi così tre settimane fa quando mi hai urlato che dovevo smettere di chiamarti, avrebbe voluto dirle. Ma invece dalla bocca non gli uscì altro che: “Devo andare”. Riattaccò prima ancora che lei potesse rispondere, temendo che se fosse rimasto troppo a lungo al telefono ci sarebbe tornato insieme. Strano, un paio di minuti prima avrebbe dato qualsiasi cosa per rimettersi con lei. Ma ora...
Tornò a sedersi sul divano e allungò la mano, oltre la pistola, per prendere il telecomando. Gli bastarono un paio di minuti per beccare uno dei commentatori che ripeteva la combinazione vincente: 6-12-19-21-36-40 e il Powerball rosso con il 18. Non aveva bisogno di scriverli come aveva fatto Gina, né aveva bisogno di tirare fuori il biglietto per vedere se corrispondevano. Era la sua combinazione. L'aveva giocata ogni settimana per sette anni.
Non sapeva dire con esattezza perché 6-12-19-21-36-40 + 18 fosse la sua combinazione. Non erano i numeri della sua data di nascita né niente di simile. Quei numeri erano sempre stati lì, a lampeggiargli nella mente, come enormi caratteri al neon che gli risplendevano sotto le palpebre. Erano tutti di un bianco luminoso, tranne l'ultima cifra che brillava di rosso come la brace di un falò morente. Non aveva mai capito cosa volessero dire finché il Powerball non arrivò nel Connecticut.
La prima volta che vide i numeri al telegiornale delle dieci - sei bianchi e uno rosso, proprio come quelli del sogno - capì che non poteva trattarsi di una coincidenza. Era destinato a vincere il Powerball. All'inizio temeva di aver perso la sua occasione, che la combinazione - la sua combinazione - fosse già stata estratta. Ma quando ricevette il pacchetto dall'Associazione della lotteria interstatale nella buca della posta con l'elenco di tutte le combinazioni vincenti già estratte, scoprì con grande sollievo che i suoi numeri erano ancora vergini.
Il giorno dopo prese il treno per il Connecticut per andare a giocare i numeri che aveva in testa da sempre. Anche se gli ci vollero più di due ore per andare e venire dalla ricevitoria, ne valeva la pena. Calcolò che con un jackpot di ottantasei milioni di dollari era un po' come guadagnare quarantatré milioni all'ora. La sera in cui annunciarono i numeri vincenti, lui era talmente sicuro che il suo destino stava per compiersi che offrì da bere a tutti i ragazzi dell'O'Sullivan. Gli costò centonove dollari, più la mancia, ma non aveva importanza. Sapeva che entro la fine della serata sarebbe stato così ricco da potersi comprare tutto il bar.
Solo che quella sera i numeri al telegiornale non corrispondevano ai suoi. Ne aveva azzeccati solo due su sette. Tommy era così sicuro di vincere che pensò a uno sbaglio della tv. Il giorno dopo, però, il giornale confermò che l'annunciatore dai capelli bianchi non si era sbagliato. Aveva perso.
La sua sicurezza ne fu scossa, ma non annientata. Doveva solo perseverare, nient'altro. La settimana dopo salì di nuovo sul treno per andare a giocare i suoi numeri. Ma proprio come la prima volta, azzeccò solo due cifre. Dopo qualche mese cominciò a perdere la speranza. Ci avrebbe rinunciato se quei numeri non avessero bruciato come fuoco ogni volta che si addormentava. E così continuò a comprare biglietti della lotteria, senza saltare una singola settimana per paura che potesse essere quella buona.
Dopo i primi due anni Tommy non si aspettava più di vincere, ma continuò ugualmente a comprare i biglietti. E ogni volta che si ubriacava, cosa che accadeva sempre più spesso negli ultimi tempi, diceva a chiunque lo stesse ascoltando che un giorno sarebbe diventato milionario. Aspetta e vedrai. Sfortunatamente quel giorno non arrivava mai.
I giorni passavano e le cose andavano sempre peggio. Be', non proprio peggio, ma neppure meglio, che era più o meno lo stesso. Si era diplomato da dieci anni e viveva ancora nello stesso appartamento di merda a Brooklyn con lo stesso lavoro di merda. Sia l'appartamento che il lavoro gli erano sembrati molto fichi all'inizio, ma Tommy imparò presto che ciò che è fico a diciotto anni a ventotto diventa patetico.
E la cosa peggiore era che anche le ragazze lo sapevano. Ragazze come Gina. Certo, lui andava benissimo per farsi una scopata ogni tanto, ma come Gina gli aveva scrupolosamente spiegato, mancava di “prospettive a lungo termine”. Tommy aveva cercato di diventare come voleva lei, ma era impossibile. Un ventottenne senza laurea, la cui sola esperienza lavorativa era stare alla cassa della Tower Records, non poteva svegliarsi alla mattina con prospettive a lungo termine, proprio no.
Tranne che oggi. Oggi di prospettive a lungo termine ne ho, vero? Tommy si avvicinò al tavolino e prese la pistola. Se la rigirò tra le mani domandandosi perché aveva ancora voglia di infilarsela in bocca e premere il grilletto.
Non aveva più bisogno di suicidarsi. Ora che aveva vinto i soldi si sarebbe sistemato tutto... vero? Per qualche motivo non ne era così sicuro. In cuor suo sapeva che i soldi non cambiavano niente: lui rimaneva lo stesso perdente di sempre. Ma sapeva pure qualcos'altro, e cioè che anche se era lo stesso poveraccio che pochi minuti prima stava per farsi saltare le cervella, non era condannato a restare così. Poteva trasformarsi in... in cosa?
In una persona con uno scopo, ecco cosa. Fece un sospiro nostalgico e annuì tra sé. Almeno ci posso provare. Certo. Sforzandosi di non pensare, nascose la pistola in fondo all'armadio, sotto la pila di Tshirt nere dei concerti che aveva accumulato negli anni. Prima se le metteva sempre, ma negli ultimi tempi si era ritrovato a usarle solo quando faceva il bucato ed era a corto di indumenti puliti.
Dopo aver chiuso l'anta dell'armadio, finì la birra e si stese sul divano. E anche se pensò molto ai suoi numeri prima di addormentarsi, per la prima volta in dieci anni non li vide lampeggiare in sogno.
Era notte quando Caine si svegliò. La luce del televisore sfarfallava sulle pareti buie, mandando ombre informi che saltellavano per la stanza. Sullo schermo, una bionda spumeggiante leggeva i numeri vincenti del Powerball. Caine premette un tasto sul telecomando e nella stanza si fece buio pesto. Restò a fissare nel vuoto, in attesa che i suoi occhi si adattassero all'oscurità.
Aveva la fastidiosa sensazione di essersi dimenticato qualcosa. Era qualcosa che aveva sognato? No, non l'aveva sognato. Aveva dormito come un sasso. E anche se aveva fatto dei sogni, la sua coscienza li aveva già eclissati. Poi ricordò. Aveva ingoiato la pillola. Afferrò il cellulare dal comodino per controllare l'ora. Erano quasi le due: aveva il farmaco in corpo da undici ore.
Girò la testa a sinistra e poi a destra, e intanto batté le palpebre. Non sentiva la minima differenza. Tutto bene finora. Ma in fondo Jasper non aveva detto proprio questo? Ci si sente normali. Tuttavia, Caine era convinto che si sarebbe accorto della differenza se gli fosse saltata qualche rotella. L'avrebbe capito e basta. Non poteva essere altrimenti.
All'improvviso il cellulare prese a vibrargli nella mano. Caine si spaventò talmente tanto che lo fece quasi cadere. Guardò il display per vedere chi lo chiamava.
NUMERO NON DISPONIBILE
Per un attimo pensò di non rispondere ma poi cambiò idea. Armeggiò per aprirlo con le mani ancora formicolanti.
“Ciao Caine, sono Vitalij. Come stai?”
Caine sentì un nodo allo stomaco.
“Oh, ciao. Bene, grazie. Tu come stai?” gli chiese, non sapendo che altro dire all'uomo cui doveva undicimila dollari.
“Non molto bene, Caine. Ma spero che tu mi aiuterai a stare meglio.” Nikolaev fece una pausa. Caine non sapeva bene se replicare, ma dopo qualche secondo si sentì in dovere di riempire il silenzio.
“Insomma, sì, immagino che tu mi abbia chiamato per i soldi.” Nessuna risposta. Gli si stava seccando la lingua, come una spugna lasciata al sole. “Li ho, Nikolaev. Appena esco dall'ospedale te li restituisco.”
“Con gli interessi.”
“Chiaro, con gli interessi. Naturale.” Caine cercò di deglutire ma era impossibile. “A proposito, di quanto sono?”
“Tasso standard. Cinque per cento, capitalizzati settimanalmente. Ci tengo a essere chiaro, tutto qui: i soldi ce li hai, giusto? Nel senso che a me fa molto piacere vederti al locale e voglio assicurarmi che continuerò a vederti, capisci?”
“Certo, chiaro” mentì Caine. “I soldi ce li ho. Non c'è problema.”
“Fantastico” disse Nikolaev con voce bassa e minacciosa. “Sono in banca?”
“Uhm, sì.” Caine aveva voglia di vomitare.
“Perfetto. Visto che sei bloccato a letto, mando Sergej lì da te. Gli dai la tua carta di credito e io prendo i soldi per te. Così non ti devi disturbare a venire fin qui” disse Nikolaev. “Puoi concentrarti sulla tua guarigione.”
“Oh, grazie” replicò Caine automaticamente, nel tentativo di temporeggiare. L'ultima cosa che desiderava era una visita di Sergej Kozlov, la guardia del corpo di Nikolaev che pesava più di un quintale. “Il fatto è, Vitalij, che dovrei smuovere qualche fondo, capisci? In banca avrò duemila dollari, ma il resto è in titoli. Devo incassare un paio di certificati di deposito, roba così.”
“Mi sembrava che avessi detto che avevi tutti i soldi in banca.” Nikolaev restò un attimo in silenzio. “Non è un buon momento per cominciare a spararmi balle, Caine.”
“Ma è così, cioè, no: è solo che non ce li ho tutti liquidi. Ma posso no diventarlo, Vitalij. Non appena esco di qui.”
“Ok, allora, senti cosa facciamo. Sergej è giù nell'atrio che aspetta. Te lo mando su a prendere la carta di credito. Ritirerà mille dollari sta sera e altri cinquecento ogni giorno finché non esci dall'ospedale e in cassi quei certificati di deposito. Va bene?”
“Certo, Vitalij. Perfetto” disse Caine, anche se la perfezione sarebbe stata avere più di quattrocento dollari in banca.
“Bene. Vedrai che tra pochi minuti arriva Sergej.”
“Ok, grazie, Vitalij.”
“Non c'è di che” disse Nikolaev con magnanimità. “Oh, Caine, un'ultima cosa...”
“Sì?”
“Guarisci presto.” Si udì un debole clic e cadde la linea.
Mentre riattaccava, Caine decise che era giunta l'ora di dimettersi dall'ospedale. Tirò giù il lenzuolo inamidato e scese dal letto con circospezione, temendo che le gambe non reggessero il peso. Il pavimento di linoleum era freddo e liscio contro la pianta dei piedi. Era bello essere di nuovo in posizione verticale. Quando fu sicuro che non sarebbe caduto, indossò alla svelta i suoi abiti.
Guardò l'orologio. Erano passati meno di tre minuti da quando aveva riattaccato. Considerato che sicuramente Nikolaev aveva chiamato Kozlov un secondo dopo aver parlato con lui, non gli restava molto tempo per la fuga. Non aveva dubbi che quell'omone russo avrebbe superato il blocco della sicurezza dell'ospedale, restava solo da capire quanto tempo ci avrebbe impiegato. Caine sperava di non scoprirlo mai, visto che ci teneva a scomparire molto prima della visita di quel bestione.
Si affacciò nel corridoio semibuio. Proprio in quel momento vide Kozlov che avanzava con passo pesante verso di lui. Quella montagna d'uomo non camminava, ondeggiava piuttosto, spostando la mole imponente da un piedone all'altro. Caine si sentì saltare il cuore in gola. Era troppo tardi. Avrebbe dovuto consegnargli la sua carta di credito. E quando Nikolaev avrebbe scoperto che aveva mentito sul saldo, sarebbe stata la fine.
A un tratto cose immateriali come le crisi epilettiche e la schizofrenia gli facevano molta meno paura del mondo fisico. Si guardò attorno nella stanza, alla disperata ricerca di un nascondiglio, ma non vide altro che la pallida sagoma del suo compagno di camera, il cui respiro era così impercettibile che per un attimo Caine si domandò se non fosse morto. La sola prova che era ancora tra i vivi era il debole bip del monitor dell'elettrocardiogramma.
Caine osservò il piccolo cursore elettrico che faceva su e giù e gli venne un'idea.
“Codice blu. 1012. Codice blu. 1012.”
L'infermiera Pratt parlava al microfono con la calma e la fermezza dell'esperienza. Meglio non spaventare i pazienti avvertendoli che stava morendo qualcuno nella stanza 1012. Afferrò il carrello con l'occorrente per le emergenze e si precipitò lungo il corridoio. Non si accorse dell'omone barbuto finché non andò a sbatterci contro.
Lui si girò di scatto con uno sguardo feroce in volto, ma lei non aveva il tempo di fargli la ramanzina. Lo aggirò con il carrello come se fosse un masso e proseguì oltre. Fu la prima ad arrivare. Cristo, perché i vecchi dovevano sempre schiattare quando c'era lei di turno? Era il terzo quella settimana. Quando entrò nella stanza accese le luci e corse verso il signor Morrison, che era così grigio da sembrare già un cadavere.
Fu allora che se ne accorse: gli elettrodi erano sul pavimento. In quel momento, un nuovo specializzando sbarbatello accorse nella stanza, rischiando di buttarla a terra.
“Da quant'è che...”
“Falso allarme. Si è staccato l'elettrodo.”
“Cosa... oh” disse lo specializzando, seguendo con lo sguardo il dito dell'infermiera puntato verso il filo che giaceva floscio sul pavimento.
L'infermiera si chinò a raccoglierlo. Strano, il nastro adesivo era ancora appiccicoso. Si domandò brevemente come avesse fatto a staccarsi, ma lasciò perdere quasi subito. Dopo aver fatto l'infermiera per sedici anni aveva imparato a non porsi domande sulle strane cose che succedevano nell'edificio.
Dopo tutto era un ospedale. Di roba strana ne succedeva in continuazione.
Dal vano della porta della stanza 1013, Caine cercò di rendersi invisibile mentre osservava l'infermiera e lo specializzando che uscivano dalla sua stanza. Quando, pochi secondi dopo, Kozlov sgusciò dentro la 1012, lui si fiondò lungo il corridoio e a passo svelto andò verso l'insegna rossa al neon dell'uscita. All'improvviso le lettere luminose cominciarono a ingrandirsi, ad allungarsi fino al pavimento. Gli saltò il cuore in gola.
Non ora, non ora, cazzo.
Strinse forte gli occhi, cercando di scacciare l'allucinazione visiva con la forza di volontà. Proprio allora si sentì investire da un'ondata di stordimento. Allungò una mano e afferrò un carrello lasciato accanto alla parete per tenersi in equilibrio. Quando il mondo smise di girare, Caine aprì gli occhi e vide che sul carrello c'erano una montagna di spazzoloni e camici bianchi di medici. Agendo d'istinto prese un camice dalla pila e se lo infilò.
Proprio in quel momento udì un pesante calpestio di stivali dietro di lui. Era Kozlov. Caine preparò le spalle all'impatto mentre il gigante gli arrivava addosso come un treno. Quando sentì la mano carnosa di Kozlov afferrargli la spalla, Caine capì che era la fine. Ma invece di sbatterlo contro il muro, il russo lo spinse bruscamente di lato e proseguì oltre, scomparendo dietro l'angolo.
Caine rimase per un attimo sbalordito, senza capire bene cos'era appena successo, finché non si rese conto che il camice doveva aver sviato il bestione facendogli credere che fosse un medico. Spingendosi avanti, sgattaiolò rapidamente oltre la serie di doppie porte in fondo al corridoio. Quando trovò l'ascensore allungò la mano per premere uno dei pulsanti argentati, ma proprio in quel momento cominciò a sentire una vibrazione vicino alla coscia: gli stava suonando il cellulare.
“Merda!” affondò la mano nella tasca per zittire quell'aggeggio. Ma era troppo tardi: le doppie porte si aprirono e apparve Kozlov con il cellulare in mano. Stava sorridendo.
Caine guardò l'ascensore, sperando disperatamente che si aprisse e gli desse una via di fuga, ma quello restava chiuso. Kozlov avanzava marciando lentamente lungo il corridoio, si godeva la calma prima della tempesta. In quel preciso istante le porte dell'ascensore si aprirono e apparve un vecchio ispanico che teneva in mano uno spazzolone per lavare i pavimenti dentro un enorme secchio con le rotelle.
“Mi perdoni” disse Caine afferrando lo spazzolone dalle mani dell'inserviente confuso e spingendo il secchio come un missile lungo il corridoio. Il suo tempismo non avrebbe potuto essere migliore. Kozlov riuscì a schivare il proiettile in corsa, ma mentre si spostava di lato il manico dello spazzolone gli sbatté contro la spalla, facendo ribaltare il secchio e versando l'acqua saponata sul pavimento liscio. Il russo scivolò e crollò a terra.
Caine saltò nell'enorme ascensore e schiacciò freneticamente un bottone a caso, nella speranza che si chiudesse prima che Kozlov facesse in tempo a rialzarsi. Proprio quando le porte cominciavano a scorrere per chiudersi, Caine intravide la sagoma del gigante russo: stava allungando il braccio per bloccare l'ascensore ma era troppo tardi. Le porte metalliche si richiusero e l'ascensore cominciò a salire.
Mentre guardava i numeri dei piani illuminarsi, uno dopo l'altro, Caine prese coscienza dell'assurdità della situazione. Che stava facendo? Stava correndo per un ospedale cercando di sfuggire a un gangster russo? Com'era possibile che le cose avessero preso una piega così folle?
E allora gli venne in mente: la pillola. Aveva preso la pillola, si era svegliato e poi... cosa?
Forse era così, forse si trattava di un episodio psicotico, stava solo immaginando di essere inseguito dalla mafia russa. Ma era impossibile. Era tutto vero. I soldi di Vitalij Nikolaev li aveva persi prima di prendere la pillola. Certo, gli ultimi minuti erano stati un po' folli, ma questo non voleva dire che anche lui fosse folle, no?
Oppure, magari era tutto un incubo, innescato dal farmaco. Si pizzicò il braccio per accertarsi che non stava dormendo. Gli faceva male, sì, ma cosa dimostrava? Magari stava sognando che gli faceva male. Era una spirale senza fine di logica, o illogica, a seconda dei punti di vista. Come poteva una mente maniacale capire se stava avendo un'illusione?
E se fosse stato così?
Se fosse appena scivolato nella pazzia, perduto per sempre?
Le parole di Jasper gli riecheggiarono in mente, deridendolo.
Ci si sente normali... É per questo che fa una paura bestia.
A un tratto l'ascensore si fermò con un lieve rimbalzo e un ding che gli ricordò un timer da cucina. Si aprirono le porte e senza nemmeno pensarci Caine uscì al quindicesimo piano. Non c'erano indicazioni del tipo di malattie che venivano curate lì: il reparto sembrava identico al suo. Le porte gli si richiusero alle spalle.
Caine accarezzò l'idea di chiamare un altro ascensore, ma qualcosa gli impedì di farlo. Era quasi come se avesse una voce invisibile nella testa che gli diceva: Non ancora... non hai finito. Era forse un'ulteriore prova che stava impazzendo? No. Si rifiutava di crederci. Si disse che era solo un istinto. Di istinti ne aveva in continuazione e di solito erano ottimi: tranne, certo, quello che gli aveva suggerito di puntare undicimila dollari su una mano perdente.
Ignorando il suo dialogo interno, Caine avanzò lungo il corridoio, con i passi che echeggiavano sul pavimento di linoleum, finché non raggiunse le doppie porte. Mentre toccava le maniglie lisce, avvertì un'incredibile sensazione di déjà vu.
Tutto gli sembrava così familiare... il metallo liscio e freddo sotto le dita, la luce fluorescente che gli tremolava sopra la testa, l'odore antisettico dell'alcol e delle medicine. Era una sensazione così potente che lo sopraffaceva, lo investiva come un'onda gigante, facendolo sentire... come? Preveggente? Consapevole? Sensitivo?
All'improvviso, fu pervaso da una strana sicurezza, come se avesse avuto in mano una scala reale massima e fosse stato certo di non poter perdere. E così spinse le doppie porte per vedere cosa c'era dall'altro lato. L'aria fredda gli scorreva sulla faccia mentre avanzava lungo il corridoio semibuio, passando davanti alle camere silenziose. Assimilava tutto, con la voglia di gustare ogni attimo mentre gli si svolgeva davanti, proprio come sapeva che sarebbe successo.
Scoprì che c'era un che di riposante in quell'esperienza, passare davanti a quei corpi addormentati, domandandosi quali sogni e quali incubi tormentassero le loro menti inconsce.
Una montagna di muffin con mirtilli che arriva fino al soffitto... cani rabbiosi con la bava alla bocca... una lite accesa con un'ex amante.
Ogni pensiero gli attraversava la mente come un ricordo vivido di un tempo lontano. Caine provava uno strano senso di sollievo e contatto... ma contatto con cosa?
Con le loro menti, gli sussurrò la voce (l'istinto?). Caine si disse che era un'idea folle.
Certo che lo è. Ma questo non significa che non sia vera.
Scosse la testa, spaventato. Eccoci. Stava perdendo il senno, aveva le allucinazioni. Ma era tutto troppo reale per essere frutto della fantasia. Le sensazioni erano autentiche. Poi riascoltò nella mente l'eco delle parole di Jasper:
Le illusioni sembrano vere. Naturali, persino ovvie. Come se fosse la cosa più scontata del mondo che il governo ti spii i pensieri e che il tuo migliore amico ti voglia ammazzare.
All'improvviso Caine si sentì la pelle fredda e appiccicosa. Doveva concentrarsi. Cominciò a prestare maggiore attenzione a quello che lo circondava. Ogni porta che oltrepassava aveva un numero e un cartelli
no bianco su cui era scritto a grandi lettere il nome di chi occupava la
stanza. Horan Nina. Karafotis Michael. Naftoly Debra. Kaufman Scott. Fu solo passando davanti alla quarta porta che Caine si rese conto di averli letti come se stesse cercando qualcuno. Nella sua testa, mentre indugiava davanti a ogni porta, il cervello gli aveva detto: No, no, no, no.
Quando lesse il nome accanto alla quinta porta si bloccò. Dall'interno si udiva un pianto sommesso.
Si, è lei.
Senza esitare, Caine entrò nella stanza. Le lenzuola erano appena spiegazzate sul lettone dell'ospedale, anche se sotto non sembrava esserci nessuno. Mentre i suoi occhi si adattavano all'oscurità della stanza vide la testina di una bambola: si stava girando verso di lui e batteva le palpebre sugli occhioni bagnati.
Per poco Caine non urlò, ma riuscì a mordersi la lingua prima che il grido gli uscisse dalle labbra. Fu allora che si rese conto che quell'esserino non era affatto una bambola. Era una bimba. In quel letto troppo grande, la piccola sembrava minuscola e sola.
“Stai bene?” le chiese con titubanza.
La bambina non rispose ma a lui sembrò di vederle muovere appena la testa su e giù.
“Vuoi che chiami un'infermiera?”
Lei scosse lentamente la testa.
“Vuoi che resti un po' con te?”
Un minuscolo cenno di assenso.
“Ok.” Caine avvicinò delicatamente una sedia al letto e si sedette.
“Mi chiamo David, ma gli amici mi chiamano Caine.”
“Ciao, Caine.” La voce di lei era debolissima, ma aveva una scintilla di qualcosa: speranza, forse? O era qualcos'altro? Caine non ne era sicuro. All'improvviso si vergognò della paura che aveva provato qualche minuto prima. Dopo tutto era un adulto. Quella che aveva davanti era solo una bimba. Non riusciva a immaginare come potesse essere trovar si in ospedale da soli a quell'età.
“Ti chiami Elizabeth, vero?”
“Uh-huh” disse lei tirando su col naso.
“É un nome proprio carino. Sai, se avessi una bambina, la chiamerei anch'io Elizabeth.”
“Davvero?” chiese lei, asciugandosi distrattamente il naso.
“Davvero” confermò Caine con un sorriso. Poi si allungò verso di lei e le fece l'occhiolino con aria di grande complicità. “Adesso tocca a te dire che ti piace il mio nome, anche se non è carino quanto Elizabeth.”
Elizabeth ridacchiò. “Anche il tuo nome è carino.”
“Davvero?” chiese Caine, imitando la voce acuta della bambina. Elizabeth ridacchiò di nuovo. “Davvero” disse, sfoggiando un sorriso sdentato. Poi aggiunse: “Sei diverso dagli altri”.
“Quali altri?”
“Gli altri dottori” disse lei, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. “Gli altri non mi parlano mai tranne quando dicono 'ahhhh' e roba così.”
“Eh già, i dottori possono essere duri da digerire. Ma fanno un lavoro molto difficile, tutto il giorno con gente malata, quindi io cerco di essere comprensivo.”
“Sì, direi di sì” replicò lei con una malinconia che nessuna bambina di quell'età dovrebbe avere. “É solo che mi stufo.”
“Eh già” disse Caine, sentendosi a un tratto stanchissimo anche lui. “Lo so.”
Lei lo scrutò meglio, socchiudendo gli occhi per distinguere la sua faccia al buio. “Ma tu sei un dottore per davvero, Caine?”
Lui sorrise. “Se non lo fossi ti sarei meno simpatico?”
“Cavolo, no. Mi saresti più simpatico.”
“Be', in tal caso,” disse, “non sono un dottore.”
“Bene, perché non è che mi piacciono tanto i dottori.”
“Nemmeno a me” convenne lui.
Caine rimase in silenzio per un po' ed Elizabeth fece un grande sbadiglio.
“Mi sa che è meglio che vada. Dovresti dormire da un pezzo.” Si alzò. Ma prima che potesse allontanarsi, Elizabeth allungò di scatto la mano e gli afferrò il braccio. Era sorprendente la forza della sua stretta.
“Ti prego, non andare già via. Resta ancora un po'. Finché non mi addormento, ok?”
“Ok” disse Caine e tornò a sedersi. Spostò con gentilezza la mano di Elizabeth e gliela posò in grembo. “Ti prometto che non me ne vado finché non cominci a russare.”
“Io non russo!”
“Mah, questo è da vedere” disse Caine, rimboccandole le coperte. “Ora chiudi gli occhi e comincia a contare le pecorelle.”
Elizabeth obbedì. Dopo pochi secondi si girò verso di lui, con gli occhi ancora chiusi.
“Vieni a trovarmi domani notte?”
“Mi sa che domani sarò andato via, Elizabeth.”
“Allora magari vieni a trovarmi in sogno, eh?”
“Certo. Magari in sogno.”
Pochi minuti dopo, Elizabeth cominciò a respirare pesantemente e Caine uscì dalla stanza in punta di piedi, con la strana certezza che qualunque cosa l'avesse portata in ospedale si sarebbe risolta.
Jasper girava attorno all'isolato, in attesa che la Voce gli dicesse quando era il momento giusto. Non aveva mai usato una pistola prima di allora, ma non era preoccupato. Era esattamente come fare una foto: puntare e premere. L'unica differenza era che una Nikon 35mm non aveva il rinculo di una Lorcin L 9mm.
Si era chiesto se fosse il caso di fare un paio di tiri di prova a Harlem, dove aveva comprato l'arma illegale, ma aveva solo due caricatori e non voleva sprecare proiettili. Non sapeva quanti gliene sarebbero serviti, perché la Voce era piuttosto vaga riguardo a tutta la faccenda. Gli aveva detto solo di comprare una pistola e di portare le chiappe a downtown e lui aveva obbedito. Si sarebbe dovuto esserci tare sul posto.
Jasper si domandò se gli sarebbe toccato ammazzare qualcuno. Non voleva, ma sapeva che se la Voce gliel'avesse ordinato, lui avrebbe obbedito. La Voce non gli avrebbe mai dato indicazioni sbagliate. Era semplicemente impossibile: la Voce sapeva tutto, tutto quello che c'era da sapere.
Jasper non capiva bene da dove gli venisse questa certezza, però ce l'aveva. La Voce non gli aveva mai detto che era onnisciente, ma quando gli parlava, una parte del cervello di Jasper vedeva quello che vedeva lei. E quando questo si verificava, lui vedeva tutto. Tutta la gente che complottava e tramava contro David. Alcuni volevano venderlo in cambio di denaro. Altri volevano usarlo per degli esperimenti. Un paio lo vo levano morto.
Ecco perché si era dovuto procurare la pistola. Per proteggerlo. Per proteggere David da quelli che volevano fargli del male. Lui non avrebbe mai permesso che facessero del male al suo fratellino. Mai...
É il momento.
Jasper si fermò sul marciapiede deserto e drizzò la testa.
- Ho preso la pistola, come mi hai detto tu.
Sei pronto?
- Sì.
Bene. Ecco cosa devi fare...
Mentre ascoltava, Jasper chiuse gli occhi per poter vedere un pezzo di infinito. In quel momento capì il suo vero scopo e un sorriso idilliaco gli attraversò il viso. Poi la Voce si zittì. Quando riaprì gli occhi le immagini che aveva visto si sottrassero alla sua coscienza, lasciandosi dietro solo ombre.
E anche se Jasper non ricordava tutto quello che aveva visto, continuava a sentirsi leggero e allegro, come se avesse il ventre pieno di gioia pura. Strinse l'impugnatura della pistola e si affrettò lungo la strada. Doveva correre se voleva arrivare in tempo.
Quando si trovò fuori dalla porta di Elizabeth, Caine provò un senso di sollievo. Qualunque istinto (Voce?) l'avesse spinto a entrare in quella stanza si era zittito. All'improvviso non c'era motivo di stare lì, perciò ripercorse il corridoio fino all'ascensore. Ma quando arrivò al pianoterra sentì di nuovo qualcosa che lo tirava, sussurrandogli all'orecchio.
Non passare per l'uscita principale, saranno lì ad aspettarti. Passa dal pronto soccorso.
Temendo di ignorare il suo istinto (forse vuoi dire la Voce?), Caine procedette per i corridoi tortuosi finché non si ritrovò nel pronto soccorso. Assomigliava ben poco a quello di ER, che pure era ambientato in un posto analogo. Non c'erano medici prestanti che urlavano cose tipo: “un RX torace!” o “tre mg di cortisone!”. Invece c'erano solo un mucchio di sedie occupate da persone infelici che tossivano, starnutivano, stillavano o grondavano sangue.
Individuata l'uscita, Caine cominciò a farsi strada fra le sedie. Passò davanti a una donna incinta che litigava con il marito e un'onda di stordimento fece tremolare la stanza, come se lui stesse guardando tutto da dietro una cascata cristallina. Si fermò e afferrò la sedia più vicina, stringendo forte gli occhi. Tentò di ignorare la coppia che bisticciava vicino alla porta, ma la loro conversazione gli trafiggeva la mente.
“Non posso starmene da sola. Sei via tutto il giorno su quel ridicolo treno con me bloccata qui, a centinaia di chilometri di distanza.”
“Ma tesoro...”
“Non mi dire 'ma tesoro'. Non è prudente e basta. Chiediamo a lui. Lei che ne pensa?” Ci fu un attimo di silenzio. “Dottore? Dottore?”
Caine aprì gli occhi, felice di scoprire che il senso di stordimento era passato. La donna incinta lo stava fissando.
“Eh?” chiese Caine, confuso.
“Secondo lei è prudente per una donna che ha avuto tre aborti spontanei e ha perso il primo figlio restarsene a casa tutta sola mentre il marito guida un treno su e giù per la costa Est?”
Caine guardò il marito della donna incinta come per chiedergli aiuto, ma quello si limitò a scrollare le spalle.
“Non saprei” disse Caine, arrabattandosi in cerca di qualcosa di intelligente da dire. “Non ha dei parenti vicini?”
La donna scosse la testa. “Solo una sorella a Filadelfia.”
“Buffo: mio fratello abita a Filadelfia. Il mondo è piccolo” commentò Caine, quasi tra sé. A un tratto gli scappò detto: “Perché non va a stare da sua sorella? Almeno fino a quando non scade il termine”.
Il marito si illuminò in volto. “Ehi, è un'ottima idea, tesoro. Puoi stare da Nora per i prossimi due mesi. Poi, quando arriva il bambino, torni a casa. Così siamo tutti contenti.”
La donna abbassò gli occhi e si guardò le mani tozze che si tenevano tra loro come se avessero paura di restare sole. Lentamente, annuì.
“Va bene. Le telefono.”
L'uomo sospirò di sollievo, le diede un bacetto leggero sulla fronte e tese la mano a Caine. “La ringrazio tanto, dottore.”
“É stato un piacere” disse Caine, sentendosi a sua volta sollevato per aver messo fine a quella strana conversazione. “In bocca al lupo.”
“Grazie” disse l'uomo, senza smettere di stringergli la mano.
Mentre accompagnava la moglie alla porta, lei iniziò a chiedergli di telefonarle ogni ora mentre era al lavoro. Lo costrinse a ripetere più volte il suo numero di cellulare per assicurarsi che lo sapesse a memoria in modo che non avesse “scuse” per non chiamarla.
Caine aspettò un attimo prima di seguire la coppia all'esterno, per paura di ritrovarsi per caso a mediare un altro litigio. Quando si sentì sicuro di avere via libera, fece gli ultimi venti passi verso la libertà. Oltrepassò l'uscita e si ritrovò in un turbine d'aria gelata.
Anche se odiava il freddo, mentre camminava a grandi passi per la strada si gustò il modo in cui l'aria fresca gli pungeva le orecchie e penetrava nel camice sottile. Ce l'aveva fatta. Aveva la sensazione che tutto si sarebbe risolto, finché due rozze manone lo afferrarono per il colletto e lo sbatterono contro l'edificio.
La testa gli rimbalzò contro il cemento e provò un dolore lancinante alla spina dorsale. Non fece in tempo a cercare di reagire che l'uomo gli passò un braccio enorme attorno al petto e lo portò un po' di peso e un po' trascinandolo dietro l'angolo, in un lotto abbandonato. Lo buttò sul terreno ghiacciato, poi lo tirò su afferrandolo per il collo e lo spinse contro il muro di mattoni.
Caine non riusciva a distinguere il viso del suo aggressore con la poca luce che c'era, ma gli bastò l'accento pesante dell'uomo per capire chi era. “Signor Caine” ringhiò Kozlov. “La stavo cercando.”
8
Il colpo di pistola fu assordante. Molto più forte di quanto Jasper si aspettasse. A quel botto, l'aggressore del fratello si immobilizzò con il pugno sospeso nell'aria, tirato indietro come quello di un pugile dei fumetti. “Lascialo andare.” Jasper parlò con un lieve tremito nella voce, ma non gli importava. La manona carnosa che stringeva il collo di suo fratello allentò la presa e si alzò lentamente. David cadde in ginocchio e iniziò a tossire con violenza.
“Stai bene?” gli chiese Jasper.
“Che cavolo ci fai qui?” chiese David tra un colpo di tosse e l'altro.
“Se te lo dico non ci credi. Questo chi è?” Jasper indicò il gorilla che aveva ancora le mani in alto.
“Si chiama Sergej” disse David con voce rauca alzandosi in piedi, stando ben attento a tenersi fuori dalla portata del russo.
“Sergej, dì a Vitalij che gli darò i suoi soldi entro la fine della settimana.”
“Al signor Nikolaev non piacerà” grugnì Sergej. “No, mi sa di no” disse David.
“Ma tu diglielo lo stesso, ok?”
Sergej alzò le spalle come per dire: Tanto sei tu che a rimetti la pelle.
David indietreggiò e andò a mettersi alle spalle di Jasper, che si rigirò la pistola nella mano e colpì Sergej con l'impugnatura. L'omone crollò a terra come un albero abbattuto.
“Sarà meglio levare le tende prima che il tuo amico si svegli” disse Jasper, col respiro affannato.
Per la prima volta, David guardò bene il fratello. “Come facevi a sapere...?”
Anche se avrebbe voluto dirglielo, Jasper sapeva che il gemello non era pronto. Era importante apparire normale. Se si fosse comportato da pazzo, David non si sarebbe fidato. Ma la cosa non lo preoccupava affatto: era una vita che faceva finta di essere sano di mente, sapeva interpretare bene la parte.
“Pura fortuna, direi” mentì. “Avanti, andiamo.”
Prese il fratello per mano e lo portò via. Dopo qualche isolato David si fermò.
“Aspetta, dove stiamo andando?” gli chiese.
“Torniamo a casa tua.”
“Ma non possiamo” disse David, scuotendo la testa. “Nikolaev verrà a cercarmi lì.”
“No, non lo farà” rispose Jasper sicuro di sé.
“Come fai a saperlo?” Invece di rispondere, Jasper lo prese per il braccio e si mise a correre, trascinandoselo dietro.
Quando arrivarono a casa, una chiazza di luce del primo mattino si insinuava già sul pavimento. Fuori dalla finestra Caine vide il sole che faceva capolino all'orizzonte. L'orologio alla parete segnava le 6.28. Era l'unico oggetto elettronico rimasto in tutta la casa oltre alla segreteria telefonica. Il resto era stato rubato. Una cosa doveva riconoscerla: almeno Nikolaev era meticoloso.
Il pavimento era disseminato di pezzi degli scacchi in pietra. Caine si chinò a raccogliere il cavallo nero. Adesso aveva il muso scheggiato. Una fitta di tristezza e di senso di perdita gli trafisse il petto. Quegli scacchi erano la sola cosa di valore che possedeva, un regalo di suo padre per quando aveva compiuto sei anni. Nell'attimo stesso in cui il padre aveva disposto quegli strani pezzi sulla scacchiera bianca e nera, Caine ne era rimasto incantato.
“Gli scacchi sono come la vita, David” aveva detto.
“Ogni pezzo ha la sua funzione. Alcuni sono deboli, altri forti. Alcuni sono importanti all'inizio della partita e altri contano di più alla fine. Ma li devi usare tutti per vincere. E come nella vita non c'è punteggio. Puoi anche perdere dieci pezzi e vincere comunque. É questa la bellezza degli scacchi: puoi sempre rimontare. Per vincere ti basta sapere tutto quello che succede sulla scacchiera e capire cosa farà il tuo avversario prima ancora che lo faccia.”
“Come predire il futuro?” gli aveva chiesto David.
“Predire il futuro è impossibile. Ma se conosci abbastanza il presente puoi controllare quello che accadrà.”
All'epoca non aveva capito cosa volesse dire, ma questo non gli impedì di godersi gli scacchi. Ogni sera, dopo che lui e Jasper avevano lavato i piatti, il padre faceva una partita con ciascuno prima che andassero a fare i compiti. Jasper non lo batteva mai, ma David ci riusciva qua si sempre.
Raccolse il re bianco e lo posò sulla scacchiera. Erano passati più di dieci anni dalla morte del padre. Quelle partite insieme gli mancavano ancora.
“Sai,” disse Jasper, distogliendolo dai suoi pensieri, “secondo me papà preferiva te perché giocavi benissimo.”
“Papa non mi preferiva” ribatté Caine, anche se sapeva che nelle parole di Jasper c'era più di un briciolo di verità. “E poi tu giocavi bene quando ti concentravi. Il tuo problema era che non riuscivi mai a stare seduto fermo abbastanza a lungo. Facevi sempre degli errori di distrazione e a quel punto era facilissimo attaccarti.”
Jasper scrollò le spalle. “La concentrazione è una tua specialità. Certo non mia” disse. “Ce l'hai un cuscino?”
Chiuso il capitolo ricordi, pensò Caine. Visto che la conversazione era ormai conclusa, sistemò il fratello sul divano e poi andò a stendersi sul letto. Si addormentò quasi subito. Pian piano, la sua mente vagò, lasciandosi trasportare nel mare dell'inconscio. E poi si ritrovò...
...
su un treno per Filadelfia.
Il vagone sbanda delicatamente di qua e dì là, facendogli venire sonno. Il clic clac, clic clac del treno diventa un ronzio costante nel suo cervello, gli alberi fuori dal finestrino si fondono in una macchia indistinta nera e verde. Lui guarda in giù, leggermente sorpreso per quello che vede. Nel palmo della mano sinistra ha una manina minuscola. É di Elizabeth. Lei gli fa un gran sorriso e gli stringe forte un dito.
Caine si guarda la mano destra. Le dita sono schiacciate insieme, tenute da una mano grande e morbida con le unghie lunghe e rosse. Si volta per chiedere alla donna di allentare la presa. Quando lei si gira per guardarlo, a lui sembra di riconoscere un che di familiare. Non capisce chi è finché non vede la rotondità della sua pancia. La donna incinta del l'ospedale.
“Dove state andando?” chiede Caine a tutte e due.
“Nello stesso posto in cui vai tu” gli rispondono all'unisono.
“Perché?” chiede lui, senza sapere con esattezza dove stia cercando di arrivare.
“Perché,” risponde Elizabeth, “è così che funziona.”
“Oh” dice Caine, come se quell'affermazione spiegasse tutto.
E, in un angolo del suo cervello ora invaso dalla dopamina, era proprio così: spiegava tutto.
Il dottor Tversky si sistemò la cravatta prima che le porte si aprissero scorrendo. Fu accolto da due uomini in tuta mimetica verde e nera. Non aveva mai capito perché in un contesto urbano i militari si vestissero con abiti disegnati appositamente per confondersi con il fogliame della giungla. Nella stanza grigia, le loro mimetiche erano tutt'altro che tali e facevano sembrare iperreali i due omoni, come cartoni animati a tre dimensioni.
“Mi fa vedere un documento di identità, signore?” Le parole caddero pesanti e piatte. La richiesta della guardia era un ordine.
Tversky gli consegnò la patente di guida e attese mentre la guardia gli stampava e porgeva un badge. Lanciò un rapido sguardo alla superficie laminata prima di appuntarselo al petto. Le grosse lettere in stampatello proclamavano: TVERSKY, P. sopra le linee nere verticali di un codice a barre. Si domandò quando la gente avrebbe cominciato a dare per scontato che fosse assolutamente normale farsi etichettare come una saponetta.
Fu stupito di trovare una propria foto nell'angolo in alto a destra del tesserino. Evidentemente gliel'avevano scattata qualche minuto prima da una delle numerose telecamere nascoste nell'impianto dell'Str. Fissò l'immagine: non aveva mai visto un'immagine tanto naturale di se stesso. Per un attimo fu colto alla sprovvista: l'uomo nella foto non aveva una gran bella cera. Sembrava arrabbiato e piuttosto intimorito. Si domandò se le emozioni che si leggeva in viso sarebbero state altrettanto evidenti per Forsythe.
Questo rischiava di compromettere l'incontro. Forsythe avrebbe percepito la sua paura e l'avrebbe sfruttata a proprio vantaggio, e oltretutto c'erano già scarse probabilità che gli credesse. Secondo Tversky, Forsythe non era mai stato una cima: più che altro era un uomo dell'amministrazione. Eppure lui era lì a chiedere a quell'uomo, un personaggio minore, i suoi soldi.
E il suo aiuto.
Forsythe era seduto dietro la grossa scrivania e fissava il vecchio collega. Quello che Tversky gli aveva appena spiegato aveva dell'incredibile. No, incredibile non era la parola giusta: impossibile. Ma se quella storia conteneva anche un solo briciolo di verità, lui non poteva ignorarla. Anzi, forse era proprio quello di cui aveva bisogno. Forsythe decise di torchiarlo ben benino, per vedere quanto fosse convinto delle proprie teorie.
“Be', di certo hai un caso interessante per le mani” commentò senza esporsi. “Ma cosa vuoi da me?”
“Ho bisogno del tuo appoggio. Ovviamente non dispongo dei mezzi necessari per studiare il fenomeno in modo adeguato. Ma con le tue risorse...”
“Potresti” concluse Forsythe, congiungendo le mani sulle gambe.
“Sì. Potrei” rispose il professore a denti stretti. Forsythe scosse la testa tra sé. Da un uomo intelligente come Tversky ci si sarebbe aspettati che a quel punto della sua carriera avesse imparato a dominare la rabbia. Specie nel parlare con un possibile finanziatore. D'altronde, era l'inettitudine alle relazioni interpersonali di Tversky - e di quelli come lui - che gli consentiva di avere successo lì dove loro fallivano.
“Mi piacerebbe aiutarti,” esordì Forsythe, “ma ciò che mi hai descritto è uno schiaffo a più di settantanni di fisica quantistica. Come ben sai, Heisenberg dic...”
“Heisenberg sbagliava” disse Tversky.
“Ah sì?” Forsythe era abituato a trattare con l'incredibile presunzione degli scienziati, ma la sfacciataggine di Tversky lo colse impreparato. Anche se c'erano ancora un paio di apostati che insistevano nel dire che il Principio di indeterminazione di Heisenberg era sbagliato, quasi tutti i più eminenti fisici del pianeta concordavano con i principi della meccanica quantistica stabiliti da Werner Heisenberg.
Nel suo celebre saggio del 1926, lo studioso asseriva che era impossibile osservare un fenomeno senza influenzarne l'esito. Per provare tale affermazione immaginò di voler verificare l'esatta posizione e velocità di una particella subatomica.
Tale operazione si può compiere solo puntando un'onda di luce sulla particella. Analizzando il modo in cui l'onda si scompone, è possibile determinare la posizione della particella nel momento in cui è stata investita dall'onda di luce. Tuttavia, tale procedura ha un effetto indesiderato: la collisione con la luce fa variare in modo imprevedibile la velocità della particella.
In tal modo, Heisenberg concluse che era impossibile conoscere contemporaneamente sia la posizione della particella che la sua velocità, dimostrando che c'era sempre un certo grado di indeterminazione nel mondo fisico. Di conseguenza rifiutò i concetti assoluti che i fisici newtoniani avevano sempre difeso, e sostenne che il mondo non era bianco o nero, ma grigio. Egli affermò che nel mondo reale le particelle subatomiche non hanno posizioni precise, ma solo posizioni probabilistiche, nel senso che se anche una singola particella probabilmente si trova in un punto, essa in realtà non si trova in nessuna posizione individuabile finché non la si osserva.
Heisenberg fu di conseguenza in grado di dimostrare che la sola informazione che si poteva ottenere tramite l'osservazione non era la posizione della particella per come realmente esisteva in natura, ma la posizione di una particella che viene osservata in natura. E, anche se molti scienziati si sentirono a disagio per un concetto del genere, la teoria di Heisenberg di un universo probabilistico era del tutto coerente con equazioni fisiche precedentemente accettate (sebbene inspiegabili).
Infine, nel 1927, i fisici si riunirono per accordarsi su quella che sarebbe passata alla storia come l'Interpretazione di Copenaghen, che sosteneva le teorie di Heisenberg e stabiliva che i fenomeni osservati obbedivano a leggi fisiche diverse dai fenomeni non osservati. Questo non soltanto sollevò alcune questioni filosofiche molto interessanti, ma costrinse anche gli scienziati ad ammettere che tutto era, letteralmente, possibile, dato che in un mondo regolato dalle probabilità piuttosto che dalle certezze tutti gli esiti possono verificarsi.
Per esempio, anche se è probabile che una data particella si trovi nel laboratorio di uno scienziato, è altresì possibile che si trovi invece nel bel mezzo dell'universo. Tale fu la nascita della moderna fisica quantistica e anche se i più non potevano affermare di capire come fosse possibile, nessuno poteva confutarla.
Tuttavia la teoria non venne accettata da tutti, specie da quegli scienziati che erano newtoniani osservanti e credevano nel determinismo: ovvero che l'universo è regolato da leggi immutabili e che non c'è nulla di indeterminato. I deterministi spiegavano ogni fenomeno come conseguenza di una causa precedente, sostenendo che quindi poteva essere previsto alla perfezione, se solo l'umanità fosse riuscita a comprendere le “vere” leggi dell'universo e il suo stato attuale.
Forsythe rimuginava su queste cose mentre pensava al miglior modo per attaccare l'affermazione di Tversky.
“Rifiutare Heisenberg significa abbracciare il determinismo” gli disse con cautela. “É questo che stai dicendo?”
“Forse. Dal mio punto di vista, il determinismo non è mai stato del tutto smentito.”
“E che mi dici di Charles Darwin?”
Tversky alzò gli occhi al cielo sentendo nominare l'uomo che fu tra i primi a contestare il determinismo. Sebbene il Principio di indeterminazione di Heisenberg venisse spesso considerato come il colpo di grazia definitivo (sebbene il più astratto) al determinismo, la teoria dell'evoluzione di Darwin era uno dei più importanti e più facilmente comprensibili.
Quando Darwin scrisse il rivoluzionario Origine delle specie, offrì tanto ai filosofi quanto ai fisici la visione di un mondo che non era frutto di una mente divina, bensì di un'evoluzione avvenuta nell'arco di milioni di anni attraverso innumerevoli mutazioni casuali. Dopo la pubblicazione dell’Origine nel 1859, chiunque scegliesse l'ipotesi dell'evoluzione rispetto a quella del creazionismo doveva altresì rinunciare a qualunque concetto di predestinazione e, di conseguenza, al determinismo.
“Stai forse dicendo che neghi l'evoluzione? Ti prego, non venirmi a dire che sei un creazionista.”
Per un attimo Tversky digrignò i denti prima di rispondere; Forsythe sorrise. La cosa che gli piaceva di più del dibattito intellettuale era irritare i suoi fratelli della torre d'avorio. Sapeva bene che etichettare Tversky come un creazionista era ridicolo, ma era proprio per questo che lo trovava così divertente. Era chiaramente troppo per Tversky, che cambiò registro e assunse il tono polemico da conferenziere.
“É ovvio che credo nell'evoluzione, sebbene il postulato di Darwin secondo il quale l'evoluzione e la selezione naturale derivano da mutazioni casuali rimane del tutto indimostrato. Il semplice fatto che la scienza moderna non sia stata in grado di determinare cosa provoca le mutazioni non significa che esse siano casuali. La casualità non è che l'apparenza di un fenomeno al momento incomprensibile.
“Nel genoma umano ci sono più di 3,2 miliardi di nucleotidi. Chi può dire se all'interno di questi genomi non ci siano strutture chimiche che in presenza di certe avversità ambientali riprogrammano intenzionalmente le caratteristiche fisiche della progenie di un individuo, come la pelle che si scurisce nei climi tropicali o gli zigomi che si alzano nelle regioni molto ventose?”
Forsythe alzò le mani. “Va bene, ti sei spiegato perfettamente. Ritiro quello che ho detto: non penso che tu sia un creazionista. Ma allora, il determinismo? E Maxwell?”
James Clerk Maxwell, trisavolo di Heisenberg, fu uno dei fisici più geniali del XIX secolo, noto soprattutto per il suo studio delle onde elettromagnetiche così come anche della termodinamica, ovvero il movimento del calore. La sua maggiore scoperta fu la legge dell'entropia, secondo la quale il calore si sposta sempre dal corpo più caldo al corpo più freddo fino a quando le temperature dei due corpi si equivalgono.
Egli dimostrò che, se si lasciava cadere un cubetto di ghiaccio in un bicchiere di acqua tiepida, non era la “freddezza” del ghiaccio a diffondersi nell'acqua, ma il calore relativo dell'acqua a essere assorbito dal ghiaccio. L'acqua scaldava il cubetto finché quello non si scioglieva e l'intero liquido non raggiungeva un equilibrio termico. Come Heisenberg, tuttavia, nemmeno Maxwell era un fanatico delle leggi assolute e anche se passò il primo periodo della sua carriera nel tentativo di scoprirle, nell'ultimo periodo cercò di abbatterle.
Il suo principale successo su quel fronte fu la dimostrazione che la Seconda legge della termodinamica non era affatto una legge. La celebre Seconda legge stabiliva che in qualunque sistema l'energia concentrata in una singola zona tende a disperdersi e spandersi. Essenzialmente la Seconda legge veniva usata per spiegare qualunque cosa: dal perché le pietre non risalivano le montagne al perché una batteria esaurita non si ricaricava all'improvviso da sola. E il motivo era che in entrambi i casi si sarebbe dovuta verificare una concentrazione spontanea di energia, ovvero l'esatto opposto di quanto stabilito dalla Seconda legge, e cioè che l'energia tende sempre a disperdersi; un sistema tende sempre al massimo disordine. Di qui la Seconda legge si guadagnò il soprannome di “Freccia del Tempo” perché sembrava che dirigesse letteralmente il flusso del tempo.
Tuttavia, Maxwell riuscì a dimostrare che la Seconda legge non era, in realtà, assoluta. Lo fece immaginando un tubo in cui veniva iniettato del gas. Dato che la Seconda legge stabiliva che l'energia interna a un sistema tende sempre a spandersi, si poteva dare per assunto che le molecole di gas si sarebbero distribuite nello spazio disponibile in egual modo fino a riempirlo interamente. Questo suggeriva che tutte le parti del tubo avrebbero avuto una temperatura uniforme, poiché il calore è il risultato del moto incessante e casuale delle molecole.
Dopodichè Maxwell postulò che, siccome la direzione e la velocità a cui viaggiano le molecole sono casuali, era possibile che le molecole che si spostavano più velocemente si ritrovassero tutte a un'estremità del tubo. Questo avrebbe dunque provocato un momentaneo picco della temperatura per via di una concentrazione spontanea di energia lì dove erano raccolte tutte le molecole: una diretta contraddizione dell'assunto fondamentale della Seconda legge, in base al quale l'energia tende sempre a disperdersi.
Di qui, Maxwell dimostrò che la Seconda legge era vera solo probabilisticamente, ossia vera soltanto “nella maggior parte dei casi”. In questo modo, egli provò che la maggior parte delle leggi fisiche non può mai raggiungere una precisione assoluta.
Tversky rispose. “La gente spesso cita la dimostrazione di Maxwell che la Seconda legge della termodinamica è probabilistica piuttosto che assoluta come prova dell'esistenza del caso. Io però postulerei che la casualità è solo l'apparenza, e non la realtà.”
Forsythe inarcò le sopracciglia a quell'affermazione ardita. Ciò che suggeriva Tversky andava quasi al di là della comprensione. Erano entrambi consapevoli del suo significato, ma Forsythe aveva bisogno di dirlo ad alta voce, anche solo per sentirlo pronunciare.
“Quindi pensi che la velocità e la direzione degli elettroni non sia casuale?”
“Se credi davvero nella teoria di Heisenberg secondo cui tutto è possibile,” disse Tversky, “allora devi anche accettare la possibilità che il movimento degli elettroni non sia casuale.”
“Ma se il movimento di particelle di elettroni non è casuale, cosa le muove?”
“Ha importanza?” chiese Tversky.
“Certo che ha importanza” disse Forsythe con un cenno della mano, “E perché?”
Forsythe fissò il vecchio collega, senza sapere bene cosa rispondere. “Come sarebbe a dire perché?”
“Sarebbe a dire,” rispose Tversky, sporgendosi in avanti, “che importanza ha sapere cosa è responsabile del movimento degli elettroni? Potrebbero essere particelle organizzate più piccole di un quark ancora da scoprire, o un flusso energetico proveniente da una realtà non locale, che diavolo, potrebbe perfino essere che gli elettroni siano senzienti. Il punto è che non ha importanza perché il movimento non è casuale, ma solo il fatto che non è casuale.”
“Ma la variabile di controllo che sta dietro al movimento degli elettroni...”
“É un concetto molto interessante, ma va oltre i limiti della mia ricerca.”
Forsythe bevve un lungo, lento sorso di caffé, rimuginando sulle affermazioni di Tversky. “Non mi hai ancora spiegato il ragionamento 'fallace' di Heisenberg, però.”
“Non ne ho bisogno. Se accetti il fatto che gli elettroni si muovono con un qualche tipo di senso, devi accettare anche che esiste una forza che impartisce tale senso. Non capisci? Se quella forza sconosciuta e per ora impossibile da misurare esiste, allora può darsi che ci siano dei modi per osservare un elettrone senza utilizzare un'onda di luce.”
Forsythe non poteva fare a meno di fissarlo.
“Ma la tua logica è sia circolare che paradossale. Tu stai dicendo che siccome in un universo probabilistico può succedere qualunque cosa, allora quell'universo potrebbe essere deterministico invece che probabilistico! Stai usando il Principio di indeterminazione di Heisenberg per confutare Heisenberg.”
Tversky si limitò ad annuire. La sua presunzione era sconvolgente, eppure le sue idee avevano una fluidità stranamente persuasiva. A ogni modo, Forsythe non voleva dargli a intendere che stava cominciando a convincersi.
Si schiarì la voce e disse: “E per quale motivo dovrei accettare queste ipotesi eretiche?”.
“Non ti sto chiedendo di accettarle a scatola chiusa, ma solo di credere che potrebbero essere possibili.”
“In base a cosa?”
Gli occhi di Tversky brillarono. “La fede.”
“Non il più convincente degli argomenti, devi ammetterlo.”
Tversky alzò le spalle. “Senti, James, io non faccio il venditore. Faccio lo scienziato. Ma ti dico che ho ragione. L'ho visto. Se tu fossi stato lì, allora capiresti.”
“Ma non c'ero.”
“Ma io sì.”
Forsythe scosse la testa. “Mi dispiace, ma non è abbastanza. Non posso assegnare dei fondi senza nemmeno una prova. Non posso...”
Tversky sbatté il pugno sulla scrivania. “Ma porca puttana, perché no? Un tempo la scienza era una cosa rivoluzionaria. La praticavano dei geni poveri in canna che lavoravano nel seminterrato di casa ventiquattr'ore su ventiquattro perché erano convinti che l'universo funzionasse in modo diverso da come la gente che li circondava credeva che funzionasse. Avevano la capacità di vedere le cose. E avevano coraggio.”
Tversky si alzò e gli si avvicinò. “Ti sto supplicando: per una volta, cerca di non essere un burocrate, ma uno scienziato.”
Forsythe si appoggiò allo schienale della poltrona. “Io sono uno scienziato. La sola differenza tra me e te è che io vivo nel mondo reale e sono consapevole dei limiti. Sono abbastanza furbo da lavorare dentro il sistema invece che lagnarmene. Mi vieni a dire che devo essere coraggioso, be', ti faccio la stessa domanda: dov'è il tuo coraggio? Che cazzo hai fatto di tanto rischioso al servizio della scienza?”
Tversky non disse una parola. Forsythe non capiva bene se era per collera o per mancanza di argomenti, ma non gli importava. Gli stavano bene entrambe.
“Appunto.” Si alzò e aprì la porta del suo ufficio. “Se non c'è altro, mi aspetta una giornata molto piena. Gradirei che tornassi a ripresentarmi le tue teorie, quando avrai qualche prova.”
“Otterrò le prove,” disse Tversky con fredda determinazione, “ma quando le avrò dubito che te le porterò.” Si voltò e si avviò lungo il corridoio a passo svelto.
Forsythe si girò verso la guardia davanti alla porta e aggiunse, senza nascondere una certa soddisfazione: “Per favore, si accerti che il dottor Tversky trovi l'uscita”.
“Sissignore” rispose il soldato e si diresse spedito ad assolvere il suo incarico. Forsythe indugiò ancora un attimo nel corridoio vuoto e poi rientrò nell'ufficio. Fu solo quando richiuse la porta che un sorriso gli attraversò il volto. Era sicuro che le sue frecciate avevano messo a Tversky il proverbiale sale sulla coda. Dato che sapeva già dei test “segreti” di Tversky sul soggetto Alfa, non era difficile pensare che il suo sarcasmo avrebbe spinto lo scienziato a correre rischi ancora più grossi.
Ora non doveva fare altro che rilassarsi e stare a guardare. Se il prossimo esperimento di Tversky fosse stato un fiasco, si sarebbe concentrato su altri progetti. Ma se avesse dato il risultato sperato... be', Forsythe avrebbe dato istruzioni all'agente Vaner di piombare sulla preda e fare quello che le riusciva meglio. Dopodichè, lui stesso avrebbe potuto riprendere da dove aveva interrotto Tversky.
E la scienza non ne avrebbe risentito.
9
Quando Caine si svegliò Jasper se n'era già andato. C'era un Post-it attaccato al divano con su scritto: “Vado a sbrigare un paio di commissioni. Ci vediamo dopo”. Caine non sapeva quali commissioni avesse da sbrigare il fratello, ma non se ne preoccupò. Nonostante la lieve instabilità mentale, era ormai chiaro che Jasper era in grado di badare a se stesso. Era lui a essere nei guai.
A malapena riusciva a capacitarsi di ciò che era successo la notte prima. Gli sembrava talmente assurdo. Decise di prepararsi un caffé: riflettere gli riusciva sempre meglio con un po' di caffeina in corpo. Mentre ascoltava il liquido che gorgogliava nella caffettiera, notò la lucina rossa della segreteria telefonica che lampeggiava rabbiosa. Premette PLAY con rassegnazione. Un secondo dopo, la voce suadente di Vitalij Nikolaev pervase la stanza.
“Ehi, Caine. Sono Vitalij, volevo solo sapere come stavi. Perché non fai un salto al locale? Sono preoccupato per te.”
“Ci credo che sei preoccupato” disse Caine rivolto alla scatola argentata. Gli altri cinque messaggi erano tutti di qualcuno che riattaccava. E lo stesso nella segreteria del cellulare. Era martedì: da due giorni doveva undicimila dollari a Nikolaev. Visto che Nikolaev addebitava il cinque per cento di interessi alla settimana, Caine ora gli doveva 11.157 dollari. Era nella merda fino al collo.
Tornando a casa dall'ospedale, aveva svuotato il conto in banca. Il suo capitale ammontava a 438,12 dollari, inferiore agli interessi di una settimana. Doveva trovare una soluzione. Affrontò il problema come avrebbe fatto qualunque studioso di statistica: analizzò le probabilità e gli esiti di ogni possibile sviluppo per determinare la miglior linea d'azione.
Sfortunatamente poteva solo pagare o sparire.
Ma per via delle crisi epilettiche, sparire non era possibile. Era escluso che potesse tagliare la corda e continuare la terapia sperimentale. Doveva presentarsi due volte la settimana per gli esami del sangue e aveva con sé soltanto venti pillole che gli sarebbero bastate appena per dieci giorni. Anche se avesse trovato il modo di sfuggire a Kozlov, non sarebbe mai riuscito a sfuggire alle crisi. No, doveva continuare con la ricerca di Kumar, anche solo per sapere di averci provato.
Quindi doveva pagare, o fare pace con Nikolaev. Magari lui gli avrebbe concesso di ripagarlo lavorando. Al pensiero Caine scosse la testa. Lavorando come cosa? Picchiatore? Non era verosimile. Sospirò. Non c'era modo di aggirare il problema: doveva trovare i soldi.
Ma come fare per trovare i contanti? La prima risposta era piuttosto ovvia: nello stesso modo in cui li aveva persi, giocando d'azzardo. Inconsciamente tastò il sottile rotolo di banconote che aveva in tasca. Poteva andare in uno degli altri locali con i suoi quattrocento dollari e cercare di trasformarli in qualcosa di più sostanzioso. Non era del tutto impossibile.
Con un colpo di fortuna, avrebbe potuto vincere un paio di pali entro la mattina dopo. Certo, se avesse perso, si sarebbe ritrovato ancora più nella merda. Inoltre, se Nikolaev avesse saputo che lui era andato a giocare in un altro locale, non avrebbe certo gradito.
E Atlantic City? Poteva saltare su un pullman, spennare un paio di turisti ai tavoli di poker alla texana. Avrebbe senz'altro vinto se avesse giocato con prudenza: il problema era che ci avrebbe messo troppo tempo. I polli facevano solo puntate basse, di tre in sei o di cinque in dieci, e poi c'era sempre almeno uno squalo vero a ogni tavolo. Con puntate così basse, Caine poteva contare di racimolare solo venti o trenta dollari l'ora. Non c'era da sputarci sopra, ma a quel ritmo sarebbero stati troppo pochi soldi in troppo tempo. Anche se avesse giocato per sedici ore di fila avrebbe intascato solo fra i 320 e i 480 dollari: nemmeno gli interessi di una settimana.
No, il casinò era senz'altro da scartare. Per quanto riguardava l'ipotesi di giocare in un altro locale, per il momento Caine decise di tenerla come opzione di scorta. La sola alternativa era cercarsi un lavoro, ma era impossibile che riuscisse a trovarne uno regolare così in fretta. Non con la congiuntura economica del paese e non con la voragine di inattività che aveva nel curriculum. Già si immaginava il colloquio:
“Allora, signor Caine, cos'ha fatto dal 2002 a oggi?”.
“Be', per qualche mese mi hanno internato perché un paio di volte la settimana mi capita di vedere cose e di avere le convulsioni. Dallo scorso settembre però frequento il locale di Vitalij Nikolaev: sono un grande giocatore di poker alla texana. Ah, già, a proposito: non è che potreste darmi un anticipo di undicimila dollari? Devo renderli alla mafia russa prima che mi ammazzino.”
Oppure poteva farsi dare un assegno di ricerca da uno dei professori. Era una buona idea, ma probabilmente migliore in teoria che in pratica. C'era molta concorrenza per accedere a quei posti ed era impossibile farsi anticipare dei soldi; inoltre, la paga era ridicola. Per beccare i soldi veri bisognava andare nel privato, che poi era il motivo per cui tutti i più grandi professori facevano anche consulenze a Wall Street.
All'improvviso gli venne un'idea: poteva chiedere al suo vecchio relatore di assumerlo per uno dei suoi progetti di consulenza. Se Caine gli avesse venduto l'anima, magari Doc gli avrebbe lasciato fare il lavoro di analisi più palloso. Che diavolo, con un po' di fortuna, forse gli avrebbe pure anticipato un po' di soldi. Guardò l'orologio: erano le dieci e qualche minuto.
Di solito Doc insegnava Introduzione alla Statistica alle dieci e mezza alla Columbia. Teneva quel corso invece di un seminario post-laurea in modo da poter dedicare più tempo possibile alla ricerca piuttosto che a preparare lezioni di alto livello. Come la maggior parte dei professori, Doc odiava insegnare, anche se nessuno l'avrebbe mai sospettato dopo aver assistito al grande spettacolo che inscenava per i suoi studenti.
Una breve telefonata e la segretaria confermò a Caine che quel giorno c'era la prima lezione di Doc del semestre. Se si sbrigava poteva beccarlo prima che cominciasse. Afferrò la giacca di pelle e il flacone di pillole bianche gli scivolò dalla tasca, ricordandogli che era l'ora della dose. Mentre si faceva cadere una pillola nel palmo, non potè fare a meno di chiedersi se quella della sera prima fosse stata una vera allucinazione, stimolata dal farmaco sperimentale.
Aveva paura di prendere un'altra pillola, ma gli faceva ancora più paura non prenderla. La mandò giù senz'acqua prima di farsi cogliere dal panico e poi uscì di casa. Mentre scendeva di corsa le scale ebbe la sensazione di aver dimenticato qualcosa, ma non riuscì a capire che diavolo fosse. Lo sapeva, ma non riusciva a focalizzarlo: continuava a ballargli ai margini della coscienza, subito fuori portata. Lasciò perdere, sicuro che prima o poi gli sarebbe venuto in mente. Succedeva sempre così, con quel genere di cose.
Ventisette minuti dopo, Caine respirò a fondo ed entrò nell'aula. Scelse un posto nell'ultima fila e si sedette. Sentiva il cuore martellargli nel petto, ma non era ancora prossimo allo svenimento. Ce la poteva fare. Era una stanza come un'altra e lui non stava facendo lezione. Tutto sarebbe filato liscio fino a che restava seduto lì.
Davanti alla classe Doc afferrò un gessetto e scrisse a lettere cubitali:
LO STUDIO DELLA PROBABILITÀ É NOIOSO
Un paio di studenti rise. “C'è qualcuno che la pensa diversamente?” No, nessuno. “Perfetto, ora che ci siamo chiariti su questo punto, consentitemi di assicurarvi che questo corso merita il vostro tempo, perché in questo corso noi non parleremo della teoria della probabilità. Parleremo della vita. E la vita è interessante. Quanto meno la mia, la vostra, sinceramente, non ho idea.
“La teoria della probabilità è la vita, però messa in numeri” continuò. “Vi faccio un esempio. Ho bisogno di un volontario tra il pubblico. Su le mani.” Se ne videro parecchie scattare in aria. Proprio in quel momento la porta in fondo all'aula si richiuse sbattendo e tutti si girarono a guardare. L'ultimo arrivato stava già sgattaiolando verso una sedia, con il berretto da baseball che gli nascondeva quasi del tutto gli occhi. Doc si diresse a passi svelti verso il fondo dell'aula e lo afferrò per il braccio.
“Questo è quello che si chiama un volontario obbligatorio.” Doc alzò il braccio del ragazzo come se fosse un pugile. “Come si chiama?”
“Mark Davis.”
Doc si girò di scatto, prese un foglio stampato dalla cattedra e lo passò a Mark. “Che cos'è questo?”
“Uhhh... sembra la lista per l'appello.”
“Esatto. Ora mi dica, quanti studenti ci sono in questa lista?”
Mark esitò un attimo, poi alzò lo sguardo. “Cinquantotto.”
“E mi dica, accanto ai nomi sono elencate anche le date di nascita?”
“No.”
“Allora ci sarà da divertirsi” disse Doc alla classe con tono cospiratorio prima di rivolgersi di nuovo a Mark. “Lei si definirebbe un uomo cui piace scommettere?”
“Sicuro.”
“Eccellente!” Doc gli fece un applauso. Si infilò una mano in tasca, tirò fuori cinque banconote da un dollaro nuove di zecca e le mostrò alla classe, come un mago prima di un numero. “Scommetto cinque verdoni che in quest'aula ci sono almeno due persone che hanno la stessa data di nascita. Che ne dice?”
Mark guardò la classe e poi di nuovo Doc con un sorrisetto. “Sì, ci sto.”
“Fantastico. Vediamoli.”
Mark aggrottò la fronte perplesso.
“I soldi, i verdoni.”
Il ragazzo alzò le spalle e tirò fuori una banconota da cinque spiegazzata. Doc gliela strappò di mano e la sbatté sulla cattedra. Poi si girò verso la classe e sorrise, puntando il pollice verso Mark.
“Ha abboccato” disse. La classe scoppiò a ridere e il giovane arrossì. “Se Mark avesse un minimo di esperienza della vita ovvero, della probabilità saprebbe di avere appena fatto una pessima scommessa. Qualcuno sa dire il perché?”
Nessuna risposta.
“Va bene, allora mi ci vogliono altri volontari.” Nessuno si mosse. Poi Doc individuò Caine. Lui cercò di sprofondare nella sedia, ma era troppo tardi. “Guarda guarda, oggi abbiamo un ospite d'eccezione in aula. Uno “dei miei migliori studenti del dottorato: David Caine. David, alza la mano.” Caine alzò la mano con riluttanza, la gola secca. Il resto della classe si girò per guardarlo. “Io lo chiamo 'Rainman' perché è l'unico in tutto il dipartimento che non ha bisogno di una calcolatrice. Ti andrebbe di darmi una mano, David?”
“Immagino di non avere scelta, giusto?” disse Caine, cercando di ignorare il fatto che il cuore stava per esplodergli nel petto.
“Giusto, non ce l'hai” rispose Doc.
“Be', in questo caso, ne sarei onorato.” La classe ridacchiò. Caine si sforzò di far rallentare il battito del suo cuore. Facile come andare in bicicletta. Ce la poteva fare.
“Eccellente” disse Doc, congiungendo le mani. “Quante probabilità ci sono che tu e io abbiamo la stessa data di nascita?”
“Lo 0,3% circa.”
“Per piacere, vuoi spiegare a noi comuni mortali come sei giunto a tale risposta?”
“Ho diviso uno per 365.”
“Esatto. Dato che siamo nati entrambi in uno dei 365 giorni dell'anno, le probabilità che abbiamo la stessa data di nascita sono esattamente 1 su 365.” Doc corse alla lavagna e scribacchiò
1/365 = 0,003 = 0,3%
“Ci siamo?” Si udì un fruscio di fogli e un paio di brontolii mentre gli studenti si rendevano conto che era giunta l'ora di prendere appunti. “Ok, se ti avessi chiesto di scommettere che non abbiamo la stessa data di nascita avresti accettato, giusto?”
“Giusto.”
“E sarebbe stata una mossa furba: probabilmente avresti vinto. Io sono nato il 9 luglio. Tu quando sei nato?”
“Il 18 ottobre.”
“Appunto. C'era solo 1 probabilità su 365 che avessimo la stessa data di nascita, e 364 su 365 probabilità che le avessimo diverse. Ora dimmi quante probabilità ci sono che tu sia nato lo stesso giorno di una persona qualunque in questa classe, incluso me.”
Caine ci pensò un attimo e poi alzò lo sguardo. “Il 14,9%.”
“Esatto. Per favore, spiegaci.”
“Per calcolare le probabilità che io sia nato lo stesso giorno di una delle altre 59 persone nell'aula, bisogna prima calcolare le probabilità che io non sia nato lo stesso giorno di chiunque altro, cioè 364 fratto 365 alla cinquantanovesima potenza. Vale anche per calcolare la probabilità che io non sia nato lo stesso giorno di un altro studente moltiplicata per se stessa 59 volte, perché ci sono 58 studenti oltre a te.”
Mentre Caine parlava, Doc scribacchiava.
Prob(data di nascita diversa da tutti) = (364/365)59 = 85,1%
“Quindi,” proseguì Caine, “dato che le probabilità che io non sia nato lo stesso giorno di chiunque altro in questa classe sono dell'85,1%, di conseguenza quelle che io sia nato lo stesso giorno sono del 14,9%.”
Prob(date di nascita uguali) = 1 - Prob(date di nascita diverse)
= 100% - 85,1%
= 14,9%
“Perfetto” disse Doc. “Mi state seguendo tutti?” Varie teste annuirono qua e là per la classe mentre gli studenti finivano di copiare i calcoli di Doc sui loro quaderni.
“Benissimo, facciamo un passo indietro. Stabilito che io e te non siamo nati lo stesso giorno, che probabilità ci sono che nessuno di noi due abbia la stessa data di nascita di chiunque altro nella classe?”
Caine si schiarì la gola. “Per prima cosa si calcola la probabilità che io abbia una data di nascita diversa da chiunque altro - che sappiamo già essere dell'85,1% - poi si calcolano le probabilità che nemmeno tu abbia la stessa data di nascita di chiunque altro, tenendo conto che noi due siamo nati in giorni diversi.”
“Ehi, piano, piano, corri troppo” disse Doc con tono teatrale. Lanciò il gessetto a Caine, dall'altro lato dell'aula, e lui lo prese istintivamente al volo. “Potresti venire qui a mostrarci cosa intendi?”
Tutti si girarono verso di lui. Caine aveva le mani sudate e il cuore gli batteva all'impazzata, ma in qualche modo si costrinse ad alzarsi in piedi. Mentre scendeva verso la cattedra, ogni gradino gli sembrava durare un'eternità. Eppure più si avvicinava alla lavagna più si sentiva sicuro di sé. Provò a battere rapidamente le palpebre, ma il mondo restava a fuoco. Il farmaco del dottor Kumar funzionava. Si sentiva a casa.
“Uhm, va bene” rispose, girandosi verso la classe. “Come stavo dicendo, sappiamo già che io e Doc abbiamo due date di nascita diverse. Per calcolare le probabilità che nessuno di noi due abbia la stessa data di nascita di chiunque altro nella classe, bisogna prima calcolare le probabilità che Doc non abbia la stessa data di nascita di chiunque altro.
“Per farlo utilizzerò lo stesso calcolo con cui abbiamo ottenuto le probabilità che io non abbia la stessa data di nascita di chiunque altro, solo che stavolta metterò 363 come numeratore e 364 come denominatore, perché so già che io e lui abbiamo date di nascita diverse, e quindi devo togliere un giorno. Dopodichè elevo la frazione alla cinquantottesima potenza invece che alla cinquantanovesima perché devo rapportarlo soltanto a 58 persone, e non a 59, visto che io mi sto escludendo dal conto.
“Di conseguenza, le probabilità che Doc non abbia la stessa data di nascita di chiunque altro nella classe sono dell'85,3%.”
ProbDoc(data di nascita diversa da tutti) = (363/364)58
= 85,3%
Caine si girò per guardare la classe. Per un attimo ebbe la raccapricciante impressione di vedere delle mani simili a palme e si sentì ribalta re lo stomaco. Strinse forte gli occhi e poi li riaprì. Stava bene. Le palme erano scomparse. Fece un respiro profondo e continuò.
“Quindi se volete conoscere le probabilità che nessuno di noi due abbia la stessa data di nascita di chiunque altro, dovete moltiplicare fra loro le due probabilità.”
Prob(date di nascita di Caine e Doc diverse da tutti)
= Prob(data Caine div) x Prob(data Doc div|sapendo Caine div)
= (364/365)59 x (363/364)58
= (85,1%) x (85,3%)
= 72,5%
“Le probabilità che né io né Doc siamo nati lo stesso giorno di un qualsiasi altro studente sono del 72,5%. Di conseguenza le probabilità che io o Doc siamo nati lo stesso giorno di un altro di voi sono del 27,5 %.”
Prob(date di nascita di C o D uguali a qualcun altro)
= 1 - Prob(date di nascita diverse)
= 100% - 72,5%
= 27,5%
“Ci siete tutti?” L'improvvisa intromissione di Doc lo sorprese. Caine si era quasi dimenticato di non essere lui il professore. “Benissimo” disse Doc quando tutti annuirono. “Ok, ultima domanda: quante probabilità ci sono che due persone qualsiasi della classe abbiano la stessa data di nascita?”
“Be',” rispose Caine, girandosi verso la lavagna, “supponendo di non sapere che io e te siamo nati in giorni diversi, si ripete lo stesso calcolo che ho usato per determinare se noi due abbiamo la stessa data di nascita, per ogni studente della classe, uno per uno, sottraendo ogni volta uno al numeratore.”
Prob(date di nascita di due persone qualsiasi uguali) =(364/365)x(363/365)x(362/365)
....
x(308/365)x(307/365)x(306/365)
= 0,006
= 0,6%
“Visto che le probabilità che nessuno abbia la stessa data di nascita di un altro sono soltanto dello 0,6%, allora c'è una probabilità del 99,4 % che almeno due persone in questa classe siano nate lo stesso giorno.”
Doc batté lentamente le mani. Si girò e intascò la pila di banconote sulla cattedra, poi diede una pacca sulle spalle a Mark.
“Grazie per i soldi, signor Davis. Può sedersi adesso.”
“Ehi, aspetti un attimo” protestò Mark. “Solo perché il suo amico dice che mi sbaglio non vuoi dire che è così.”
“Ah, un miscredente. Sta forse dicendo che non crede alla teoria della probabilità?”
“Non sempre al cento per cento” disse Mark con un sorrisetto.
“Blasfemo!” urlò Doc, alzando le mani al cielo come un predicatore. “Fratelli e sorelle, tra noi si annida un miscredente! Aiutatemi a salvare l'anima di quest'uomo! Tutti quelli che sono nati in gennaio si alzino in piedi.”
Quattro studenti si alzarono. “Dite la vostra data di nascita, partendo dal fondo.”
Erano tutte date diverse. Il sorrisetto di Mark si allargò. Doc si limitò a scrollare le spalle. “Se fossi in lei mi toglierei quel ghigno dal viso. Tra un secondo la farà sembrare molto stupido.” Doc si girò verso la classe e proseguì. “Va bene, quelli di gennaio si siedano pure. Quelli di febbraio, si alzino in piedi e dicano le date.”
Stavolta si alzarono in cinque. Di nuovo, nessuna data combaciava. Lo stesso risultato si ripetè per marzo, aprile, maggio e giugno. Mark era sempre più compiaciuto. Fino a quando non si confrontarono le date di luglio.
Uno studente di ingegneria magrolino: “Tre luglio”.
Uno sportivone con i capelli a spazzola: “Dodici luglio”.
“Ehi, pure io! Dodici luglio!” esclamò una ragazzina orientale con una maglietta rosa.
Doc sfoggiò un gran sorriso, aprì le braccia e fece un profondo inchino. “Non ho altro da dire.” Mark si accigliò e tornò a sedersi.
“Quindi, qual è la morale della storia? La prima è che maggiori sono le dimensioni del campione, maggiori sono le probabilità. In altri termini, con un numero sufficiente di osservazioni, qualsiasi cosa può accadere e state certi che lo farà a prescindere da quanto è improbabile. Se avessimo una classe di, che so, dieci persone, forse Mark non tornerebbe a casa con le pive nel sacco, perché in quel caso le probabilità che due persone abbiano la stessa data di nascita sarebbero del... Rainman, per favore, dammi una mano.”
Caine chiuse gli occhi per qualche secondo e poi li riaprì. “Più o meno del 12%.”
Doc sorrise. “Esatto. Quindi, stavo dicendo? Ah, sì, la seconda morale della storia.” Guardò dritto verso Mark: “Che la teoria della probabilità non mente mai. Credeteci, perché è l'unico vero Dio”.
Abbozzò un inchino e ricevette un paio di applausi. Era raggiante. “Ok, adesso diamo un'occhiata alla lezione.”
Caine lo prese come il segnale per tornare al posto. Mentre risaliva le scale, provò un impeto di gioia. Ce l'aveva fatta. In quel momento, nonostante gli pendessero ancora sulla testa due spade di Damocle di nome Epilessia e Vitalij' Nikolaev, non gli importava. Per qualche minuto aveva fatto lezione. Per la prima volta in quasi diciotto mesi credette di poter riuscire a riprendersi la sua vita. Se solo l'avesse saputo prima, non avrebbe aspettato così a lungo per partecipare alla ricerca sperimentale del dottor Kumar.
Tre quarti d'ora dopo, Doc terminò la lezione. “Potete andare. Ci vediamo domani. Magari, se saremo fortunati, il signor Caine vorrà unirsi di nuovo a noi.”
La maggior parte degli studenti scattò fuori dall'aula, Caine invece rimase a guardare mentre alcuni zelanti si accalcavano attorno al professore per fargli qualche domanda sulla lezione. Quando la folla si fu dispersa, Caine si avvicinò al suo vecchio mentore.
“Sono felice di rivederti, Caine.” Doc gli diede una pacca sulla spalla. “Secondo me dovremmo proprio calcare le scene con il nostro spettacolo.”
“Dubito che la gente sarebbe disposta a pagare davvero per vederlo.”
“Stai scherzando? L'hanno appena fatto cinquantotto studenti, ciascuno dei quali paga quattordicimila dollari di retta per quattro corsi. Il che fa...”
Caine batté le palpebre. “Centotrentaquattro dollari e sessantadue centesimi, a corso.”
“Esatto!”
“Fico” disse Caine. “Quindi per la lezione di oggi mi spetterebbero tremilanovecentoquattro dollari. Mi fai un assegno?”
Il furgone bianco con la celebre scritta blu e arancione spense il motore proprio dall'altra parte della strada rispetto alla tavola calda di Sam. Il furgone della FedEx era uno dei quaranta acquistati da una società di copertura posseduta interamente dall'Nsa. Tuttavia, a eccezione della carrozzeria, il veicolo assomigliava molto poco agli altri furgoni della compagnia di spedizioni: adesso era dotato di un motore potente e di un equipaggiamento per la sorveglianza di livello militare.
Nessuno dei tre passeggeri aveva con sé un documento di identità a parte le targhette finte col nome sulle divise rubate. Steven Grimes era il capo della squadra. Era uno dei maggiori esperti di sorveglianza del paese, anche se non ne aveva certo l'aspetto, con quei suoi capelli neri e unti e la carnagione bianca come un fantasma.
Quando era alla Centrale di controllo stava seduto su una grossa poltrona di pelle da comandante, da cui poteva controllare dieci monitor e accedere a cinque tastiere. Ma là fuori, sul campo, le cose erano ridotte all'essenziale: aveva solo tre schermi, due tastiere e un minuscolo sgabello metallico conficcato nel pavimento. Eppure era sul furgone che dava il meglio di sé, perché Grimes, nel profondo, era un informatico da campo.
La cosa che gli piaceva di più in assoluto era guardare. Quando si trattava di voyeurismo, Grimes era un maestro. Nonostante non avesse ricevuto un'istruzione formale, era un genio dell'elettronica, e grazie al fatto che il padre era un criminale, anche un esperto scassinatore. Queste due abilità gli consentirono di fabbricare minuscole telecamere artigianali da installare dovunque lo ritenesse opportuno, cosa che cominciò a fare al secondo anno di superiori nello spogliatoio delle ragazze. Espulso da scuola, decise che voleva diventare un guardone professionista, perciò fece domanda all'Nsa. La sua prima domanda fu sommariamente rifiutata, ma Grimes riuscì a far cambiare idea al capo del personale infiltrandosi nella rete informatica dell'Nsa e scrivendo una nota personale al direttore della Crittografia che se la ritrovò sullo schermo quando accese il computer.
Grimes fu assunto il giorno dopo e gli otto anni che seguirono furono il coronamento del sogno di un voyeur. Gli fu dato un laboratorio di elettronica tutto suo e un budget pressoché illimitato per comprare giocattoli da spia. Le uniche cose che non gli piacevano del lavoro erano le menate burocratiche e il suo capo, il dottor James Forsythe. Forsythe o, come a Grimes piaceva chiamarlo, il dottor Jimmy era un rompicoglioni di prima categoria, ancora peggio di tutti quei segaioli dell'esercito messi insieme.
Fino a poco tempo prima i due avevano mantenuto un rapporto di mutuo interesse, sebbene astioso. Questo, però, fino a quando Grimes non aveva perso tutto grazie a una dritta del cazzo che gli aveva dato Forsythe. Se non fosse stato per il dottor Jimmy, Grimes avrebbe avuto ancora duecentomila dollari in banca. Due mesi prima, però, aveva investito tutto nella philoTech perché il dottor Jimmy gli aveva detto che il senatore Daniels aveva presentato un grosso disegno di legge che avrebbe garantito alla philoTech un enorme contratto col governo.
Quando un paio di settimane dopo si sparse la voce, le azioni andarono alle stelle, schizzando dal minimo di 20 dollari e 25 centesimi l'una, costante da ormai cinquantadue settimane, a 101 dollari e mezzo. Invece di vendere, Grimes raddoppiò, perché sapeva che il contratto col governo valeva tre volte di più delle aspettative di Wall Street. Già si vedeva padrone di una fortuna, ma poi una mattina Daniels non si svegliò più e tutto andò a puttane. Niente più Daniels, niente più disegno di legge e niente più contratto per la philoTech. E tutto questo prima che lo scandalo dei conti truccati finisse in prima pagina.
Nella prima ora di contrattazioni, la philoTech perse il 98% e Grimes si ritrovò senza un soldo. Il suo gruzzolo iniziale valeva meno di diecimila dollari. E Forsythe? Condivideva forse il suo dolore? Manco per il cazzo. Quel pezzo di merda aveva venduto tutto appena le azioni avevano toccato le tre cifre, e si era fatto una barca di soldi.
E Grimes non poteva farci niente. Il peggio, però, era che l'unica possibilità di rimettere insieme i suoi soldi era di restare attaccato al culo di Forsythe: quindi eccolo lì, a eseguire gli ordini di quell'omuncolo. In quel preciso istante squillò il telefono e lui schiacciò un pulsante sul quadro di comando. L'mp3 che stava ascoltando fu sostituito dalla voce fastidiosa del dottor Jimmy.
“E pronto l'audio?” gli chiese senza nemmeno salutare.
“Non si scaldi tanto, dottor Jimmy” disse Grimes, gustandosi i risolini degli altri sul furgone. “ Augy ci sta lavorando. Dovremmo essere collegati in un paio di minuti.”
“Bene” ringhiò Forsythe. “Quando avete fatto rendilo accessibile da EtherNet.”
Il dottor Jimmy riattaccò e Grimes tornò a concentrarsi sul monitor che mostrava un vecchio in una tavola calda. Si domandò cosa potesse avere Tversky di tanto importante da spingere il dottor Jimmy a ordinare alla squadra di Grimes di osservarlo mentre pranzava.