30

...

L'elicottero sfreccia sugli alberi e vira a ovest. I cinque uomini sono in silenzio, circondati dal rumore assordante delle pale rotanti. Ognuno si prepara mentalmente alla battaglia. Juan Esposito e Charlie Rainer sperano nell'azione. Ron McCoy è spaventato: vuole solo uscirne illeso. Frank Dalton agogna il sangue. E Martin Crowe... lui prega per la figlia.

Lui è diverso dagli altri. Quella differenza lo rende un uomo migliore, ma anche più pericoloso degli altri quattro messi insieme. Non si fermerà davanti a niente per portare a termine la missione, anche se a differenza degli altri, la sua missione non ha niente a che fare con David Caine. Caine è solo un mezzo per raggiungere un fine. La figlia è la sua unica, vera missione.

Martin Crowe sa che le probabilità di riuscire a salvarla sono poche. Ma non si arrende. Caine lo rispetta. Chiunque decida di non piegarsi davanti a probabilità impossibili va ammirato... e temuto. Non sono di versi, lui e Crowe. Sono entrambi pronti a rischiare la vita per gli altri. Peccato che le rispettive missioni li mettano contro. Caine sa che in un altro mondo sono amici.

...

Caine sentì l'elicottero con le orecchie, non più con la mente. Era un rumore attutito ma inconfondibile, come un battito di ali enormi. Lentamente il rumore si fece più forte fino a riempire l'appartamento. In cucina i piatti tintinnarono e un piccolo soprammobile di porcellana cadde dalla mensola e si frantumò sul pavimento in centoventiquattro pezzi.

Non mancava molto.

“GIÚ! GIÚ! GIÚ!”

Gli uomini vestiti di nero scivolarono lungo i cavi e atterrarono sul tetto. Crowe rivolse una rapida occhiata a Dalton e a McCoy, ancora seduti nell'elicottero. Sapeva che Dalton detestava far parte della squadra di appoggio, ma non gli importava. Se il bersaglio fosse fuggito, ci volevano un paio di uomini per seguirlo dall'alto. Tuttavia, stavolta sembra va che il bersaglio non avesse intenzione di sottrarsi alla cattura: secondo Grimes, li stava aspettando.

Quel particolare rese Crowe ancora più nervoso e fu il motivo per cui lasciò Dalton nell'elicottero. Se il bersaglio non intendeva opporre resistenza, Crowe voleva tenere sotto controllo la situazione senza do versi preoccupare di Dalton. Aveva sempre saputo che il collega era pericoloso, ma dopo che aveva piantato un proiettile in testa a Vaner, Crowe era stato costretto a rivedere il giudizio che aveva di lui e a considerarlo un vero psicopatico. Non voleva una replica.

Staccò l'imbragatura e fece segno al pilota. L'elicottero riprese quota, trascinandosi dietro i cavi. Crowe si voltò e vide che Esposito aveva già abbattuto la porta che dava sulle scale. Lo raggiunse di corsa.

Annuì all'uomo e poi parlò nel microfono. “Grimes, il bersaglio è ancora sul posto?”

“Sì. Negli ultimi cinque minuti non si è mosso di un millimetro.”

“Bene. Mi aggiorni se dovesse cambiare posizione o se si procurasse un'arma. Altrimenti mantenga il silenzio radio.”

“Ricevuto.”

Crowe si rivolse ai suoi uomini. “Rainer, scendi dalla scala antincendio. Lato nord dell'edificio, due piani. Dirigiti sulla finestra. Entra al mio segnale.”

“Chiaro.”

“Vai” gli disse. Rainer trottò fino all'altro lato del tetto e scomparve. Crowe guardò Esposito. “Tu vieni con me. Non aprire il fuoco a meno che non sia assolutamente necessario.”

“D'accordo.”

Crowe varcò la soglia e scese di corsa le scale.

 

Caine aprì gli occhi.

Immaginò di averli sentiti atterrare sul tetto, ma sapeva che il rumore era solo quello della sua mente. Tuttavia, mentre loro scendevano con passo pesante dalla scala d'emergenza, li sentì con le orecchie. Quindici secondi dopo la porta d'ingresso venne abbattuta. Crowe fu il primo a entrare, con un uomo dietro di lui. Alle sue spalle, Caine sentì il fragore di vetri frantumati mentre un terzo faceva irruzione dalla finestra.

Guardò l'orologio, un po' sorpreso. Erano in anticipo di un secondo. Il vento di coda era aumentato.

Due mani forti lo immobilizzarono da dietro, ma Caine rimase impassibile. Si limitò a fissare Martin Crowe negli occhi. Voleva fargli sapere di non essere un mostro, qualunque cosa gli avessero raccontato. L'ultima cosa che vide fu la bocca della pistola di Crowe, e lui che premeva il grilletto.

Prima di perdere i sensi fece l'unica cosa che gli era possibile fare: si augurò buona fortuna.

 

“Bersaglio catturato” disse Crowe nel microfono con sollievo. “Saremo sul tetto tra due minuti, venite a prenderci.”

“Ricevuto” rispose il pilota.

“É stato facile” disse Esposito alle sue spalle, dandogli una pacca sulla schiena. “L'hai sedato prima ancora che io entrassi.”

“Sì” replicò Crowe. C'era qualcosa che non gli tornava. Dopo quanto era successo alla stazione e nell'appartamento di Brooklyn, non aveva senso. In entrambe le occasioni il bersaglio aveva dimostrato di avere non poco ingegno. Lì, però, invece di ingaggiare una lotta, era rimasto seduto in attesa nell'unico posto in cui sapeva che lo avrebbero visto.

“Vuoi che lo prenda io?” Crowe annuì e l'uomo sollevò il bersaglio e se lo caricò in spalla. In quel momento una busta bianca cadde dal grembo di Caine e scivolò a terra. Crowe stava per imboccare la porta quando le prime parole del messaggio catturarono la sua attenzione.

Si chinò a raccoglierlo col cuore che batteva all'impazzata. Quando finì di leggerlo aveva i brividi.

“Cos'è?” chiese Rainer.

“Niente” rispose Crowe accartocciandolo e gettandolo a terra. “Andiamo.” Mentre salivano le scale si chiese che diavolo stesse succedendo... e cosa sarebbe successo in seguito.

 

Fecero il tragitto in silenzio. Quando finalmente arrivarono, l'omone russo spense il motore e scese dal furgone senza dire una parola. Nava lo seguì in una taverna buia e fumosa. Alcuni avventori erano americani, ma erano più numerosi i russi. Li avrebbe riconosciuti anche se non avessero parlato.

“Di qua” disse Kozlov indicando una porta di legno in fondo al bancone. Dall'altra parte era più silenzioso, ma Nava sentiva ancora la musica attraverso le pareti sottili. Tramite una scala umida scesero in una stanza privata. Kozlov la guidò tra svariati tavoli da poker fino a un piccolo ufficio.

Un uomo pallido ed emaciato si alzò per darle il benvenuto. La squadrò da capo a piedi senza ritegno. “Salve, signorina Vaner, sono Vitalij' Nikolaev” disse con un ampio sorriso. “Il signor Caine non mi aveva detto quanto fosse adorabile.”

“É per questo che mi ha voluto incontrare?” chiese Nava.

“D'accordo, prima gli affari” ribatté Nikolaev consegnandole una busta. Sulla chiusura c'era scritto La fiducia comincia qui. Nava l'aprì ed estrasse la lettera. Dopo averla letta due volte la appoggiò sul tavolo. Prima di arrivare non sapeva cosa aspettarsi, ma di certo non quello. Benché il piano di Caine avesse senso, non era contenta di ciò che comportava. Proprio in quel momento, come lui aveva previsto, squillò il telefono.

“É per me” disse Nava sollevando la cornetta di Nikolaev. Lui inarcò le sopracciglia ma non cercò di fermarla. “Parlo con Nava?”

“Sì” rispose lei. “Non so se per lei abbia senso, ma...”

“David Caine le ha detto di chiamarmi.”

“Sì” confermò la voce, con sollievo. “Come fa a saperlo?”

 

“James, vieni a vedere.”

“Cosa?”

“Jasper Caine” rispose Tversky. “Qualche minuto fa ha cominciato a gridare come un isterico.”

“Non sapevo che fosse un comportamento anomalo per uno schizofrenico paranoide” replicò Forsythe senza alzare lo sguardo.

“Infatti, ma il suo elettrocardiogramma lo è.” Forsythe s'incuriosì. Schiacciò qualche tasto e sul suo terminale apparvero i valori. Erano sballati. Si tolse gli occhiali e guardò Tversky.

“Che sta dicendo?”

“Non fa che ripetere la stessa cosa. Lei sta venendo a salvarci.

“Questo non faceva parte dell'incarico.”

“La pago profumatamente, signor Crowe, e mi aspetto...”

“Lei mi ha assunto per prendere David Caine. Io l'ho fatto e ho catturato anche il fratello. Ho tenuto fede all'impegno.”

“L'avrà fatto quando lo decido io” replicò Forsythe gelido.

Crowe strinse i pugni. Era l'unico modo per non colpirlo al viso. La sola cosa che lo trattenne fu il pensiero di Betsy.

“Dottor Forsythe,” disse sforzandosi di restare calmo, “non voglio discutere con lei. Voglio solo i miei soldi e poi me ne andrò.”

“Che ne dice di questa proposta? Le darò il doppio se si occuperà della sorveglianza” disse Forsythe. “Solo per la prossima settimana, finché non avrò trovato un'altra soluzione.”

Crowe si cucì la bocca: 125.000 dollari in più. Non poteva rifiutare. “D'accordo, ma non intendo interrogarlo.”

Forsythe aggrottò la fronte. “E uno dei suoi uomini? Il signor Grimes mi ha fornito i loro dossier.” Schiacciò qualche tasto del computer e lo schermo si accese. “Qui c'è scritto che il signor Dalton ha molta esperienza nel campo.”

“Se ha a cuore il benessere del signor Caine, le consiglio di non chiederlo a Dalton.”

“Ma a lei non dispiacerebbe se glielo chiedessi, vero?” Non poteva dire niente e Forsythe lo sapeva.

“No.”

“Bene. Allora lo chiami, per favore. Nel frattempo si coordini con Grimes per la sicurezza.” Forsythe lo congedò con un gesto della mano. Mentre percorreva il corridoio, Crowe si chiese se quell'uomo sapeva con cosa aveva a che fare.

 

Dopo un'ora Kozlov tornò con l'arsenale richiesto. Mentre entrava nel retro del furgone, Nava ripassò a mente il piano. Grazie a Caine le informazioni erano quasi perfette. Piante, dossier dello staff, codici di accesso, misure di sicurezza: aveva tutto.

C'era solo un problema: era un lavoro per almeno quattro agenti, mentre lei era sola e ferita, anche se il dottor Lukin, il “medico personale” di Nikolaev, aveva fatto del suo meglio per porvi rimedio. Sapeva che lo scontro sarebbe stato violento, ma per il momento sentiva di potersi mettere il mondo in spalla, correre per dieci chilometri e avere ancora energia sufficiente per vincere il decathlon alle Olimpiadi.

Diciamo che non avrebbe superato i test antidoping...

L'acqua stava facendo impazzire Caine. Un'altra goccia lo colpì in mezzo alla fronte. Se fossero cadute a intervalli regolari non gli avrebbero dato così tanto fastidio, ma quella casualità lo stava mandando fuori di testa.

Così come le cuffie. Quella di sinistra sembrava programmata sulla ricerca di una stazione radio. Trasmetteva cinque secondi di canzone seguiti da alcuni secondi di interferenze seguiti da un altro assaggio di canzone e così via. Quella di destra ripeteva una musichetta monotona, che già da sola avrebbe rappresentato una forma di tortura, ma che era addirittura peggiorata dal volume, assordante l'attimo prima e quasi muto quello successivo.

E poi c'era la rotazione. Dapprima Caine pensò di essere semplicemente disorientato, ma quando aprì gli occhi vide che la sedia su cui l'avevano sistemato ruotava. Dopo alcune prove stabilì che la nausea e il capogiro diminuivano un po' se teneva chiusi gli occhi, quindi non li riaprì.

A distanza di qualche secondo avvertiva una scossa elettrica a un'estremità: di solito a un dito del piede o a uno della mano ...a volte anche altrove. Alcune scosse erano piuttosto dolorose. Caine aveva il battito accelerato. I muscoli si rifiutavano di rilassarsi in attesa della scossa successiva.

Cercò di tornare nell'ogniquando per vedere, ma non ci riuscì. Stavano succedendo troppe cose. Era impotente. Ebbe la sensazione che la sua sanità mentale gli venisse risucchiata dal cervello attraverso un tubo gigantesco. All'improvviso la sedia si fermò, ma il suo stomaco continuò a sobbalzare. Qualcuno gli sollevò la palpebra sinistra e gli puntò contro una torcia stilo. Poi passò all'occhio destro. Caine cercò di allungare il braccio per afferrare quella mano, ma aveva i polsi bloccati. Sentì una puntura acuta mentre l'ago gli scivolava sotto la cute e poi ci fu il rumore di uno strappo. Una striscia appiccicosa di cerotto gli fu attaccata al braccio per bloccare il tubo della flebo.

I secondi passavano. Qualcosa di appuntito gli sollevò di nuovo le palpebre e gliele tenne aperte. Caine sentì gli occhi seccarsi e cercò di batterle, ma provò un dolore ancora più intenso.

Una soluzione trasparente glieli riempì. Le gocce arrivavano a distanza di pochi secondi. Caine non aveva più bisogno di battere le palpebre per tenerli umidi, ma dopo trent'anni di abitudine non riusciva a controllare quel riflesso naturale. Si chiese quanto gli ci sarebbe voluto per smetterla.

Si sentiva stanco, abbattuto, mezzo pazzo e spaventato a morte.

Ma sotto sotto era determinato. Poi sentì una scossa allo scroto e dimenticò tutto il resto. Tra i bagni di collirio cercò di mettere a fuoco la vista. Davanti a lui c'era un uomo alto e minaccioso. Un'altra scossa, stavolta all'alluce. Quando il dolore si placò, cercò di mettere di nuovo a fuoco.

L'uomo gli sembrava familiare. Caine non capì perché, ma l'acqua continuava a distrarlo. E la musica. Adorava la musica, ma Cristo, non avrebbe mai più usato il walkman se non la spegnevano. Quasi a comando, la musica cessò. Seguì un momento di agognato silenzio, rotto da una voce fredda e roca.

“Mi sente?”

“Sì” disse Caine senza fiato.

“Sa che giorno è oggi?”

“E...” si sforzò di ricordare. La nausea aumentava. “Credo che sia... AAAHHH!” Incredibile quanto possa essere dolorosa una scossa al mignolo sinistro. “É... febbraio... febbraio...”

“Ci è andato vicino” replicò l'uomo in tono canzonatorio. “D'accordo. Tra poco la tortura finirà. Ma prima mi ascolti attentamente, d'accordo?”

“D'accordo” disse Caine con un filo di voce. Qualunque cosa. Avrebbe fatto qualunque cosa per lui in cambio di un po' di pace, anche solo per un minuto. O un secondo.

“Stiamo sovraccaricando il suo sistema perché non vogliamo che se ne vada. Ma tutto questo rende difficile la comunicazione. E parlare con lei è molto importante per noi. Però deve capire che se cercherà di fuggire, suo fratello ne subirà le conseguenze. Non vuole che questo accada, vero?”

Caine temette di essere sul punto di vomitare. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e far sparire tutto, ma non poteva. Le palpebre lottarono invano contro le pinze, bruciando di dolore.

“Signor Caine.” L'uomo lo schiaffeggiò leggermente. “So che è difficile, ma cerchi di seguirmi. Se collabora con noi, a Jasper non accadrà niente di male. D'accordo?”

Caine realizzò a scoppio ritardato che adesso toccava a lui parlare. “D'accordo” gracchiò.

“Bene.” L'uomo si voltò e uscì dalla sua visuale. La sedia smise di ruotare e le scosse cessarono. Caine cercò di rilassarsi, ma i suoi muscoli non obbedivano, ogni tendine era teso come una corda di violino. Il cuore gli martellava nelle orecchie, pompando sangue ai muscoli nell'eventualità di un dolore supplementare.

Caine respirò a fondo, trattenne il fiato per un secondo e poi espirò dal naso. Lentamente tutto andò a posto. Il cuore rallentò e la mandibola si rilassò. Stava bene. Avrebbe voluto girare la testa, ma una grossa fascia di metallo gliela teneva immobilizzata. L'uomo doveva aver notato quel lieve scatto, perché aveva fatto un passo indietro per permettergli di vederlo. Stavolta Caine lo riconobbe, l'aveva visto nell'ogniquando.

Si chiamava Frank Dalton.

“Ha avuto una settimana piuttosto interessante, vero signor Caine?”

Non rispose.

“Sa perché si trova qui?” chiese l'uomo.

“No” rispose debolmente Caine.

All'improvviso fu trafitto da un dolore diverso da tutto quello mai provato, che gli si insinuò in ogni parte del corpo. Era un dolore vivo, che danzava e urlava. Anche Caine urlò.

E poi, con la stessa rapidità con cui era sopraggiunto, il dolore sparì. Caine serrò la bocca, si morse la lingua e deglutì sangue. Era stanchissimo. Voleva solo chiudere gli occhi. Dopo un minuto riprese fiato e poi rilassò lentamente i denti.

“Signor Caine, come immagino che lei sappia, le abbiamo attaccato degli elettrodi. Alcuni liberano scosse piuttosto dolorose, altri leggono il suo battito cardiaco e altri ancora i segnali bioelettrici. In questo modo sappiamo se lei mente o meno. Se lo rifà ce ne accorgeremo. E la prossima scossa non sarà così lieve.

“Sono in molti a credere di poter sopportare la tortura, se è proprio necessario. Credono di essere forti, di essere uomini, di potercela fare. Ma per esperienza, e le assicuro che ne ho un bel po' in questo campo, quasi tutti si sbagliano.” La voce di Dalton trasudava minaccia.

“Di solito resistono per uno, due minuti al massimo, e poi ucciderebbero persino la madre pur di fermare il dolore. Ma a quel punto hanno già danni permanenti o talmente gravi da richiedere moltissimi calmanti per proseguire l'interrogatorio, prolungando così l'intera faccenda.

“Perciò glielo chiedo sia per me che per lei: non faccia il duro. Risponda in fretta e sinceramente. Se non mi dice tutto io lo saprò. E gliene farò pentire. Mi sono spiegato?”

“Perfettamente” rispose Caine senza voce, rotta e spezzata dalle urla precedenti. Si chiese come sarebbe stata dopo qualche altra ora.

“Benissimo. Adesso riproviamo. Sa perché si trova qui?”

“Perché voi credete che... che io sia... il demone di Laplace.”

L'uomo annuì. “Lei crede di essere il demone di Laplace?”

“Io...” Caine esitò. “Non ne sono sicuro al cento per cento” rispose, preparando i muscoli a un'altra scossa. Non arrivò.

“Provi a indovinare.”

“Sì” disse Caine.

“Bene, allora non è stato tutto inutile.”

“Che volete da me?”

Dalton non rispose alla domanda. Si limitò a dire: “Il dottore arriverà tra poco per parlare con lei” e se ne andò. Quando parlò di nuovo era fuori dal campo visivo di Caine. Fu sconcertante sentire la sua voce senza vedere il volto. “A proposito,” disse, “è inutile che cerchi di usare le sue... doti... Non funzionano a occhi aperti.”

All'improvviso Caine si rese conto che Dalton aveva ragione. Con gli occhi spalancati era innocuo come un agnellino. Qualche secondo dopo sentì il clic della porta che si chiudeva. Tese le orecchie cercando di capire se Dalton era ancora lì, ma non udì nulla. Era solo.

Espirò rumorosamente e la mente ricominciò a funzionare. Avrebbe voluto ideare un piano, ma sapeva di non poterlo fare. Il tempo per i piani era passato. Si era fatto prendere perché sapeva che l'unico modo per riacquistare il controllo di sé era arrendersi. Tuttavia, non sapeva che sarebbe stato così difficile... e così spaventoso.

Nell'appartamento, quando era nell'ogniquando, aveva visto tutti i possibili futuri. Ma fuori da lì non riusciva a vedere quale strada, quale futuro possibile avesse scelto. Però aveva una sensazione. Era più di un'intuizione e meno del sapere puro, ma c'era. Nava era la chiave. Con lei c'erano infinite possibilità.

Ma senza di lei... Caine era perso.

 

Caine sentì la porta aprirsi e chiudersi. Qualcuno era entrato nella stanza. Dal rumore dei passi non era Dalton: questi erano più leggeri. La persona avanzò, si fermò, indietreggiò e si fermò di nuovo, quasi che stesse scegliendo la strada più sicura per avvicinarsi a lui.

Poi Caine sentì il lieve respiro dell'uomo alle sue spalle e un grattare leggero ma acuto. Una siringa? Forse un bisturi. Il suo cuore accelerò. Infine l'uomo riprese a camminare. Era Doc.

“Ciao, David” disse.

Caine rimase in silenzio.

“Mi dispiace che sia andata così, ma non c'era altra scelta.”

“C'è sempre una scelta” replicò Caine.

“No” disse Doc scuotendo la testa. “Avevo un altro soggetto come te. Era una donna. Mi ha detto quello che sarebbe successo, quale strada avrei dovuto scegliere. Mi ha detto che dovevo cercare di ucciderti per tirare fuori tutte le tue capacità. E aveva ragione.”

“É per questo che hai usato l'esplosivo? Perché te l'aveva detto lei?”

“Sì.”

“Ma dopo quel fiasco, perché non mi hai ucciso quando ne hai avuto la possibilità? Avresti potuto investirmi a Filadelfia.”

“Non capisci?” gli chiese Doc in tono di supplica. “Non ho mai voluto che morissi. Volevo solo che scoprissi quello di cui sei capace. Era necessaria una situazione di vita o di morte perché compissi l'ultimo passo. Ed è qui che sono intervenuto io.”

“Ma perché? Perché lo fai?” domandò Caine.

“Scienza” rispose Doc. “Ti rendi conto di quanto sapere io noi potremmo avere con il tuo dono?” Doc gli si avvicinò. “David, tu e io abbiamo l'incredibile opportunità di fare la storia.” Gli occhi gli ardevano. Benché stesse guardando lui, Caine era convinto che il suo vecchio relatore vedesse solo se stesso. “No, non solo di fare la storia, ma di cambiare la storia, alterare l'intero futuro dell'umanità.”

“Io non ti aiuterò” disse Caine.

“Sarebbe molto più facile per entrambi se tu...”

“No.”

“Facciamo qualche test. Che male può fare?” Doc lo stava quasi supplicando.

“É questo il problema. Non so a cosa o a chi i tuoi test faranno male.” Caine trasse un profondo respiro, sperando di sembrare più coraggioso di quanto non fosse. “Non lo farò.”

Doc scosse la testa. “Ecco perché non potevo avvicinarti in un ambiente meno controllato. Ma che ti piaccia o no, David, collaborerai.”

Estrasse un telecomando dalla tasca e lo puntò a un piccolo televisore montato sulla parete, vicino al soffitto. Lo schermo si accese con un guizzo. Caine si sforzò di guardare in alto. Sul monitor vide un uomo dall'aria stanca, assicurato a una sedia e con una flebo nel braccio. Jasper. Sembrava invecchiato di dieci anni dall'ultima volta che l'aveva visto. Doc si voltò per guardarlo in faccia.

“Non voglio fare del male a tuo fratello. Ma lo farò. Dipende da te.”

“E che succede se collaboro?”

“Sarai libero.” Lo sguardo di Doc lo tradì. Stava mentendo. Caine doveva tergiversare.

“Ho bisogno di tempo per pensarci.”

“No” disse Doc con decisione. “Devi decidere ora. Cosa rispondi?”

Caine sapeva che c'era la probabilità un'ottima probabilità che non avrebbe mai lasciato quel posto. E benché fosse piuttosto sicuro che il test di Doc fosse innocuo, temeva che se avesse detto di sì non sarebbe più riuscito a dire no.

“Sono stanco...” disse. “Dammi un po' di tempo per riprendermi.”

Doc scosse la testa. Si avvicinò al telefono alla parete e compose un numero. “Signor Dalton?” Alla menzione di quel nome, Caine sentì i muscoli irrigidirsi. Doc gli rivolse uno sguardo. “Per favore, si occupi di Jasper Caine. Livello due per sessanta secondi.” Riattaccò, il viso afflitto. “Mi dispiace.”

Caine guardò il monitor. Nei secondi successivi non accadde niente. Sembrava che Jasper dormisse, per quanto ci si potesse rilassare con le braccia, le gambe e la testa bloccate da cinghie di cuoio. Poi Dalton entrò nella stanza del fratello, gli mise qualcosa in bocca e uscì dal monitor. Un fremito percorse la spina dorsale di Caine mentre Jasper cominciò a contorcersi violentemente. Le mani si chiudevano e si aprivano via via che la corrente si propagava nel suo corpo. Non c'era nessun suono collegato alle immagini, cosa che per certi versi le rese anche più spaventose.

“Basta! Basta!” gridò Caine.

Doc guardò l'orologio e poi si rivolse a lui. “Solo altri cinquanta secondi, David. É quasi finito.”

Caine non poteva chiudere le palpebre per evitare di guardare. Cercò di distogliere lo sguardo dalle gambe di Jasper, in preda a spasmi muscolari, ma le pupille tornavano da sole allo schermo. Finalmente cessò. Jasper smise di contorcersi. Pianse in silenzio, con le lacrime che gli rigavano le guance. Poi Caine fu testimone dell'umiliazione finale: una chiazza scura si diffuse tra le gambe del fratello.

Doc gli si parò davanti. Caine chiamò a raccolta tutto il suo autocontrollo per non sputargli in faccia. Si chiese se avesse preso la decisione giusta facendosi portare lì. Ma era troppo tardi per i ripensamenti. Stavolta non ci sarebbero stati errori.

“D'accordo” disse con voce disperata. “Farò i test. Ma non con te nella stanza” aggiunse, ricordando all'improvviso come funzionava. “Li farò solo con Forsythe.”

Il viso di Doc s'incupì. Stava per aprire bocca quando una voce risuonò nell'altoparlante. “Paul,” disse la voce, “credo che dovremmo parlare.”