21
Caine stava per chiedere a Nava dove sarebbero andati dalla Penn Station, ma poi si ricordò che era solo un sogno. Per un istante l'aveva addirittura dimenticato, assecondando l'illusione quasi fosse realtà. Importava davvero dove era diretto in sogno? No, ma una vocina nella sua testa non era d'accordo. Dove poteva andare? Non appena si pose la domanda, la risposta gli si affacciò alla mente. Era ovvio. Ancora una volta le parole del fratello lo guidarono.
Cerca di trovare degli appigli, posti in cui ti senti al sicuro o persone con cui ti senti al sicuro.
Doveva andare da Jasper, a Filadelfia. Se fosse riuscito a portare la sua illusione verso l'unica persona in grado di aiutarlo, forse avrebbe trovato una via di fuga. Convinto che fosse la soluzione migliore, Caine sprofondò nel sedile di plastica del taxi e osservò la città scorrere fuori dal finestrino, Il dj alla radio annunciò che erano le 9.47 prima che Jim Morrison intonasse People Are Strange. Quando la canzone finì, Nava cominciò a dargli istruzioni.
“Nella stazione tieni giù la testa. Sul soffitto ci sono le telecamere. Durante l'attesa del treno fingi di leggere questo.” Raccolse un giornale zuppo dal pavimento del taxi e glielo porse. “Chiaro?”
Caine annuì.
“Entra prima tu, io sarò dietro di te” aggiunse. “Se ci sono problemi scappa. Non aspettarmi. So badare a me stessa. La cosa importante è che tu sparisca.”
Gli infilò un cellulare in tasca.
“Se ci perdiamo, aggiungi uno dopo l'ultimo numero in memoria. Se risponde qualcun altro, io sono morta. Riattacca e scappa. Chiaro?”
“Sì.”
Una volta scesi dal taxi all'incrocio tra la Trentaquattresima e l'Ottava presero la scala mobile in silenzio. Nel sottopassaggio, Caine zoppicò fino ai treni dell'Amtrak. Aveva fatto quella strada centinaia di volte e conosceva a memoria tutti i negozi anche se aveva gli occhi fissi al pavimento. Sentiva la presenza di Nava alle sue spalle.
Si fermò sotto l'enorme tabellone delle partenze al centro della stazione e resistette all'istintiva tentazione di guardare in alto. Il respiro di Nava gli sfiorò la nuca. Stava mormorando ad alta voce.
“Il prossimo treno per Washington parte tra otto minuti. Prendiamo quello.”
Perfetto. Filadelfia era sulla strada per Washington. Una volta sul treno, l'avrebbe di certo convinta a scendere lì. In caso contrario l'avrebbe scaricata, ammesso che fosse possibile scaricare un'illusione. Dopo qualche minuto una voce meccanica annunciò che il treno numero 183 delle 10.07 per Washington stava arrivando al binario 12.
Nava afferrò saldamente il gomito di Caine, lo diresse verso il flusso di folla e lo spinse avanti. Come un tappo di sughero finito nelle cascate del Niagara, Caine fu trasportato verso il binario sottostante.
L'agente Sean Murphy si beccava sempre incarichi di merda. A volte aveva l'impressione di avere un Post-it appiccicato in fronte con su scritto “Per favore, affidatemi compiti di poco conto”. Non riusciva a capacitarsi di dover piantonare il binario 12 per tutto il santo giorno alla ricerca di qualcuno che forse si trovava già in Messico. Diede uno sguardo al foglio che recava una griglia di immagini digitali: venti erano di David Caine e le altre venti di Nava Vaner. Ogni immagine li ritraeva con un travestimento diverso.
Caine con la barba e senza baffi. Caine con i baffi e senza barba. Vaner con gli occhiali. Caine con gli occhiali. Vaner con i capelli corti. Vaner con i capelli lunghi. Caine calvo. Che scemenza. Le informazioni più importanti erano altezza e peso. L'altezza non poteva essere modificata e il peso era difficile da contraffare. Quasi tutti i ricercati, però, preferivano camuffare il viso. Che spreco di tempo. Gli occhi li tradivano sempre.
A Murphy l'aspetto dei fuggiaschi ricordava il coniglietto che aveva da piccolo. Quando c'era da pulire la gabbia di Bugs, il povero animaletto si rintanava in un angolo e si guardava intorno con un terrore che a lui faceva venire la nausea. Detestava quello stupido coniglio. La mamma voleva che se ne prendesse cura per imparare a essere responsabile, ma l'unica lezione che Murphy ne trasse fu che odiava i conigli.
Guardò la fiumana di gente e scrutò i volti. Dalle 7.00 aveva visto un migliaio di passeggeri. Era ancora mattina e il 50% della gente aveva lo sguardo vitreo di chi avrebbe preferito dormire. Un altro 40% sembrava solo seccato: i newyorchesi si sentono i padroni del mondo e credono di essere circondati da idioti. Solo il 10% sembrava felice ed entusiasta per l'imminente viaggetto. In qualsiasi altro luogo del paese quel 10% sarebbe stato un 60%, ma quella era New York, la terra dei liberi, la patria degli incazzati.
Gli passarono accanto altri occhi. Annoiati, stanchi, chiusi, incazzati, incazzati, annoiati, incazzati, semichiusi, esausti, iniettati di sangue... Continuavano ad arrivare, senza sosta. Di tanto in tanto, Murphy ricontrollava il foglio e poi sollevava lo sguardo su quel mare di umanità incazzata.
“Visto niente, Murphy?” crepitò l'auricolare, destandolo dai suoi pensieri.
Lui inclinò il mento e parlò nel microfono sul bavero, senza neppure preoccuparsi di dissimulare il gesto. All'inizio, quando ogni missione gli sembrava una battaglia per la Verità, la Giustizia e l'American way of life, faceva tutto secondo le regole. Ma dopo diciassette anni di appostamenti in stazioni degli autobus, stazioni dei treni, aeroporti, bagni pubblici (quelli facevano davvero schifo), parchi e alberghi, il senso di novità era via via scomparso, così come le sottigliezze dell'addestramento.
“Niente” rispose.
“Nada.”
Murphy spalancò la bocca in uno sbadiglio silenzioso. Occhi, occhi, occhi. Che spreco di tempo, cazzo. David Caine non si sarebbe mai fatto vivo lì. Controllò l'orologio. Un'altra ora e poi avrebbe fatto una pausa. Toccò con desiderio il pacchetto di sigarette che aveva in tasca, pregustando la prima boccata mentre osservava tutti quegli occhi che gli scivolavano accanto.
Nava lo individuò all'istante. Stava infrangendo ogni regola, non faceva nessuno sforzo per passare inosservato. Era grosso e massiccio, sul metro e ottantacinque, centodieci chili circa, con capelli grigio acciaio tagliati a spazzola e indossava un blazer blu nel pietoso tentativo di nascondere la fondina.
Teneva persino un foglio di carta in mano, sicuramente con una foto di Caine. L'agente non li aveva ancora visti, perché stava passando in rassegna solo i passeggeri che arrivavano sul binario. Altro errore. Solo dodici persone li separavano da lui. Nava si maledisse per aver seguito il suggerimento di Caine di prendere il treno. Avrebbe dovuto rubare l'auto a un turista, chiuderlo nel portabagagli e andare in Connecticut per organizzare con calma la fuga.
Solo dieci persone.
Si protese in avanti per sussurrare all'orecchio di Caine. “Spostati e fa' tutto quello che faccio io.” Prima che lui potesse voltarsi, lei lo spinse da parte e si strinse al suo fianco. Caine saltò sullo scalino che lei aveva appena lasciato libero.
Solo quattro persone.
Stranamente, l'agente non notò il loro scambio di posto. Patetico. Pur sapendo di dover essere riconoscente all'incompetenza di quell'uomo, Nava ne era profondamente irritata. Le forze dei servizi segreti americani saranno anche state imponenti, ma per lo più erano male addestrate.
Solo due persone.
Con sguardo sicuro di sé, Nava sfoderò un sorriso fasullo. Se stavano cercando solo Caine il suo piano poteva funzionare. Ma se stavano cercando lei e l'uomo era veloce come avrebbe dovuto erano fregati.
Una persona.
Nava inarcò la schiena, mettendo in mostra il seno, e fissò l'agente con occhi provocanti. Se fosse stato del Kgb, lui avrebbe guardato l'uomo alle sue spalle, che portava gli occhiali da sole malgrado l'oscurità. Ma non lo era. In quel momento l'agente dei servizi segreti era solo un tizio arrapato.
La squadrò da capo a piedi, sostando a lungo sul seno, ma quando arrivò al viso ebbe un attimo di esitazione. Nava doveva muoversi più in fretta di lui. Fingendo di inciampare gli cadde tra le braccia prima che l'uomo potesse aggredirla. Poi gli passò rapidamente le mani sul torace e gli staccò il microfono dal bavero con un gesto fulmineo.
“Ehi, tu sei...” L'agente s'interruppe quando sentì una pressione all'inguine.
“Non ti muovere” gli sussurrò lei sempre sorridendo. “Quella che senti è la punta di una lama di diciotto centimetri. Se non vuoi sentire anche il resto, abbracciami e fa' due passi indietro verso il muro. Molto lentamente.”
L'agente ubbidì. Le persone passavano accanto ai due piccioncini, del tutto ignare del pugnale puntato all'inguine dell'uomo.
“Quanti siete?”
“Senti, Vaner...”
Nava affondò in fretta il pugnale, pungendogli la coscia. “Quanti, molti?”
“D'accordo” replicò lui cercando di allontanare il bacino. Ma era con le spalle al muro. “Nella stazione ce ne sono altri dieci.”
“Quanti al binario?” Tirò su la testa come per dargli un bacio e sentì il suo alito che sapeva di fumo.
“Un altro.”
“Descrivilo.” Lui esitò un istante, perciò Nava gli ricordò cosa c'era in ballo.
“Cristo!” disse l'uomo tra i denti. “Te lo dico, ma fa' attenzione con quell'affare. Alto un metro e settantasette, asciutto, ben piantato. Capelli biondi, tagliati come i miei.”
“Per chi lavori?”
“Cia” rispose lui un po' troppo in fretta. Mentiva.
“Bene.” Nava voltò la testa e gliela posò sul petto per poter parlare a Caine con l'angolo della bocca. “Cercami la penna blu nello scomparto con la zip sul fondo e mettimela in mano.” Quindi si girò e guardò l'agente mentre Caine frugava nello zainetto. “Ehi, guardami.”
L'agente obbedì con riluttanza. Nei suoi occhi c'era paura.
“Non preoccuparti, vivrai.”
Caine le mise nella mano sinistra un tubicino di plastica lungo circa otto centimetri e Nava lo infilò nella coscia dell'agente. Il cilindro blu si abbassò, innescando il meccanismo a molla che liberava l'ago. L'uomo irrigidì i muscoli mentre la siringa gli bucava la carne. Cinque secondi dopo, quando ormai la benzodiazepina gli correva nelle vene, si era rilassato e sul viso aveva un sorriso assonnato. Nava lasciò cadere il tubicino vuoto e gli posò sul petto il palmo della mano per evitare che cadesse.
“Come ti chiami?”
“Sean Murphy.” Parlava come in sogno.
“Come ti senti, Sean?”
“Insonnolito.” Quasi a sottolineare il suo stato, l'uomo gettò indietro la testa e chiuse gli occhi.
“Sean. Sean!” Nava rinfoderò il pugnale e lo scrollò.
Lui aprì gli occhi di soprassalto e la guardò confuso. “Voglio dormire.”
“Lo so. Mi serve solo un favore, d'accordo?”
“D'accordo” mormorò lui nel colletto, come il bambino di quattro anni più grande del mondo.
“A chiunque ti svegli, dì che eri stanco e che hai fatto un pisolino dopo la partenza del treno. Non mi hai mai visto. Devi esserti addormentato.”
“Va bene. Mai vista.” Batté le palpebre rapidamente, cercando di impedire che si chiudessero da sole. “Ora posso dormire?”
“Un'ultima domanda. Per chi lavori veramente”
Lui biascicò qualcosa mentre gli si chiudevano gli occhi. Nava lo afferrò forte per le spalle in preda alla frustrazione. Sarebbe crollato nel giro di dieci secondi, con o senza il suo permesso. “Per chi lavori?”
Avvicinò l'orecchio alla bocca di Murphy, la cui voce era ormai un sussurro. “F... b... iiii...” La testa gli cadde sul petto e dalle labbra gli fuoriuscì un filo di bava. Nava gli chiuse la bocca e lo puntellò con cura a un appiglio della parete.
“Attenzione, il treno numero 183 diretto a Washington D.C. è in arrivo al binario 12.”
Nava si tolse lo zainetto dalla spalla e ne estrasse un altro tubicino di plastica, identico al primo ma giallo. Sentì la campanella che annunciava l'ingresso del treno in stazione. Si guardò velocemente in torno alla ricerca di qualche ficcanaso, ma vide che tutti si prepara vano a salire a bordo. Poi si voltò verso Caine e notò che aveva uno sguardo terrorizzato.
“É... voglio dire, l'hai...”
“Non è morto. Se l'avessi ucciso avrebbero capito dove siamo diretti.” Con una mano estrasse dall'orecchio di Murphy il minuscolo auricolare di plastica e lo infilò nel suo, mentre con l'altra riattaccò il microfono al bavero dell'uomo.
Proprio in quel momento lo sentì crepitare. “Pronto, Murphy?”
“Sì” rispose Nava burbera, camuffando la voce.
“Visto niente?” No.
“Neanch'io. Avevi ragione, è una perdita di tempo.”
“Già.” Nava sapeva che se avesse risposto a monosillabi l'avrebbe fatta franca.
“Bene. Ci risentiamo tra cinque minuti.”
“Ok.” Aspettò altri cinque secondi e risistemò l'auricolare nell'orecchio dell'agente, alzando il volume al massimo.
“Attenzione, ultimo avviso per i signori passeggeri: il treno numero 183 diretto a Washington D.C. partirà dal binario 12 tra due minuti.”
Iniettò a Murphy la seconda siringa, flumazenil misto ad anfetamine per neutralizzare la benzodiazepina. Poi si voltò e afferrò Caine per il braccio, tirandolo verso la fila di gente. Un minuto dopo il treno uscì dal la stazione.
Nava emise un profondo respiro mentre il treno prendeva velocità. Si domandò se ce l'avessero davvero fatta, ma sapeva che chi li stava cercando non ci avrebbe messo molto a mangiare la foglia. Presto l'avrebbero scoperto.
“Biglietti!” Il donnone di colore gridava trascinandosi lungo il corridoio. “Preparate i biglietti, prego. Biglietti!”
Nava infilò qualche banconota da venti dollari nella mano di Caine. “Comprane uno di sola andata per Washington.”
Quando la donna si avvicinò, Caine fece come gli aveva detto Nava. Non reagì quando lei acquistò un'andata e ritorno per Baltimora. “Se dovessero farle domande, non voglio che pensi che viaggiavamo insieme. Così guadagneremo un po' di tempo.”
“Quindi andiamo entrambi a Baltimora?” le chiese Caine.
Nava scosse la testa. “No, scendiamo alla prossima fermata.”
“Perché a Newark?”
“Voglio lasciare questo treno prima che ci trovino.”
“Posso esprimere la mia opinione?”
“No, è la soluzione più sicura e basta.”
Caine fece un bel respiro. Doveva controllare l'illusione. Se fosse riuscito a raggiungere Jasper sarebbe stato al sicuro. “Io voglio andare a Filadelfia.”
“Perché?”
“Ci abita mio fratello.” Non appena lo disse, capì di aver commesso un errore.
“É proprio per questo che non ci devi andare. É il primo posto in cui loro ti cercheranno.”
“Loro chi?”
“Quelli dell'Fbi o chiunque altro l'Nsa abbia ingaggiato per riprenderti,” sussurrò Nava con un filo di voce, “o forse non sei stato attento?”
“Ma ho bisogno di andare da Jasper.”
“Ora non puoi. Non lo capisci?”
“Tutto questo non ha alcun senso!” sbottò Caine, facendo voltare molti passeggeri.
“Abbassa la voce” disse Nava tra i denti. Tutt'intorno, la gente tese le orecchie per sentire. Nava si appoggiò allo schienale e gli sussurrò: “Non qui, ci sono troppe persone”.
“Va bene” rispose Caine a bassa voce. “Ma io scendo a Filadelfia.”
“No. Hai bisogno di me, David, e andare da Jasper sarebbe un suicidio. Ti prego, fidati.”
Caine aprì la bocca per replicare, ma sapeva che niente le avrebbe fatto cambiare idea. Chiuse gli occhi e cercò di riflettere sul da farsi. Era certo che Filadelfia fosse la soluzione migliore, ma aveva bisogno che Nava lo seguisse. Se quella storia era vera e lui era realmente il demone di Laplace, avrebbe dovuto sapere se sarebbe riuscito a raggiungere Filadelfia. O almeno come riuscire a fare andare le cose a suo piacimento. Ma l'unica soluzione che gli venne in mente fu nascondersi in bagno.
Rise di sé. Il piano non era esattamente quello di un intelletto onnisciente. Vagò con la mente tentando di stabilire il da farsi, ma continuava a rivedersi in bagno mentre telefonava...
All'improvviso aprì gli occhi e respirò in cerca d'aria. Nava si voltò verso di lui, preoccupata.
“David, stai bene?”
La sua voce sembrava lontanissima. Caine guardò l'orologio. Erano le 10.13 e 43 secondi. Se voleva incontrare l'uomo d'affari gli restavano appena 58 secondi. Si alzò di scatto.
“Dove...”
“In bagno” rispose Caine prima ancora che lei potesse finire la domanda.
Nava lo guardò con diffidenza, si alzò e lo afferrò per il gomito. “Ti aiuto.”
“Sì” disse Caine contando mentalmente i secondi. Non c'era fretta. Aveva ancora molto tempo. Fece un passo in avanti, accentuando l'andatura zoppicante. Nava non ci fece caso, come lui era certo che avrebbe fatto. Continuò a camminare come in sogno. Gli sembrava di muoversi in un labirinto che aveva già attraversato un milione di volte.
La porta a un'estremità del vagone si aprì ed entrò un uomo d'affari sulla trentina, proprio come previsto. Con le mani reggeva un vassoio di cartone. Senza neanche guardarlo, Caine sapeva cosa c'era sul vassoio: un bicchiere di plastica di Coca, un sacchetto di patatine e un panino al tonno. L'uomo continuava ad avanzare. Caine si fermò un momento fingendo di perdere l'equilibrio e Nava gli strinse il braccio per impedire una caduta che non sarebbe mai avvenuta. Caine la ringraziò e fece un altro passo.
Lui e l'uomo erano vicinissimi. Caine si mise di profilo per lasciarlo passare proprio mentre il treno curvava a sinistra. Cadde in avanti e sbatté contro l'uomo, facendogli rovesciare la Coca.
“Porca miseria, stia attento!” gridò quello allontanandolo da sé.
“Mi scusi, è colpa mia” replicò Caine procedendo verso il bagno con Nava dietro. Una volta al sicuro dietro la porta chiusa a chiave, tirò fuori il cellulare che aveva preso dalla cintura dell'uomo e chiuse gli occhi, sforzandosi di ricordare il numero che aveva sentito quattro giorni prima.
Dopo averlo recuperato dal subconscio, cominciò a comporlo sulla tastiera.
Jennifer Donnelly lasciò una mano sul volante della sua Ford a trazione integrale e con l'altra frugò nella borsa alla ricerca del cellulare. Quel dannato telefono squillava sempre nei momenti meno opportuni. Abbassò lo sguardo proprio mentre una Mini Cooper le tagliava la strada. Spaventata, frenò di colpo e un istante dopo una Lincoln argentata le tamponò con violenza il paraurti. L'auto di Jennifer sbandò e si schiantò sul guardrail al di là dell'incrocio.
Lei fu sbattuta contro lo schienale del sedile dall'airbag, che si era gonfiato rapidamente colpendola sul viso come un pugno. Rimase stordita fino a quando la sensazione di caldo umido tra le gambe non la destò.
“Oddio” disse serrando le cosce, quasi per fermare quello che era successo. Ma era troppo tardi.
Dopo aver tirato lo sciacquone, Caine uscì dal bagno.
“Su, torniamo a sederci” disse un po' troppo in fretta.
Nava ebbe l'impressione che avesse in mente qualcosa, ma non sapendo cosa lo segui in silenzio. Entro cinque minuti sarebbero arrivati a Newark. Non vedeva l'ora di scendere dal treno. Aveva la brutta sensazione che l'Nsa fosse sulle loro tracce. Se l'agente che aveva messo fuori combattimento ricordava il loro incontro, forse stavano per finire dritti in trappola.
Si guardò intorno nel vagone pensando già alla fuga. Se fosse stata lei a dirigere l'operazione della controparte, cosa avrebbe fatto? Avrebbe aspettato che fossero scesi dal treno e li avrebbe presi sul binario? Sarebbe salita a bordo per setacciarlo? No. Avrebbe fermato il treno a un paio di chilometri dalla stazione e sarebbe salita lì. Era il modo migliore per controllare la situazione: anche se i fuggiaschi avessero tentato di scappare, non avrebbero saputo dove andare.
Ma era il metodo che avrebbe seguito lei. Non era Nava a dirigere l'operazione, erano gli americani, e in America ci si concentrava troppo su innocenti e ostaggi. Si sarebbero preoccupati di più di ciò che avrebbe scritto la stampa il giorno dopo che non dell'esito della missione. Quindi? Non sarebbero saliti a bordo. Li avrebbero sorpresi all'uscita della stazione in un ambiente “controllato”.
Nava cominciò a studiare un piano.
Bill Donnelly stava guardando il binario svolgersi davanti al suo treno in corsa quando il cellulare iniziò a vibrare nella tasca della salopette. Sapeva che tutti lo prendevano in giro per quella tenuta jeans da capo a piedi, compreso il berretto con la visiera ma per lui un conducente di treno doveva indossare la salopette. Senza staccare gli occhi dai binari pescò il telefono.
“Prrrronto?” disse. Il sorriso divertito che gli si dipingeva sul viso quando usava il suo saluto preferito svanì non appena sentì ansimare all'altro capo. “Tesoro, sei tu?”
“Sì, sono io.” La voce della moglie era flebile. “Ho avuto un incidente.”
“Stai bene? Che è successo al bambino?”
“Mi si sono rotte le acque” disse lei respirando profondamente. “Sto andando in ospedale.”
“Ma ti mancano ancora sei settimane!”
“Bill, ho bisogno di te. Sei quasi a casa?”
“Porca miseria... sono a pochi minuti da Newark, ma pesterò sull'acceleratore, tesoruccio.”
Lei gemette per il dolore. “Ti prego, Bill. Ho... ho paura. Non ce la faccio, di nuovo... non da sola...” Scoppiò a piangere.
“Ehi,” disse lui dolcemente, “andrà tutto bene, amore. Sarò lì prima che tu possa dire 'è maschio'.”
Lei tirò su col naso e le lacrime si placarono. “Promesso?”
“Ti prometto che quando il bambino verrà al mondo io sarò al tuo fianco e ti terrò la mano.”
“Va bene. Ora vado in ospedale. É arrivata l'ambulanza. Ti amo.”
“Ti amo anch'io.” Dopo il clic seguì il silenzio.
L'uomo ripensò alla corsa verso la sala parto di due anni prima. Aveva lavorato fino a tardi e non era riuscito ad arrivare in tempo in ospedale. Pazienza, aveva pensato, tanto per le prime due ore non c'è niente da vedere. La sorella aveva avuto tre figli e il travaglio più breve era durato venti ore. Novanta minuti non avrebbero fatto molta differenza. Ma si sbagliava.
Il travaglio fu breve e il bambino... il piccolo Matthew William... nacque morto. Bill si sentiva ancora in colpa per non essere stato presente nei primi attimi in cui Jennifer era rimasta in sala rianimazione, tutta sola. Quando infine arrivò con una scatola di sigari lei gli sputò in faccia. Ci era voluto un anno intero di consulenza matrimoniale perché il loro rapporto tornasse a una parvenza di normalità. Tre mesi dopo lei scoprì di essere di nuovo incinta.
Bill si era spesso chiesto se non fosse stato un errore provare ad avere un altro figlio. Lo stress della seconda gravidanza aveva quasi distrutto il loro matrimonio. Eppure ce l'avevano fatta. Lui si era persino preso delle ferie non remunerate per essere in città quando sarebbe arrivato il momento. Ma come capita di solito, i piani ben organizzati... falliscono sempre. Non riusciva a crederci. Non doveva andare in quel modo. Non di nuovo.
Guardò l'orologio e poi l'orario del treno. Doveva fermarsi a Trenton per la manutenzione di routine, che durava una ventina di minuti. Il vagone ristorante andava rifornito, altri dieci minuti. Che cosa poteva fare? Niente. Ma poi pensò alla moglie Jenny, tutta sola in quella stanza... nello stesso ospedale in cui aveva perso Matthew.
Bill sospirò. Sapeva cosa fare. Al diavolo il lavoro. Si voltò e chiuse a chiave la porta. Mise la marcia più alta e aumentò la velocità. Poi prese il microfono, fece un profondo respiro e schiacciò il pulsante.
22
“Attenzione, si avvertono i signori passeggeri che questo treno non effettuerà le seguenti fermate: Newark, Metropark, Princeton Junction e Trenton.”
Parecchi passeggeri brontolarono, non capendo bene cosa stesse succedendo.
“La Amtrak si scusa per l'inconveniente, Prossima fermata è 30th Street Station, Filadelfia.”
A quelle parole, scoppiò una lieve sommossa di pendolari inferociti intorno a Nava, ma lei non si preoccupò di questo. Sapeva che il giorno dopo si sarebbero limitati a scrivere una lettera di rimostranze. Invece si concentrò su Caine, che stava fissando fuori dal finestrino.
“Che hai fatto?” gli chiese.
Lui si voltò e la guardò dritto negli occhi. “Non so di cosa parli.”
“Cazzate” disse Nava tra i denti. “Sei stato tu, non è vero?”
“Sei paranoica” le rispose.
“E tu sei un bugiardo.”
Caine non replicò, ma tornò a fissare fuori dal finestrino. Nava non sapeva come, ma in qualche modo era stato lui. Quando aveva letto per la prima volta le teorie di Tversky sul demone di Laplace non ci aveva creduto. Non del tutto. Ecco perché era così ansiosa di consegnare Julia all'Rdei.
Tremò al pensiero dei nord-coreani e della taglia che di certo le avevano messo sulla testa per averli sfidati. Cercò di non pensare alla propria situazione disperata e tornò a concentrarsi sull'uomo seduto accanto a lei. Forse aveva davvero qualche potere paranormale, ma c'era una bella differenza tra prevedere il futuro e controllarlo.
Tuttavia il fatto che il treno non si fermasse prima di Filadelfia... quante probabilità c'erano? Che cosa aveva indotto il conducente a saltare le quattro stazioni successive? Scosse la testa, rifiutandosi di crederci. Non aveva senso. Tversky aveva scritto che Caine non era in grado di controllare le sue capacità. Dopo quello che era appena successo, Nava non ne era più così sicura. Aveva imparato a fidarsi dell'istinto e in quel momento l'istinto stava urlando.
Lo guardò di nuovo, ma questa volta il suo sguardo non era indagatore. Era spaventato.
Grimes mise Fitz e Murphy sul monitor in modo che Crowe potesse sentire. Fu soprattutto Fitz a parlare, anche se Murphy intervenne qualche volta per cercare di farsi bello ai suoi occhi, o almeno di non sembrare più stupido per essersi addormentato come un sasso contro il muro. Quando ebbero finito, Grimes guardò Crowe.
“Che ne pensa?”
“Trovo piuttosto anomalo un improvviso attacco di narcolessia, soprattutto per un uomo di quarantatré anni che non ha nessun precedente medico fuori dall'ordinario” replicò Crowe solennemente.
“Ma che significa? Crede che Caine e Vaner siano su quel treno?” Grimes andava pazzo per quella parte dell'operazione. La sorveglianza gli piaceva, sì, ma braccare il bersaglio, cercare di individuarlo nella miriade di obiettivi grandangolari disseminati per il paese... quello sì che era forte. E Crowe sapeva il fatto suo, altro che.
“Mi dica del treno. Qualcosa di insolito finora lungo il percorso?”
“Un attimo, controllo.” Grimes penetrò nel sistema di sicurezza dell'Amtrak in meno di un minuto. Uno dei suoi schermi al plasma mostrava la carta della costa orientale, una vena di binari che correva lungo il mare. “Però... interessante.” Grimes alzò il volume dell'auricolare. “A quanto pare il conducente ha dato di matto e ha deciso di dirottare il treno.
Dice che sua moglie sta per avere un bambino e lui deve raggiungere Filadelfia immediatamente. Merda, quell'uomo è spacciato.”
Crowe si protese in avanti, all'improvviso interessato. “Può controllare nel database dell'Amtrak e scoprire quante volte un dipendente ha dirottato un treno?”
“Certo.” In una manciata di secondi Grimes trovò la voce giusta del menu e ottenne i dati. “Ecco. In quindici anni è successo solo diciotto volte.”
“Calcoli le probabilità.”
Grimes la trovò una richiesta strana, ma Crowe era il capo. “Vediamo. Ipotizzando che abbiano lo stesso orario da quindici anni, e che facciano cento viaggi al giorno, viene un totale di 36.500 viaggi all'anno, che moltiplicato per i quindici anni...” Grimes digitò i numeri sulla tastiera”...fa 547.500 viaggi. Ed essendoci stati solo diciotto dirottamenti, le probabilità erano dello 0,003%, cioè di 1 su 30.000.”
Crowe si batté il pugno nel palmo della mano con soddisfazione.
“E Caine. É su quel treno.”
“Vuole che chiami la cavalleria?”
“Aspetti.” Crowe sollevò la mano. “A che ora arriva il treno a Filadelfia?”
“Controllo.” Grimes ritornò nel database degli arrivi. “Tra 47 minuti.” Rise. “Sono un po' in anticipo.”
“Abbiamo un elicottero sul tetto?”
“Sì” annuì Grimes. “Ha già il pieno ed è pronto a decollare. Vuole che chiami il pilota?”
Crowe stava già correndo lungo il corridoio verso l'ascensore. Grimes lo interpretò come un sì.
Dopo quattro minuti si trovava già a una quota di 1500 metri sulla città. A 200 km/h sarebbero arrivati a destinazione insieme al treno. Se i venti erano favorevoli, forse l'avrebbero addirittura preceduto. Crowe premette un pulsante sulla cuffia.
“Grimes, voglio tutti gli agenti disponibili dell'ufficio di Filadelfia ad accogliere il treno. Si assicuri che abbiano tutti le foto digitali di Caine e Vaner...”
Grimes ascoltò con attenzione per un altro minuto il piano di Crowe. Sì. Presto David Caine avrebbe imparato che cosa significava essere braccato.
Caine non riusciva a mettere a fuoco l'attimo esatto in cui si era svegliato. Il dolce dondolio del treno, avanti e indietro, clic-clac, clic-clac, incanalò il tempo in un circolo perenne e la sua mente fu di nuovo preda di un déjà vu. Alla deriva in un mare di cotone lottò per tornare cosciente. Sbadigliò e aprì gli occhi.
Poi ricordò tutto. Avvertì ancora una volta un dolore sordo, il senso di colpa per Tommy... Non doveva morire. Era solo colpa sua. Se fosse rimasto lontano dal podval non sarebbe...
No. Niente di tutto quello era vero. L'esplosione, la donna, l'assurda telefonata, niente lo era. Doveva andare avanti. Se il suo io del sogno avesse raggiunto Jasper tutto si sarebbe sistemato. Guardò Nava. In un'al tra vita sarebbe stato più che contento di fuggire con una donna così bella. Ma in quella vita - in quel sogno- non stavano fuggendo da problemi comuni, ma dai killer.
“Attenzione, tra cinque minuti arriveremo alla 30th Street Station. Ci scusiamo ancora per gli eventuali problemi che il cambiamento di orario potrebbe causarvi. Grazie per la comprensione.”
Caine ebbe di nuovo la sensazione di un déjà vu e all'improvviso seppe di dover andare nel vagone ristorante. Non c'era molto tempo.
Nava si chiese se Caine fosse definitivamente impazzito. L'attimo prima dormiva come un sasso e quello dopo la stava trascinando nel vagone ristorante, incitandola a far presto. Quando furono lì, lui comprò dieci sacchetti di patatine fritte. Prima ancora che lei avesse il tempo di commentare, Caine li aveva aperti con i denti e stava arrancando verso l'estremità del vagone.
Dopo aver spinto il pannello nero della porta mise il piede sulla piattaforma di metallo che fungeva da raccordo tra il vagone ristorante e quello successivo. Attraverso le fessure del pavimento Nava vide scorrere i binari. Fu allora che Caine si chinò e cominciò a versare le patatine nelle fessure. Quando ebbe svuotato l'ultimo sacchetto, lo gettò a terra insieme agli altri.
“Ma sei matto?” gli chiese Nava.
“Sì” rispose Caine. “Credo di sì.”
“Perché l'hai fatto?” lo incalzò lei.
“Non... non lo so” balbettò Caine con uno sguardo distante negli occhi.
Nava si gelò. “Sanno che siamo su questo treno?”
“Sì... credo di sì” annuì lui.
Se fosse stata un'operazione normale Nava avrebbe fatto ricorso ai suoi piani contro gli imprevisti, ma quel giorno stava volando senza paracadute. Perché non usare Caine? In fondo era riuscito ad arrivare a Filadelfia, no? Tuttavia, temeva che spingerlo a usare le sue... capacità... potesse produrre risultati disastrosi. Poi ripensò a quello in cui stavano per cacciarsi e decise che valeva la pena rischiare. Si voltò e fissò gli occhi verde smeraldo di Caine.
“David, immagina noi due che fuggiamo dal treno sani e salvi.”
“Nava, non credo che funzioni così.”
“Però non ne sei sicuro, vero? Avanti. Gli atleti professionisti visualizzano la partita prima di entrare in campo. I soldati immaginano la battaglia prima di schierarsi. Ti prego, David, cerca di accontentarmi.” Poi, dopo un istante, aggiunse: “Prima o poi bisogna cominciare a fidarsi”.
Caine sembrava voler protestare, ma poi annuì. “Hai ragione.” Chiuse gli occhi proprio mentre l'altoparlante cominciò a crepitare.
“Attenzione, siamo in arrivo alla 30th Street Station di Filadelfia. Ringraziamo i signori passeggeri per aver viaggiato con Amtrak e auguriamo a tutti un piacevole soggiorno nella città dell' amore fraterno.”
Un piccione nero e grigio scese in picchiata dal cielo cupo e atterrò sui binari qualche secondo dopo che la belva di metallo si allontanò rimbombando. Beccò i frammenti di patatine fritte disseminati per terra. Doveva prenderne il più possibile prima che arrivassero gli altri. All'improvviso sentì uno squittio e quando si voltò vide cinque creature pelose che gli correvano incontro. Senza esitare, spiccò il volo.
Del gigantesco uccello rombante si accorse solo quando ormai era troppo tardi.
Erano alla resa dei conti. Crowe ascoltò la squadra dell'Fbi attraverso la cuffia. Non aveva idea di come diavolo avesse fatto Forsythe a ottenere l'aiuto dell'Agenzia così in fretta, men che meno di come mai i federali dipendessero dall'Nsa. Poiché lui era l'uomo di punta dell'Nsa, di fatto era il Saie, cioè l'agente speciale al comando. Forse qualcuno dell'Fbi avrebbe perso il posto quando si fosse diffusa la voce che gli avevano dato le redini, ma non c'era tempo per preoccuparsene. Il treno sarebbe entrato nella stazione nel giro di novanta secondi.
Crowe sarebbe arrivato in tempo per coordinare l'arresto. L'elicottero cominciò la discesa sotto la pioggia e lui si sentì lo stomaco in gola. Strinse la cintura e si poggiò allo schienale. All'improvviso l'elicottero si fermò con un brusco strattone e ricominciò a salire virando vistosamente verso destra.
“Che diavolo è stato?” gridò Crowe sul rumore assordante delle pale. Il pilota non gli diede retta e lottò per un po' con la cloche cercando di raddrizzare l'elicottero.
“Temo che un uccello sia finito nel rotore posteriore!” Azionò una serie di interruttori e riprese la discesa, questa volta molto più lentamente. “Ho qualche problema a virare, signore! Devo atterrare in quel parcheggio !” L'elicottero sobbalzò di nuovo e scese rapidamente in picchiata prima che il pilota riacquistasse il controllo.
“Atterra dove vuoi, basta arrivare sani e salvi!” Mentre l'elicottero beccheggiava avanti e indietro, Crowe gridò nel microfono. “Era mai successo prima?”
“Mai, signore!” rispose il pilota mentre il velivolo si avvicinava al suolo.
Crowe non credeva alle coincidenze. Non sapeva come, ma in qualche modo pensava che il responsabile fosse David Caine. Per la prima volta nella vita, Martin Crowe si chiese chi fosse il cacciatore e chi la preda.
Per raggiungere Jasper, Caine aveva bisogno di Nava e quindi doveva fidarsi di lei. Con gli occhi chiusi cercò di pensare alla loro fuga. Vide l'immagine di sé e di Nava che fuggivano insieme su un'auto, seminando gli inseguitori in un mare nero. Rivide quella scena mentalmente più volte.
Si sentì come quando guardava il campionato di basket universitario: con gli occhi incollati allo schermo e una birra in mano, desiderava, o meglio, cercava con la forza di volontà di fare andare a segno il tiro libero. Mentre il giocatore si scaldava lui lo incoraggiava, credendo che se l'avesse desiderato con convinzione sufficiente, se avesse spinto con forza sufficiente, in qualche modo avrebbe potuto fare la differenza.
Mentre il treno avanzava nella galleria, Caine diventò ipercosciente di ciò che lo circondava: lo stridio dei freni, il ritmo delle ruote sui binari, il tremolio delle luci fluorescenti del vagone che entrava nel ventre della stazione. Sentiva accadere ogni cosa. Era immerso in quell'attimo, più di quanto non gli fosse mai successo.
Eppure avvertì anche la sensazione di guardarsi dall'esterno. Il suo doppio era in... un'auto? Sì, una grossa auto nera che si allontanava sfrecciando. Nava era al volante. Un viso familiare aleggiava tra loro. Il suo doppio vedeva l'Adesso come se fosse passato. Caine cercò di leggere la sua mente futura, di scavare nella memoria e chiedersi Come?, ma non accadde nulla.
Con la mente lasciò il suo doppio e tornò al presente: sperando, desiderando, concentrandosi affinché lui stesso e il mondo circostante materializzassero ciò che voleva diventasse realtà. Sapeva che possibile... doveva solo renderlo probabile. Ma non sapeva cosa fare, perciò continuò a pensare, a concentrarsi, a volere.
“David! David!” Nava gli fece schioccare le dita davanti agli occhi. Caine batté rapidamente le palpebre e ripiombò nel presente mentre la sensazione dell'ingresso in una nuova realtà si rintanò in un angolo della mente. L'istante prima gli era tutto chiaro, quello dopo era solo un ricordo lontano, come se si fosse svegliato all'improvviso da un sogno surreale. Dopo qualche secondo persino il ricordo svanì.
“Stai bene?” gli domandò Nava, affondandogli le dita nel bicipite. Caine ebbe la sensazione che non fosse la prima volta che glielo chiedeva.
“Sì... cos'è successo? Ho perso conoscenza?”
Avrebbe voluto farle altre domande, ma proprio in quel momento le porte si aprirono. Nava gli si avvicinò e gli parlò a bassa voce.
“Vorranno portarci in una zona controllata per limitare le probabilità che facciamo male a qualcuno. Sul binario saremo al sicuro finché crederanno che non sospettiamo niente. Quando scendiamo dal treno non guardarti intorno e non mostrarti nervoso. Seguirmi e basta. Pronto?”
“Più pronto che mai.” Pur avendo già usato quell'espressione in passato, solo in quel momento ne comprese il vero significato: Col cazzo che sono pronto, ma proviamoci lo stesso.
Mentre scendevano dal treno, Nava gli prese la mano e gliela strinse per rincuorarlo. All'improvviso Caine pensò che, dopo tutto, essere andati a Filadelfia non era stata un'idea poi così brillante.
L'elicottero si posò a un chilometro e mezzo circa dalla stazione, in un angolo libero del parcheggio di una banca. L'atterraggio fu brusco, ma a Crowe non importava: nonostante la pioggia, che veniva giù con violenza, scese dal velivolo come un razzo e nel giro di pochi secondi era completamente zuppo.
Corse verso l'auto più vicina, una Honda Civic nera, e spaccò il finestrino posteriore con un colpo fermo della Glock. Dal punto d'impatto si diramò una ragnatela di crepe. Crowe assestò una gomitata al centro e il vetro si frantumò.
Seduto al volante, si tirò indietro i capelli, si asciugò l'acqua dagli occhi e infilò le mani sotto il cruscotto. Il motore si avviò al secondo tentativo e Crowe uscì di corsa dal parcheggio rischiando di mettere sotto un ragazzo che si sbracciava come un forsennato. Forse l'auto era sua.
“Situazione!” sbraitò nel microfono.
“Signore, il bersaglio è stato localizzato” rispose il capo della squadra.
“É solo?”
“No, è accompagnato da Vaner.” Cazzo. Anche se tutti pensavano che l'agente fosse con lui, saperlo gli faceva un certo effetto. Dall'elicottero aveva informato la squadra di Filadelfia sul suo conto: era pericolosa. Era preferibile arrestarla, ma l'obiettivo era secondario rispetto alla cattura di Caine, che invece bisognava prendere incolume. Quando impartì il nuovo ordine, Crowe si disse che non importava, che lei era una traditrice, ma non la diede a bere alla sua coscienza.
“Se necessario,” disse, “usate la forza per fermare Vaner.”
“Ricevuto, usare la forza contro Vaner.”
Crowe cercò di non pensare alle sue ultime istruzioni e di concentrarsi sulla missione. “Squadra uno, siete in posizione?”
“Affermativo.”
“Squadra due?”
“Due in posizione, signore.”
Crowe passò con il rosso mentre rifletteva sui possibili sviluppi della situazione. “Squadra uno, partite.”
“Squadra uno, si parte” gli fece eco il capo della squadra nell'auricolare. Con un po' di fortuna, tutto sarebbe finito ancora prima del suo arrivo in stazione. Il problema era che, con Caine come avversario, la fortuna non sarebbe stata dalla loro.
Il rischio di essere colpiti da un cecchino era limitato: a parte quello, gli aspetti positivi di trovarsi sottoterra erano pari a zero. Non c'erano uscite tranne le porte che conducevano alle scale mobili, a ciascuna estremità del binario, a meno che non avessero usato il binario libero accanto, che correva sotto la stazione per un centinaio di metri. In fondo, si intravedeva una luce fioca.
Nava rifletté su quell'alternativa, ma decise che li avrebbe esposti troppo. Non avevano scelta, dovevano prendere la scala mobile, anche se era un'alternativa altrettanto pericolosa. Se gli agenti li stavano aspettando in cima, ci sarebbero andati a sbattere contro proprio come due mucche dirette al macello. Scrutò le persone sul binario.
Nessuno sembrava fare troppo caso a loro, ma se gli agenti erano in gamba quella era la tattica giusta. Nava scartò le mamme, i bambini e gli anziani, cioè il 40% delle persone. Non era abbastanza. Riconsiderò l'opzione della fuga lungo i binari.
Provò l'impulso di afferrare Caine, saltare giù e fuggire. Ma per quanto la odiasse, sapeva che la soluzione migliore era circondarsi di innocenti sulla scala mobile. In quel modo, sarebbe stato più facile individuare chiunque li stesse braccando. Si voltò e vide una giovane mamma che cercava di far stare buone due gemelline mentre manovrava una carrozzina con dentro un neonato. Perfetto.
Rallentò per farsi raggiungere dalla famigliola. Quindi esercitò una rapida pressione sul braccio di Caine e fece rallentare anche lui. Continuò a scrutare la folla alla ricerca di segni rivelatori. Due giovani sportivi la stavano fissando con insistenza, ma era uno sguardo di natura sessuale, non professionale. Una donna atletica a qualche metro da lei sembrava un'agente, ma aveva tre buste della spesa. Pensò che forse, dopo tutto, erano riusciti a seminarli. Ma poi lo vide.
Eccolo, l'uomo con i jeans sdruciti e la vecchia felpa appena strappata all'altezza del collo. Non s'intonava agli abiti che aveva indosso. Portava i capelli troppo corti e ordinati e un paio di baffi ben curati. Una breve occhiata alle scarpe da ginnastica nuove fiammanti eliminò ogni dubbio.
Li guardava con la coda dell'occhio, ma dopo che Nava lo ebbe individuato, la sua sorveglianza sembrò più evidente. Si avvicinò a Caine e rubò un altro sguardo dell'Uomo Baffuto, che fissava un punto dietro di lei. Nava seguì il suo sguardo e incontrò gli occhi di una giovane donna in tailleur. Questa fu brava: si controllò e aspettò qualche istante per poi tornare al suo giornale. Ma prima che il “Philadelphia Enquirer” lo coprisse, Nava vide il rigonfiamento di un'arma sul fianco.
“Baffi con felpa, ore sette. Bionda con giornale, ore due.”
Caine annuì, ma ebbe il merito di continuare a guardare fisso davanti a sé. Stava imparando. Nava respirò profondamente. Sapeva che a loro interessava solo lui e che di conseguenza lei era sacrificabile. Esitò un istante e poi fu pervasa da un senso di calma. Non c'era motivo di farsi prendere dal panico: avrebbe vissuto o sarebbe morta, come sempre.
Rallentò e fece in modo di piazzarsi accanto alla mamma con i tre bambini, che si trovavano tra Caine e l'Uomo Baffuto. Con il fianco sinistro coperto, si concentrò sul lato destro. Avevano quasi raggiunto l'agente donna mentre la folla li spingeva lentamente avanti. Dopo pochi secondi Caine sarebbe passato a meno di un metro da lei.
Nava si voltò e vide l'Uomo Baffuto avanzare verso di loro. Mancavano solo tre metri alla scala mobile. La donna si girò di qualche grado verso destra e si mise in posizione, pronta allo scontro. Se gli agenti volevano prenderli sul binario, quella era la loro ultima occasione.
E sembrava proprio che non volessero lasciarsela sfuggire.
Caine non vedeva niente di particolare nella bionda in tailleur, ma se per Nava era una di loro per lui era un dato di fatto. Era cosciente della sua vicinanza mentre si avvicinavano alla scala mobile. Due metri. Avrebbe voluto rallentare, ma la folla non glielo permetteva. Un metro. Se la ritrovò accanto. Sentì il suo profumo. Era così vicino che non poté fare a meno di guardarla da dietro gli occhiali scuri.
Lei gli sorrise civettuola. Non sembrava pericolosa. In un'altra circostanza sarebbe stato attratto dal suo aspetto pulito e da quello che Jasper avrebbe definito “corpo porno fantastico”. Ricambiò il sorriso, dimenticando per un istante di essere un ricercato. Poi notò un luccichio nella mano destra di lei. Sembrava un'enorme penna d'argento.
Caine la guardò, come paralizzato. Si rese conto che era uguale alla siringa a molla che Nava aveva usato a New York. All'improvviso l'agente gliela puntò contro.
...
L'ago gli buca la carne e...
(loop)
Lei gli punta contro la siringa, lui cerca di bloccarle il braccio ma lo manca. Sente una fitta di dolore e...
(loop)
Lui ruota la gamba ferita lontano verso la traiettoria dell'ago, sventando l'attacco, e...
L'ago ipodermico lo colpì al di sopra del ginocchio, finendo nella stecca di legno. Non appena quello si spezzò, la donna gli afferrò il braccio e gli fece perdere l'equilibrio. Per un istante Caine cercò di restare in piedi, ma fu inutile, perciò fece del suo meglio per non sprecare la caduta. Fece un balzo in avanti e le colpì il mento con la spalla.
Lei cadde all'indietro e lo trascinò con sé. Nel cadere si girò e atterrò sul fianco, faccia a faccia con lui. Caine stava per allontanarla con una spinta quando sentì la bocca della pistola sulla pancia.
“Non voglio ucciderti, ma se ti muovi sparo” disse la donna. “Se dovesse succedere, rimpiangerai di non essere morto.”
Caine le credette. All'improvviso una donna urlò e la folla si trasformò da gregge pacifico in branco di animali spaventati. Qualcuno gli calpestò il ginocchio ferito. Caine fu trafitto da un dolore lancinante e si contorse in agonia.
Poi sentì lo scoppio della pistola.