Post scriptum – Giorno 45 (pomeriggio)

Quel che dicono è vero: mai, mai origliare, ché rischi di sentire qualcosa su di te che avresti preferito non sentire. Avevo fatto i bagagli, aspettavo mia mamma e mio papà, e mi è venuto in mente di restituire il Carl Rogers a Tom. La porta del suo ufficio era socchiusa e ho sentito la voce di Amelia, poi che faceva il nome di Sick Boy. Cioè, non era esattamente il suo nome, ma sapevo sicuro di chi stava parlando. «... estremamente manipolatore. Ritengo che quasi creda alla sua stessa propaganda, addirittura.»

Mi sono avvicinato, condannato a patire come una falena attorno a una fiamma. Di botto sento che ha cambiato disco. «... ma quello era Simon. Poi c’è Mark, che va via oggi.»

Paralisi.

«Non sono troppo preoccupato per lui, a lungo termine» dice la voce abbassata, stridula di Tom. «Se arriva a ventisei, ventisette anni, il suo senso di mortalità si farà sotto, mollerà tutta questa angoscia esistenziale e si metterà a posto. Se fino ad allora riesce a evitare le overdose e l’HIV, guarirà dalla tossicodipendenza. È troppo intelligente e ricco di risorse: alla fine si stuferà di fingersi uno sfigato.»

Allora sono entrato, bussando senza fermarmi. «Mark...» Smilza 4 è penosamente arrossita. A Tom gli si sono dilatate le pupille di brutto. Sembravano tutti e due imbarazzati come delle merde. Forse perché li avevo sorpresi a parlare di me, o a dire «tossicodipendenza», o un epiteto poco professionale e dispregiativo come «sfigato»? Ogni modo ho assaporato l’attimo, spingendo Diventare una persona verso Tom. «Lettura interessante. Qualche volta dovresti darci un occhio anche tu.»

Qui ho girato i tacchi e sono andato in sala tempolibero, dove ho fatto dei rapidi saluti agli altri stronzi, che non c’avevo niente a che vedere; solo Audrey era importante, e a lei avevo detto un addio come si deve. Tom è rimasto in ufficio, chiaramente troppo in imbarazzo per suggerire una delle sue pagliacciate di biglietti di saluto.

Porto fuori la mia roba per aspettare mamma e papà. Nuvole tipo frappé alla vaniglia schizzate sul cielo azzurro, una grossa quercia che copre il sole.

La ghiaia dietro di me scricchiola sotto i passi di qualcuno e vedo Tom che viene verso di me, furtivo, con la ghigna dipinta di un’espressione contrita e incasinata. Chiaramente vuole che ci baciamo e facciamo pace. «Senti, Mark, ti chiedo scusa...»

Può andarsene affanculo e pigliarsi tutte le sue viscide menate e gli abbracci insinceri e ficcarseli su per quel suo retto manipolatore e sleale. «Te non capisci la rabbia che uno ha dentro. Non la capirai mai» gli faccio, pensando a Orgreave e dopo, chissà perché, a Begbie. «Io faccio male a me stesso, mi metto fuori uso, per non poter far male agli altri che non se lo meritano. E questo perché non posso arrivare alla gente come te, perché voi avete la legge dalla vostra parte.» Sento la bile che mi viene su. «Se davvero potessi fottere il vostro mondo, non perderei tempo a fottermi la vita!»

Proprio allora, arriva nel vialetto una macchina che conosco, e i faccioni emozionati di mia mamma e mio papà a negare una vasta porzione di quello che avevo appena detto. Il dolore che ho provocato loro fa apparire ridicola la mia presunzione e la mia vanità; l’idea che nelle mie azioni ci sia un’intrinseca nobiltà. Ma in culo. Volto le spalle a Tom e al centro e vado verso la macchina.

«Buona fortuna, Mark» mi fa Tom. «Dico davvero.»

Sono arrabbiato con me stesso, ma con questo stronzo sono furibondo. Ipocrita, vigliacco, burocrate di merda. «Te e quello che dici non siete manco parenti. Purché c’avessi mai avuto intenzione di dire qualche cazzo di cosa» gli faccio, mentre mio papà scende dalla macchina. «Se vuoi fare qualcosa di utile, tienigli gli occhi addosso al Venters, che è uno stronzo.» E lo liquido con un gesto della mano. Il mio vecchio si rabbuia, però sono felici di vedermi mentre mi piazzo sul sedile di dietro.

«Il mio bambino, il mio bambino, il mio bambino...» fa mia mamma, salendo dietro dopo di me, abbracciandomi e sparandomi una raffica di domande mentre mio padre parla con Tom e firma delle carte. Chissà che cazzo di documentazione sarà, lì. Moduli di dimissione?

Dopo un po’, il vecchio rientra in macchina e si piazza al posto di guida. «Che cos’è che è successo? Fra te e il signor Curzon?»

«Niente, solo una piccola discussione, una scemenza. Qua dentro ogni tanto ci sono dei momenti di tensione.»

«Strano, è esattamente quello che ha detto lui» sorride mio papà scuotendo la testa, e io dentro mi sento mazziato.

«Oh, Mark, Mark, Mark» fa mia mamma colle lacrime che le corrono sulla faccia sopra a un sorriso gigante. La fa sembrare più giovane, e io mi rendo conto che non glielo avevo visto da tanto tempo. «Come stai bene! Vero, Davie?»

«Vero» risponde il vecchio, girandosi e strizzando la mia spalla palestrata mentre mi guarda come un allevatore guarda un toro da concorso al Royal Highland Show.

«Grazie a Dio questo orribile incubo è finito!»

Per un paio di secondi stoppacuore ho paura che il vecchio motore sbanfante non parta, ma mio papà lo accende e per fortuna lasciamo il centro. All’entrata si sono radunate un po’ di persone, ma non mi guardo indietro. La mamma si tiene la mia mano in grembo intanto che accende, sempre schiava delle sigarette. Stiamo attraversando il ponte in direzione Edimburgo quando alla radio attacca una canzone che conosco, e quanto è tentatrice quando parla di viaggiare su quell’autostrada a strisce bianche.

Loro non se ne accorgono, presi come sono a chiacchierare di quanto è bella la giornata, e che adesso possiamo ricominciare tutti a guardare avanti. Ma la mia mente e il mio corpo, da sei settimane pilastri immacolati del tempio dell’astinenza, sbanfano all’unisono come una drum machine veso la prima bustina d’eroina. Solo a pensarci mi fa schizzare dai pori un sudore gelato d’emozione. Non vedo l’ora, cazzo. Però decido che ci proverò, per il loro bene. Il vecchiardo non so perché ma pesta sul motore, e la cara vecchietta e io ci appisoliamo uno addosso all’altra mentre le gomme slittano a ogni curva.

 

 

Giugno 1969, Blackpool. La luna è ancora fatta di formaggio verde ma presto gli astronauti yankee la incarteranno e le metteranno l’etichetta, prima di buttarla in cella frigorifera. Una passeggiata sul Golden Mile. La distanza tra i suoi respiri secchi, nervosi, e l’ultima volta che abbiamo fatto il percorso sembra molto più lontana di un solo anno. Mi ricordo la volta che avevamo guardato le sue medaglie in quella scatola di latta. Lui che osservava beffardo. «Ti piantano questo metallo fuori dal petto solamente per coprire le cicatrici del metallo che ti han piantato dentro.» Mi ricordo che al momento pensavo: no, no, nonno, questo sono stati i tedeschi che te l’hanno fatto.

Adesso capisco che il povero vecchio stronzo aveva nasato l’aria.

Attraversiamo la città verso il porto di Leith. Non è tanto tardi: i negozianti sul Walk stanno abbassando le saracinesche, ma di gusto. Quando arriviamo a casa, capisco che c’è qualcosa in ballo. All’improvviso le luci del soggiorno si accendono e c’è un mare di ghigne: Hazel, Tommy, Lizzie, Secondo Premio (tirato a lustro e con bella biondina al traino), Billy, Sharon, Gav Temperley, la signorina McGoldrick, la nostra vicina, i soci di Billy, Lenny e Granty, tutti con megasorrisi che mi brindano coi bicchieri di spumante; tutti tranne Secondo Premio, che c’ha un succo d’arancia. In cucina, sopra al tavolo pieno di dolci, tramezzini e quegli involtini alla salciccia che ci son sempre ai matrimoni e ai funerali, più uno striscione a lettere verdi su fondo bianco che proclama:

 

BENTORNATO, MARK! SEI STATO GRANDE!

 

Non è proprio la festa di laurea che avevano in mente per me, ma insomma. Il vecchio mi allunga un bicchiere di spumante. «Scolati questo. Ma occhio, vacci piano.»

Vacci piano.

Mentre guardo il bagliore guizzante, nauseante dei ceppi di plastica nel camino, sorseggio il mio bicchiere sentendolo serpeggiare giù nella gola, poi nello stomaco, fegato, reni, passarmi in circolo nel sangue e alla fine rischiararmi il cervello. Le bolle mi frizzano in testa mentre Hazel mi accarezza il braccio tutta compiaciuta, che gli si alzano gli angoli della bocca. «Sono muscoli, questi?»

«Più o meno» ammetto io prendendo un altro bicchiere, nella certezza matematica che invece di saziare un bisogno che sento strisciarmi addosso lo renderà solamente più acuto. Sto tornando da lei quando Tommy mi intercetta e mi stringe in un abbraccio da amicone. «Devi mollare quella merda, Mark» mi incalza col fiato rotto.

«Come, no, Tam... ho imparato la lezione.» Che non è esattamente una bugia, dato che una lezione l’ho imparata. Solo, non quella che avevano in mente loro. «Spud, come sta?»

«Non parliamone. Peggio di prima. Immagina di sorbirti tutte quelle stronzate di riabi per un cazzo.»

«Ah, capito» dico io mogissimo, ma dentro di me è un sollievo. Evvài, giovane Murphy! «E... Matty?»

«Uguale a Spud, ma in vacanza

Ricevuto, Tommy. Quindi per il nostro Mr Connell il peggio del peggio. Noto che Hazel sta parlando con Secondo Premio e la sua passera, perciò acchiappo la borsa e vado verso la mia vecchia stanza, nascondendo il diario in fondo a un armadio pieno di libri e altre vecchie cagate.

Quando torno in soggiorno, mia mamma sta discutendo con Billy, gli sventola una cartolina che vuol fargli firmare. «Manco per sogno...» lui scrolla la testa «... io per i Curran non firmo un bel niente. Non ti ricordi come si son comportati al funerale del Piccolo Davie?»

«Ma erano i nostri vicini, amore...» Poi lei mi guarda implorante. «Tu la firmi la cartolina di buona guarigione da mandargli al povero Olly, vero, caro?»

«Non sapevo che era... cos’è che gli è successo?»

«Eh, già, come facevi... gli è venuto un attacco di cuore, ma grave» risponde mamma, triste. «Dice che il Comune gli aveva mandato una lettera bruttissima. Proprio, che si è arrabbiato talmente che l’ha buttata subito nel fuoco. Dopo è andato là e si è messo a gridare come un dannato, contro la gente di colore e così, sapete che i Curran alle volte diventano...»

«Degli svitati frolli» dice Billy.

«... e lui ha cominciato a caricarsi, perché al Comune dice che non sapevano niente di nessuna lettera. Ma lui era scatenato, ha cercato di saltargli addosso all’impiegato dietro il vetro, e lì poi han chiamato la polìs. A quel punto lui se n’è andato via, ma in Waterloo Place è caduto per terra, e alla fine han dovuto portarlo al Royal.»

Sento qualcosa di freddo spandersi su di me, e il colore che si sbianca dalla faccia. Mia mamma mi mette in mano carta e penna. Billy mi guarda. «Non la firmerai mica, eh? Tu lo odiavi, il bastardo!»

«Su, vivi e lascia vivere. È solo una cartolina, e gli è successa una roba che non gli auguro a nessuno, nemmeno a lui.» Dopo la sbircio, la cartolina, che c’è su la caricatura di un tizio coll’aria moscissima in un letto d’ospedale col termometro in bocca e la didascalia: «CI DISPIACE CHE TU SIA MALATO». Apro e vedo lo stesso tizio adesso tutto vispo, con un bicchiere di spumante in mano, che le fa l’occhietto e le accarezza i capelli a un’infermiera sexy. Qui il messaggio dice: «AUGURI DI UNA PRONTA GUARIGIONE!»

Io appoggio la cartolina sulla credenza e scrivo: Olly, siamo con te. Mark.

«Caro il mio bambino» sorride con indulgenza mia mamma, che poi mi sussurra nell’orecchio: «Questo qui è il vero Mark. È la tua bontà che salta fuori, prima che tutte quelle droghe schifose ti facevan diventare così strano, e... cattivo». E molla al vero Mark un bacio sulla guancia.

Le strizzo l’occhio e mi volto verso Billy. «Te la ricordi la formazione dei Wolves che ha battuto gli Hearts nella finale di coppa anglo-scozzese? A casa loro avete vinto uno a zero, ma poi a Tynecastle ne avete beccati tre? Quanti nomi di giocatori c’hai in mente della loro squadra?»

«Cazzo» fa lui, aggrottando la fronte, «non mi ricordo neanche quelli degli Hearts! Fammi pensare, c’era Derek Dougan, naturalmente, Frank Munro... ah, forse Billy Hibbitt?... Kenny Hibbitt... e a proposito di Curran... quel ragazzo che ne ha segnati due, che era anche scozzese... Hugh Curran! Eh, già!» Billy si gira verso mio padre che sta chiacchierando con Tommy e Lizzie. «Pa’» gli grida, «i giocatori dei Wolves che han battuto gli Hearts, sai nella Texaco Cup...»

«Bella squadra» fa mio papà, asciugandosi il naso con un tovagliolo di carta. «Ti ricordi che quel Natale là vi avevam regalato tutte le maglie del Wolverhampton? Che la tua me la son fatta arrivare per posta?»

«Esatto. I Fort Wanderers. Che a Natale ci avevi fatto la foto. Che non è mai stata sviluppata, però...» Qui guardo deciso Billy. «Che peccato, eh? Ma pazienza: nella mente mi sembra di vederla ancora adesso. Da sinistra a destra, dietro: io, Keezbo...» guardo i ragazzi colle loro passere: Tommy, Rab, e poi di nuovo Billy «... Franco e anche Deek Low. Davanti, accovacciati, da sinistra a destra: Gav, George l’Inglese, Johnny Crooks, Gary McVie, te lo ricordi il povero Gazbo? Cioccolatino Dukey e Matty colla maglia da portiere.»

Billy sembra un attimo sconcertato, mentre mio papà dice allegramente: «Be’, almeno tutte quelle porcherie che pigliavi non ti hanno massacrato la memoria!»

No, infatti. Perché una cosa che ricordo chiaramente è un certo indirizzo di Albert Street, e le sette cifre di un numero di telefono che mi ha dato Seeker. Mi avvicino a Hazel e le metto un braccio attorno alla vita slanciata. Lei mi sorride, immacolata nel suo vestito giallo con le pop socks, e ha un profumo fantastico, che sembra una ragazza americana dei quartieri residenziali in un film anni Cinquanta. Mi scatta il fluido erotico. Penso: è meglio portarmela in quell’appartamento di Montgomery Street e far del sesso sfigato con lei, o invece rintracciare Johnny, Spud, Matty, Keezbo & Company, o andare in cerca del mio caro amico e personal trainer, Seeker?

Skagboys
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