St Monans (Prevenzione tra pari)

Non è che mi esalta ’sta storia della riabilitazione, solo che sembrava o così o il gabbio, e mi son sentito di scommettere. Salcazzo cos’è capitato a Matty, ma Keezbo ha fatto lo stesso accordo. È venuto a stare con me in Montgomery Street, pigliando tempo con il programma del metadone, ma di roba per le strade ce n’era e ci piaceva ancora sballare assieme. Ghignata massima quando l’ho portato per la prima volta all’ambulatorio che gli hanno fatto l’esame del sangue per com’è che si chiama, sì, l’AIDS. La ragazza, facendo le domande sulla trasmissione, gli chiede: «Lei è sessualmente attivo?»

«Sì, di solito» fa Keezbo, che non aveva capito, «però alle volte preferisco star sdraiato colla passera sopra che fa tutto il lavoro. ’Somma, bisogna mescolare un po’, giusto?»

«Quello che voglio dire è... attualmente, lei ha una partner sessuale?»

«Perché?» risponde Keezbo con un sorrisone. «Si vuole candidare lei?»

È stata l’unica parte ghignosa. Di solito era un mare di domande e basta. Ho fatto un paio di interviste con questa specie di nano del cazzo che si chiama dottor Forbes, e una con una inglese con delle ossa da uomo che era una psicologa clinica. Gli ho detto quello che secondo me volevan sentire, solo per levarmeli dalle croste. Keezbo m’ha detto che ha fatto uguale.

Tornati a casa abbiam provato per un po’ a fare una jam, ma la sua batteria e il mio ampli, e poi dopo anche il Fender eran finiti nel negozio dell’usato sul Walk per comprare la roba. Però ci siam tenuti lo Shergold fretless.

Per certi stronzi il metadone andava bene, però a me non mi dava soddisfa e avevo nausea, nausea. Quando non ero troppo inculato per uscire, la città mi sembrava morta. Sick Boy era sparito, sua mamma ha detto che era andato in Italia da sua zia. Swanney stava coperto chissà dove e Spud dovevano averlo trasferito dall’ospedale in riabilitazione. Begbie era in prigione, Tommy e Secondo Premio erano innamorati, Lesley dicevano che era restata incinta e Ali, che si vedeva con questo più vecchio, un regolare, non rispondeva mai al telefono.

Però il mistero più grosso era Matty: ci fosse un solo stronzo che sapeva qualcosa di lui. Aveva scelto l’opzione galera e lo avevan messo dentro, però correva voce che se l’era cavata colla condizionale, che era stato mitissimo, cazzo, perché bisognava pure che gli avessero perquisito la casa. E quindi, dovevano aver trovato tutti i tesori nascosti. Mi son chiesto che roba poteva aver detto alla polìs, sudando sotto a quelle luci, colla nausea da astinenza. Come per tutti gli altri, tutti i prodotti principali di Leith – soci, passere, Hibs – sembrava che non avevano troppa importanza. Mi interessava solo la skag.

Dopo che siamo andati a ciucciarci la dose nell’ambulatorio del vecchio ospedale di Leith, gli han dato a Keezbo una lettera che il giorno dopo è andato via a fare la riabilitazione. A me sembrava che mi avevano lasciato fuori, perché l’infermiera, una ragazza che era un mito che era amica di Ali, mi ha informato. «Mark, te sarai il prossimo. Cerca di non andare in giro.»

Così in pratica stavo quasi sempre lì nell’appartamento a leggere e a pensare a Matty. Che lui non è un infame. O sei fatto a quella maniera lì, o non sei. O sei un crumiro o un infame, o non sei. E lui non è. Perciò è stata un attimo una sorpresa una sera che di soppiatto è venuto a casa, lo stronzo, con un’espressione cioè tutta contrita sulla ghigna di solito viscidona. M’ha domandato dov’era Keezbo e gliel’ho detto. «’Fanculo» dice lui, «io non mi disintossico. Non lo piglio il surrogato.»

«Ma ti dan proprio la roba per aiutarti.»

«Palle! Ti levano anche il metadone! In culo le loro pasticche di sonnifero o di paracetamolo o non so manco la merda che ti danno! Comunque cazzo cercano di mettertela giù, sempre surrogato è! Figa, non c’è storia» insiste Matty. «Figa, dovevi beccarti la galera anche te. Son stato dentro solo quattro giorni, col metadone, e dopo sono stato fuori con sei mesi di condizionale. Figa, potevi farti quattro giorni in custodia... meglio che una settimana di surrogato e cinque settimane a scassarti la testa in quel centro di riabilitazione dimmerda!»

Non mi piace ammetterlo, però lo stronzo mi fa cagar sotto. Il metadone, dico la verità, non è perfetto un cazzo, ma restare senza di lui e senza poter prendere la skag era una prospettiva di cazzi molto amari. Ma mentre la riabilitazione mi faceva cagare addosso, non ero neanche pronto a farmi una gita al gabbio, anche solo per pochi giorni di preventivo.

Matty non è restato. Gli ho detto che non c’avevo di roba, ma dallo stronzettino me ne stavo distante alla grande. Dopo un pochetto si è levato dai coglioni, colle solite stronzate tipo «telefona».

Paio di giorni dopo che hanno beccato Keezbo, sono venuti all’appartamento mia ma’ e mio pa’. Hanno scoperto che stavo lì da solo, così mi han detto che mi portavano a casa finché non mi trovavano un posto nel programma. Io non mi sono esaltato, però loro insistevano che se restavo da solo rischiavo un’overdose o roba simile. A ’sto punto lì il metadone faceva effetto, e con lui una passività stanca, le membra spesse. E insomma mi son fatto portar via. Casa dei miei non succedeva granché, di solito dormivo, leggevo e guardavo la tele. Mi ricordo che ha telefonato Nicksy, dicendo che il cane Vaglia si era piazzato a casa di sua mamma, solo che io ero scazzato e pensavo di andare a stare con Tony. Lo sapevo come si sentiva lui. Vabbe’, ero a casa solo da qualche giorno, leggendo James Joyce in camera mia, quando è entrato mio padre e m’ha detto di fare i bagagli. Quando m’ha spiegato che «m’avevan preso» in riabilitazione, è stato tipo qualche anno prima, che si vantava cogli altri che «m’avevan preso» all’università. Non riusciva a soffocare l’emozione.

La cosa brutta era che quando sono andato all’ambulatorio eran già stati informati di quello che stava succedendo, e mi han ridotto il metadone per prepararmi alla disintossichescion. Perciò ho messo un po’ di libri e di vestiti in borsa. Ho trovato un po’ di carta intestata del Comune che mi aveva dato Norrie Moyes un mare di tempo fa che me n’ero dimenticato: c’avevo in testa una fregatura ai Curran come vendetta, ma non s’era fatto niente. Messo i fogli in una cartelletta e ficcati nella borsa.

Piscia giù acqua sopra alla macchina mentre viaggiamo nel culo del mondo del Fife. Io son seduto dietro e mio padre guida senza parlare, mia mamma farfuglia nervosa tra una sigaretta e l’altra. Quando arriviamo, che attraversiamo un cesso di paesino con quattro case, una chiesa e un pub, e parcheggiamo davanti a questa casa bianca a un solo piano, sto male come una merda, tutto contratto e rigido che soffro già il taglio del metadone. Ce la faccio nemmeno a scendere dalla macchina quando esce il vecchio che mi apre la portiera. Vola dentro aria calda e mi sento crescere un terrore pulsante da farmi sudare tutto. «Questo non voglio farlo!»

Mentre sento mia madre dire qualcosa tipo un nuovo inizio, mio padre fa: «Be’, figlio mio, adesso non decidi più te» e mi afferra il braccio e comincia a tirarmi giù dall’auto.

Io stringo lo schienale. «Cosa vi dà il diritto di obbligarmi, eh?»

Mia mamma mi guarda, voltandosi co’sti occhioni spiritati, che mi fa staccare la mano dal sedile. «È che ti vogliamo bene, tesoro, è questo che ci dà il diritto... Lascia andare!» e mio papà dà un altro strattone che quasi volo fuori dalla macchina e inciampo che mi aiuta a non cadere tenendomi in piedi per la giacca come una bambola di stracci. «Su, ragazzo, fatti forza» mi dice con una fermezza docile, incoraggiante.

Mentre mi tiro dritto sulle gambe che tremano, sento le lacrime spuntarmi dagli occhi, che mi prudono anche, e le asciugo sulla manica compreso il moccio e tutto. La mamma scende dalla macchina e scuote la testa, pensando a voce alta: «Non so perché doveva succederci a noi...»

«Magari è Dio» propongo mentre sento la stretta di mio pa’ mollarmi un po’, «tipo che ti ha mandato un’altra prova.»

Lei mi guarda e salta su gridando a mio papà: «L’hai sentito, Davie? È cattivo!» Mi punta il dito contro: «Non senti cosa dici, brutto ingrato...»

«È la droga che parla, Cathy...» fa il papà con una voce autoritaria e triste, aguzzando gli occhi su di me. Adesso che la vecchia gli è saltato il coperchio, può fare lo sbirro buono. Il vecchio c’ha un caratteraccio, ma non gli piace perdere le staffe. La vecchia in genere è accomodante, perciò la mia tattica era di fare in modo che la cattiva diventava lei, roba che in genere disarma la rabbia del vecchio. Ma adesso sto male come un cagnolino e il tempo mi scappa via. Ho il solletico in gola, e gli occhi li sento come se dovessero cavarmeli. Caccio due starnuti, convulsioni terremotiche che mi scrollano tutto, e il vecchio mi guarda preoccupato.

Do una sbirciata attorno, ma qua i posti dove telare sono a zero. «Dai» mi ordina il vecchio, e c’ha dell’impazienza nella voce. Camminiamo sul vialetto di ghiaia fino all’ingresso della casa bianca, poi entriamo dentro. Nel posto c’è ’sta vibra onnipresente del controllo statale: muri color magnolia, piastrellato marrone, e in alto la luce cruda del neon.

Ci viene incontro la direttrice del centro, una magra coi riccioli scuri annodati di dietro, occhiali con la montatura rossa e lineamenti belli, delicati. Mi ignora e decide invece di stringere la mano ai miei. Uno stronzone che è il ritratto della salute, frangia bionda, mi sorride. «Mi chiamo Len.» Mi piglia la borsa. «Ti accompagno nella tua camera.»

Il vecchio rotea la zucca per assorbirsi tutto. «Però, ragazzo, non male come posto.» Mi strizza la mano. C’ha gli occhi appannati. «Dai, fai la tua battaglia e vienine fuori» mi fa piano, «noi crediamo in te.»

La passera smilza-quattrocchi sta blaterando con mia mamma che la guarda sul chi va là. «St Monans è un’iniziativa in collaborazione fra due organizzazioni sanitarie e tre strutture di assistenza sociale. Comprende la disintossicazione cui fa seguito una terapia individuale personalizzata sul cliente e sedute di sostegno di gruppo.»

«Ah... che bello...»

«Il gruppo è essenziale per la nostra filosofia. Lo vediamo come un modo per combattere le strutture di pari che, all’esterno, incoraggiano i comportamenti di dipendenza del cliente.»

«Ah... dev’essere utile» fa mia mamma guardando le tende, strofinando il tessuto tra pollice e indice.

«Be’, di problemi da lui non ne avrete» fa mio papà girandosi verso di me. «Qui te devi sfruttare la tua occasione. Capito?»

«Capito» faccio io, guardando ’sto programma esposto sul muro dietro di lui. C’è scritto SVEGLIA 7.00. In culo.

Sfrutto la mia prima occasione per telare, cazzo.

«Qualsiasi cosa, pur di levarti dalla strada, dagli spostati e dai matti come quel ragazzo là, Spud. E quel Matty... Non c’hanno di ambizione, quei ragazzi lì.» Scrolla la testa.

«L’allontanamento dall’ambiente che incoraggia l’uso di droghe è una delle chiavi del nostro programma. Noi assicuriamo un contesto disciplinato e strutturato e forniamo al cliente con dipendenza da sostanze la possibilità di mettere ordine nella propria vita.» Così parlò Smilza Quattrocchi.

«Ti trascineranno giù, al loro livello, tesoro... l’ho visto» ammonisce mia mamma con un cipiglio del malaugurio.

«Sono i miei amici. C’ho il diritto di andare in giro con chi mi pare» dico io, sentendo una porta sbattere in lontananza, seguita da una voce alterata e minacciosa.

«Sono tossici» sibila lei.

«E allora? Non fanno male a nessuno» faccio io accorgendomi della faccia dolorosa di Smilza Quattrocchi: tipo che riconosce di essere entrata dentro una faida familiare, ma sempre con il senso di legittimità perché sta succedendo nel suo centro. Pare che nessun altro si accorge del viavai che viene dalla stanza lontana, i passi frettolosi nel corridoio.

Qua dentro dev’essere tutto spasso e ghignate, ma alla grande.

«Non fan male a nessuno?» geme mio padre come un disperato. «Ma figlio mio, se vi hanno preso in flagrante che scappavate da quel negozio colla scatola! Di una vecchia signora. Una pensionata che cerca di guadagnarsi da vivere e di far quel che può per gli animali ammalati. Figliolo, non ci credo che non capisci che disastro è...» e guarda verso una Smilza Quattrocchi concentrata ma neutrale in cerca di approvazione, poi ancora verso di me. «Possibile che non capisci come ti fa sembrare

Vecchia baldraccona che, tanto, tra un po’ tira la calza... vecchia spiona stronza...

«Non era meglio quando giravi con Tommy e Francis e Robert, ragazzo?» insiste mia mamma. «Col fùtbal e quelle robe lì. T’è sempre piaciuto il fùtbal!»

Un’improvvisa botta di panico, e vorrei solo accovacciarmi giù per il gelo da capogiro che mi ha investito. Invece, guardo la mia nuova padrona di casa. «Se mi sento proprio male, mi darete anche qua dentro il metadone?»

Lo sguardo di Smilza Quattrocchi è misurato e impassibile. Tipo che mi vede per la prima volta. Scuote la testa lentamente. «Questo progetto prevede l’assenza di droghe. Qui smetterai di prendere il metadone. Qui a St Monans farai parte di un gruppo, di una società, di gente che lavora, gioca e si riposa insieme, e posso assicurartelo... sarà dura» conclude, guardando i miei genitori. «Ora, signori Renton, se non vi spiace dovremmo procedere all’inserimento di Mark.»

’Orco il cazzo!

Mia mamma mi rifila un abbraccio spaccaossa. Mio papà, notando il mio evidente disagio, si accontenta di uno stanco ciao colla testa. Deve portare via la mamma tanto che sta sparando fuori gli occhi a furia di piangere. «Ma è il mio bamboccino, Davie, sarà sempre il mio bamboccino...»

«Su, Cathy, dai...»

«Mi rimetterò assieme qua dentro, ma’... vedrai.» Mi sforzo di fargli un sorriso.

Via dai coglioni! Adesso!

C’ho voglia di sdraiarmi. Non voglio fare parte del gruppetto deficiente di Smilza Quattrocchi, della sua società di ’stocazzo. Però, mentre i miei genitori si strascinano fuori, sto già pensando di innamorarmi di lei: io e Smilza Quattrocchi su un’isola ai Caraibi, con una scorta inesauribile di roba procurata dai suoi capi del ministero della Sanità. Sembra una di quelle bibliotecarie sexy che diventano scopabili di bestia, cazzo, quando si sciolgono i capelli e si levano gli occhiali.

’Somma, Lenny mi scorta in camera mia. Con tutto il suo fare lindo-lindo e affabile, è uno stronzone grosso, tipo buttafuori bonario, e non mi andrebbe di dover tentare di passargli sopra. Accende il tubo al neon che tremola tipo strobo da discoteca e poi si stabilizza, incendiando la stanza di un bagliore malato con accompagnamento di ronzio tipo insetto. Mi sdraio sul letto esaminando il posto. È uno squallido ibrido fra lo studentato di Aberdeen e la cabina della Libertà di scelta. C’è la stessa piccola combo incassata scrivania-libreria con sedia dell’università, e armadio e cassettone dalla linea simile. Ma Len-il-Frangia mi fa di non mettermi troppo comodo. In sala riunioni c’è un incontro di benvenuto, pare preparato apposta per la mia personcina, che così incontro gli altri. Mi chiedevo se ci saranno Spud o Keezbo, o li han mandati da qualche altra parte. «Quant’è che siamo qua?»

«Attualmente abbiamo nove clienti.»

Ma prima cosa mi dà un programma-orario uguale a quello che ho visto sul muro dell’accettazione. «Vorrei solo che dessi un’occhiata veloce...»

 

Consiglio della Sanità del Lothian
Dipartimento di assistenza sociale

Gruppo sulla dipendenza da sostanze di St Monans

Programma delle giornate

 

ore 7.00 SVEGLIA

ore 8.30 COLAZIONE

ore 9.30 MEDICINALI

ore 10.00 MEDITAZIONE

ore 11.30 GRUPPO DI RIESAME DEL PERCORSO

ore 13.00 PRANZO

ore 14.30 ASSISTENZA INDIVIDUALE

ore 16.00 LAVORO DI GRUPPO – PROBLEMI DELLA DIPENDENZA

ore 18.00 CENA

ore 19.30 RICREAZIONE – ESERCIZIO FISICO

ore 20.30 SPUNTINO SERALE

ore 23.00 LUCI SPENTE

 

«Sveglia alle sette del mattino? Cos’è, una barzelletta?»

«Esatto, sì, all’inizio è pesante» ammette Len, «però la gente ci si abitua in fretta. È tutto per rimettere un po’ d’ordine in questi stili di vita caotici. Ci riuniamo per colazione, e lì devono essere presenti tutti, anche quelli in disintossicazione, e dopo ricevete tutte le medicine importanti che avete bisogno.»

«Le sette del mattino è ridicolo...» mi lamento. L’ultima volta che mi sono alzato così presto era quando lavoravo da Gillsland. «E la meditazione? Che è? Io non mi voglio mettere a dire le preghiere o a cantare o fare delle robe così!»

Len ride e scrolla la testa. «Non c’entra la religione, noi non seguiamo il modello NA/AA. Non pretendiamo che vi sottomettiate a Dio o a una potenza superiore, anche se, nel caso vogliate farlo, non vi scoraggiamo mica. È una cosa che in passato si è rivelata di grande presa ed efficacia su alcuni clienti.»

Le uniche potenze superiori a cui mi sottometterei sono Paddy Stanton o Iggy Pop.

«E tutta ’sta storia qua della dipendenza da sostanze?»

«La preferiamo a tossicodipendenza

«Bella» dico alzando le spalle.

Il ditone di Lenny picchia sul foglio riportando la mia attenzione sul programma. «Il gruppo di riesame ci permette di osservare in che modo stiamo funzionando come membri di questa comunità, e mettere in evidenza gli eventuali problemi. Come puoi immaginare, possono diventare importanti. Dopo pranzo ci sono le nostre sedute individuali, dove lavorerai con Tom o Amelia. Poi facciamo una seduta di gruppo per vedere assieme i problemi della dipendenza da sostanze. Dopo cena si è in libertà, e abbiamo un televisore, un biliardo e anche strumenti musicali e attrezzi sportivi. Niente di che, in sostanza solo qualche manubrio e una chitarra, ma speriamo di avere presto altre cose. C’è anche uno spuntino leggero, facoltativo... in genere soltanto una cioccolata calda, o Horlicks, e biscotti. Alle undici spegniamo la luce in tutte le parti comuni, e anche la tele. Durante i quarantacinque giorni del programma non ti verrà permesso di telefonare, salvo per particolari motivi personali, e previo accordo con un membro del personale direttivo. Potrai, invece, scrivere lettere, ma tutta la posta in entrata sarà aperta ed esaminata prima della consegna. Qui non è ammesso alcun tipo di droga, compreso l’alcol. A malincuore facciamo eccezione per la nicotina e per la caffeina...» Qui sogghigna. «Per tutto il periodo della terapia non ti sarà permesso di uscire dalla casa, se non per escursioni legate al progetto, e sotto supervisione del personale.»

«Cazzo, ma è come essere in galera!»

Len scrolla la testa, da superiore. «In galera ti ci chiudono dentro e poi ti buttan fuori. Noi vogliamo che tu stia meglio.» Si alza in piedi. «Bene, abbiamo un breve incontro di benvenuto, tutto per te, ma prima ti faccio vedere il posto.»

Mi fa fare una visita della «casa», come la chiamano. Spiega che siamo vicino al villaggio di St Monans, nell’East Neuk of Fife, vicino ad Anstruther, un ex pittoresco paesino di pescatori ora riconvertito al turismo. Ma dato che non uscirò mai a vedere il posto, cazzo, potrebbe anche essere lontano chilometri. Il villaggio e il suo progetto prendono il nome da san Monans, un santo di cui nessuno sa una beata sega. Il Santo Patrono di Sticazzi, e di conseguenza perfetto per questo buco qua. Il centro è un edificio a U con un giardino chiuso da un muro sul retro. C’ha dieci stanze da letto, cucina, sala da pranzo e sala tempolibero con tele e biliardo. Accanto a quest’ultima c’è una piccola serra che dà su un portico, e di qui a un giardino circondato di grossi alberi.

«E questa qui è la nostra sala riunioni» fa Len aprendo una porta, ma quando entro dentro, la prima cosa che sento è: «STRONZO D’UN RENTON» e dopo risatona seguita da una scarica di applausi. Non ci posso credere. Sono tutti qua, cazzo!

«Porca troia! Gli stronzi!» sento me stesso squittire dalla contentezza. È come arrivare a una festa di compleanno a sorpresa!

«Adesso siamo al completo, ragazzi» ride Johnny Swan, cazzo, in camicia e cravatta.

C’è Keezbo, mezzo rintontonito, il gomito sul bracciolo della sedia, il testone appoggiato su un pugno pastoso, e Spud, che sta seduto tremante stringendosi nelle braccia nella tipica posa da tossico. Mi fa: «Gattone...»

E Sick Boy è stravaccato su una sedia in un angolo. Lo saluto colla testa e mi siedo di fianco a lui. «Mica male la casa di tua zia.»

Lui fa un sorriso stanco. «Bisognava.»

Spud chiede a Len qualcosa per i suoi crampi, mentre Sick Boy e Swanney mi presentano a un ragazzo di Niddrie che si chiama Greg Castle, e naturalmente è soprannominato Roy come il canta-balla-presenta. C’è uno stronzettino coll’aria nervosa, Ted di Bathgate, e un glasga cogli occhi neri e un naso lungo, rotto e storto che lo chiamano Skreel. È arrivato giusto ieri, e tremola tutto tipo una merda. C’è una sola ragazza, una passera riccia di nome Molly, che ha la faccia contratta e mi guarda con nuda ostilità. I segni di siringa all’interno dei polsi magri e bianchi sono belli infiammati, ma niente in confronto ai tagli rossastri di varia profondità. Sì, ma però quello più da paura è questo grosso motard che chiamano Seeker, che non l’avevo mai incontrato ma so chi è di fama. Gli occhi vitrei mi fissano per un momento con una potenza classe raggi X, poi guarda da un’altra parte come se avesse visto tutto e si fosse sfavato.

Swanney mi lancia un’occhiata soppiatta e tira fuori con discrezione una lametta. Lo vedo ficcarsela dentro alla bocca e raccogliere in mano il sangue mentre guarda Len, che si caga addosso. «Mi è saltato il punto...»

«Non c’è l’infermiera...»

«Vado io a aiutarlo a sistemarsi» mi offro al volo.

«Va bene...»

Becco Sick Boy, Keezbo e Spud che ci trapassano con lo sguardo a me e Swanney mentre teliamo nel corridoio in direzione cessi. Lui tiene l’occorrente nella scarpa e cucina veloce. «Ultimo vino dell’annata, ciccio. Gùstatelo, perché qua ci sarà poco da ridere...»

Si leva la cravatta e mi lega il braccio. Intanto stiamo assaggiando una bustina di anfe che mi casca di mano quando lui mi fa il buco e l’eroina mi vola al cervello uccidendo tutto il dolore del mondo.

Figata mitica, figa...

Resto seduto in estasi su questo cagatoio mentre Swanney si pera mentre mi spiega che l’aveva conservata e adesso è finita. Ripiglia la bustina e finiamo l’anfe, anche se è l’ultima cosa che vorrei. «Pigliala» mi ordina mentre armeggia per rimettersi la cravatta. «Se capiscono che sei fatto è finita.» Straluna gli occhi. «Ma qui è forte, abbiamo una grande rete di contatti.»

Io sbanfo: «Grazie, Johnny... sei stato forte, capo».

«Ma figurati» fa lui.

Quando torniamo indietro Len-la-Frangia e Smilza Quattrocchi si sono lanciati nella loro tiritera, ma nessuno li ascolta per un cazzo, son tutti svaccati sulle loro sedie, e noi facciamo uguale. Staremo bene, qua. E ’sta qua è la mia gente: il popolo di St Monans.

Skagboys
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