Giornale di bordo: A proposito di Orgreave

Nemmeno la durezza da tavolaccio di questo vecchio divano rigido può impedire al mio corpo di scivolare nella liberazione. Mi ricorda gli studentati dell’Università di Aberdeen: steso al buio, crogiolandomi in una libertà esaltata dalla paura che si è raccolta a grumi nel mio petto come il catarro denso faceva nel suo. Perché qualunque cosa io senta fuori, stridori di auto sulle vie asfissiate delle case popolari che a volte spazzano coi fari questa vecchia stanza muffosa, ubriachi che sfidano il mondo o gli cantano la serenata, o gli strilli da accapponare la pelle dei gatti che si godono i loro piaceri tortuosi, so che non sentirò quel rumore.

Né tosse.

Né grida.

Né tonfi: tuf tuf tuf...

Nessuno di quei sospiri urgenti, tirati su, che, in base al livello di panico, puoi calcolare più o meno quanto sarà insonne la tua notte.

Soltanto il buio sonnacchioso, relativamente muto, e questo divano.

Niente. Tosse. Del cazzo.

Perché comincia sempre con un colpo di tosse. Uno solo. Dopo, quando vuoi che si metta tranquillo, è il tuo battito in accelerazione a dirti che nel subconscio aspettavi l’abbaio. Poi il secondo – il momento peggiore – quando la tua rabbia passa dall’origine della tosse a quelli che l’assistono.

Cazzo, e mollate ’sto colpo, coglioni.

Ma chiaramente senti il disturbo dai muri sottili come carta velina: un sospiro stanco, il clic secco dell’interruttore, i passi inquieti.

Poi le voci: tubanti e supplichevoli, prima che cominci quella procedura deprimente: il drenaggio posturale.

Tuf... tuf... tuf...

... tuf... tuf... tuf...

Il ritmo immondo delle manone di mio padre che picchiano sulla sua schiena sottile, ingobbita, con insistenza, perfino con violenza. Un rumore e un battito così diversi dai buffetti timidi di mia mamma. Il loro incoraggiamento attutito ed esasperato.

Preferivo che lo lasciavano all’ospedale. Via, fuori dai coglioni. In quella casa non ci torno più finché non è andato per sempre. È una tale meraviglia, che da questo rifugio puoi dimenticarti tutto e lasciare che la mente e il corpo si sciolgono nel sonno.

«Dai, piccolo! Su! Marsc’!»

Risveglio doloroso e rigido con la voce rauca di mio padre. È in piedi sopra di me, la fronte spessa tutta aggrottata, a torso nudo, il petto è una foresta di pelame biondo-grigio, lì che brandisce uno spazzolino da denti bianco. Ci metto tre secondi interi, e altrettanti battiti di ciglia, per ricordarmi che sto sul divano di mia nonna a Cardonald. Mi sono addormentato solo poche ore fa e sarebbe ancora buio pesto tranne che per la piccola lampada da tavolo che ha acceso lui, che spande per la stanza un bolso chiarore acquamarina. Però ha ragione, bisogna che andiamo: per pigliare il bus in St Enoch’s Square.

So che una volta che mi riprendo a muovere starò bene, anche se sono un pelo incasinato ECCAZZO CI SONO DACCAPO!

Io lo so che una volta che mi muovo starò bene, anche se sono un attimo sgarrupato e chiedo in prestito il ferro della nonna; solo per levare via le pieghe più brutte alla Fred Perry blu marina prima di infilarla sul mio corpo magro, bianco, colla pelle d’oca. Però il pa’ mica ne vuole sapere. «Scordatelo» mi fa agitando lo spazzolino, attraversando l’anticamera come un generale e andando in bagno, intanto che accende il lampadario. «Non è mica una sfilata di moda! Animo!»

A me non mi serve tanto incoraggiamento: l’adrenalina sta andando in circolo, mi dà la carica. Non esiste che questa me la perdo. Nonna Renton è lì a salutarci: piccola, la testa bianca nella sua vestaglia trapuntata, ma robusta che non perde mai un colpo, ci sbircia da sopra gli occhiali, con in mano il borsone da viaggio. Per un attimo ci guarda a bocca aperta, fa una specie di gesto e dopo inizia a stressare mio padre in anticamera. Sento la sua vocina a cantilena: «Che ora parte la corriera... dov’è che va... che ora arrivate là?»

«Ritorna... a... letto... mamma» farlocca mio papà colla bocca piena di spazzolino e saliva, intanto che io piglio l’occasione di mettermi i vestiti di corsa: camicia, jeans, calze, scarpe da ginnastica e giubbotto. Guardo sulla mensola le foto in cornice di mio nonno Renton. La nonna ha tirato fuori le quattro medaglie che s’era preso in guerra, compresa la Victoria Cross, che credo gliel’han data in Normandia. A lui non sarebbe piaciuto che le mettevano in mostra così: le teneva dentro a una vecchia scatola di tabacco e bisognava sempre pregarlo per farcele vedere. Onestamente, a me e a mio fratello Billy ci aveva detto subito che eran tutte cazzate. Che certi uomini coraggiosi di medaglie per il loro eroismo non ne avevano prese, mentre a certi tiraseghe li avevano decorati per niente. Mi ricordo una volta quando eravamo tutti in vacanza nella pensione giù a Blackpool, e io continuavo: «Ma tu sei stato coraggioso, eh, nonno, per correre su quella spiaggia là, devi esser stato coraggioso sì».

«C’avevo fifa, bambino» m’aveva risposto lui con la faccia scura. «Ma soprattutto c’avevo la rabbia, la rabbia di essere lì. Una rabbia... che volevo sfogarla su qualcuno e poi andare a casa.»

«Però, papà, quell’uomo là bisognava fermarlo» lo aveva implorato mio papà. «L’hai detto anche tu...»

«Lo so. Avevo la rabbia che lo han lasciato cominciare, punto primo.»

Le due foto di nonno R mostrano un sottile contrasto. In una è un ragazzotto sfacciato con la divisa che gli dà un aspetto serio, pronto per partire con passo da bulletto per un’avventura assieme ai suoi soci. Nella seconda, fatta più di recente, fa un sorriso profondo, ma diverso dall’altro sorriso presuntuoso. Non è proprio falso, ma sembra messo lì apposta e forzato.

Torna mia nonna, beccandomi davanti alle foto. Magari vede in me qualche cosa, nel profilo: un indizio del passato, perché mi viene di fianco, mi mette un braccio attorno alla vita e sussurra: «Fateli neri a quei bastardi, piccolo». La nonna profuma di buono ma di vecchio, tipo un sapone che non usa più nessuno. Quando arriva mio papà e stiamo per andar via, lei rincara: «Però non andare nei pericoli, e stai attento al mio bambino, qui», che sarebbe lui. Assurdo che lo vede ancora così, vecchio com’è, che ancora un po’ ne compie cinquanta!

«Su, bello, è arrivato il taxi» fa il pa’, forse un po’ in imbarazzo che lei è così agitata, mentre dalle tende guarda fuori in strada, prima di girarsi e baciare la nonna sulla fronte. Poi lei mi piglia la mano. «Sei il migliore di tutti, piccolo, il migliore di tutti quanti» mi confida sussurrando di volata. L’ha detto tutte le volte che l’ho vista da quando ero bamboccio. E mi sentivo un re, finché ho scoperto che lo diceva a tutti i suoi nipoti, e pure ai figli dei suoi vicini! Però sono sicuro che lì per lì ci crede.

Il migliore di tutti.

Molla la presa e passa il borsone a mio papà, raccomandandogli: «Non perdere il thermos che t’ho messo dentro, David Renton...»

«Sì, ma’, te l’ho detto che ci starò all’occhio» fa lui tutto timido, come se è ritornato un adolescente musone. Fa per andare, ma lei lo ferma. «Dimentichi qualcosa» gli fa, e va alla credenza e tira fuori tre bicchierini che riempie subito di whisky. Papà straluna gli occhi. «Ma’...»

Lei non lo ascolta. Solleva un bicchiere obbligandoci a fare lo stesso, anche se il whisky io lo odio ed è l’ultima cosa che ho voglia al mattino così presto. «Alla nostra, e chi c’è come noi? Pochi, diamine, e sono tutti morti!» gracchia la nonna.

Papà butta giù il suo in un botto solo. La nonna ha già fatto anche lei, come per osmosi, perché manco l’ho vista che si portava il bicchiere alle labbra. E io, per inghiottirlo, mi servono due sorsate che mi tornano su. «Dai, piccolo, che sei un Renton» mi sgrida lei.

Dopo mio papà mi fa segno e usciamo. «È una diavola di donna» dice con affetto mentre saliamo sul grosso taxi nero, che io ho lo stomaco in fiamme. La figurina di lei, in piedi sulla porta nella via buia, mi saluta e io rispondo colla mano, voglio che la vecchia pipistrella citrulla rientri dentro, al calduccio.

Glasgow. A scuola avevamo imparato a scriverlo colla frasetta Granny Likes A Small Glass of Whisky. Alla nonnina piace un bicchierino di whiskino.

C’è ancora buio pesto e Glasga fa paura alle quattro di mattina di un lunedì, mentre il taxi entra in città rombando e cigolando. C’è una tanfa, qua dentro: qualche merdoso la notte scorsa ha sboccato e si sente ancora l’odore. «Gesucristo.» Il vecchio si sventola la mano davanti al peperone. Mio padre è un uomo grosso, spalle larghe, mentre io come fisico ho preso da mia madre: secco e gambalunga. I suoi capelli si possono onestamente chiamare biondi (anche se adesso diventano grigi), al contrario dei miei che, anche se io cerco di camuffarli, fondamentalmente tirano al rossastro. Lui ha addosso un giubbotto marrone di velluto a coste, che devo dire è abbastanza figo, anche se è rovinato dal distintivo dei Glasgow Rangers FC appuntato al bavero vicino a quello del sindacato dei metalmeccanici, e tanfa leggermente di Blue Stratos.

Il bus ci aspetta nella piazza vuota dietro Argyle Street. C’è un etilico che tormenta un po’ di picchettanti chiedendo moneta, continua a allontanarsi barcollando nella notte per poi tornare e riprendere sempre la stessa solfa. Salgo sul bus per levarmi dalle palle il rompicazzo. Lo stronzo mi fa schifo: non ha dignità, non ha idee politiche. Rotea gli occhi da sconvolto e quelle labbra gommose arricciate sulla faccia violacea. Il sistema lo ha macellato per bene, e tutto quello che può fare come parassita è cercare lo scrocco da gente che ha i coglioni per lottare. Sento me stesso sputare: «Mezza sega».

«Non giudicare troppo in fretta, bambino.» La parlata di mio pa’ è glasvegianizzata: gli basta scendere in Queen Street dal treno di Edimburgo, e tac. «Te mica la conosci la storia di quel ragazzo lì.»

Io sto zitto, ma la storia di quel marcione non la voglio sapere. Sul bus mi siedo di fianco a pa’ e un paio dei suoi vecchi soci dei cantieri navali di Govan. È bello, perché era da un po’ che non mi sentivo così attaccato a lui. Sembra una vita che non avevamo fatto qualcosa assieme, noi due e basta. Però lui è abbastanza muto e pensieroso, probabile ch’è in ansia per mio fratello più piccolo, il nostro Davie, che lo riportano all’ospedale.

C’è un sacco di beveraggio sul bus, ma nessuno ha il permesso di toccarlo finché torniamo indietro, ché lì festeggeremo per avere fermato quei camion crumiri del cazzo! Da mangiare però ce ne sta a fottere: nonna Renton ha preparato un mega di tramezzini colla pagnotta bianca, spugnosa: formaggio e pomodoro e prosciutto e pomodoro, manco dovessimo andare a un funerale.

Sì, però sul bus sembra più una partita di fùtbal che una processione al cimitero o a far picchetti: c’è una atmo della serie finale di coppa, con tutti gli striscioni appesi ai finestrini. Metà della gente sul nostro bus sono minatori in sciopero, dei pozzi dello Ayrshire, del Lancashire, dei Lothian e del Fife; l’altra metà, sindacalisti come il vecchio e compagni di viaggio assortiti come me. Stato troppo contento quando pa’ mi ha detto che mi aveva trovato un posto; i capetti dell’università saranno gelosi come troie che son stato su uno dei bus ufficiali del sindacato nazionale miniere!

Il bus non è tanto fuori da Glasga che la notte sparisce in un bellissimo cielo d’estate azzurro-verdino di mattina presto. Anche se è di buon’ora, in strada c’è qualche macchina, qualcuna ci suona il clacson come sostegno allo sciopero.

Almeno riesco a chiacchierare un po’ con Andy, che è il miglior amico di mio pa’. È uno in gambissima, un glasvegiano pelle e muscoli, ex saldatore e delegato sindacale a vita: sopra la sua faccia ossuta è stesa questa pelle trasparente, giallo-nicotina. «Allora, Mark, è vero che a settembre riparti coll’università?»

«Vero, ma il mese prossimo andiamo via in un tot a fare un giro per l’Europa coll’InterRail, sai? Ho ripreso a lavorare al fish & chips, per cercare di mettere assieme un po’ di grano.»

«Vero, bella la vita quando si è giovani. Tu dammi retta, cerca di cavarci fuori il massimo. Ce l’hai una ragazza, all’università?»

Prima che posso rispondere, a mio papà si drizzano le orecchie. «Meglio non avercela, o quella piccola Hazel, là, diventa matta. È un gioiello di donnino» fa a Andy e poi si volta verso di me e fa: «Cosa fa di lavoro, mi avevi detto, Mark?»

«Vetrine di negozi. Cioè, da Binns nel West End, il grande magazzino.»

Sul muso di mio pa’ si spande un sorrisone soddisfatto tipo coccodrillo. Se lo stronzo sapesse com’era la mia storia con Hazel, gli scapperebbe la voglia di menarla giorno e notte su di lei. Una terribile Ma questa è un’altra faccenda. Il vecchio è semplicemente esaltato di vedermi con una ragazza, che per anni c’ha avuto paura che fossi un potenziale invertito per via dei miei gusti musicali. Ho avuto una pubertà aggressivamente glam-rock, e da adolescente ero punk. E poi c’è stata la volta che il nostro Billy mi ha visto mentre tiravo una se

Altra faccenda.

Ce la stiamo godendo e tutto è ancora un mito quando passiamo il confine con l’Inghilterra, ma come si arriva vicino allo Yorkshire, e sulle strade secondarie, le cose diventano un attimo assurde. C’è polìs dappertutto. Ma invece che fermare il bus ogni due metri per nessun motivo, come ci aspettavamo, ci fanno segno di andare avanti, circolare. Addirittura ci spiegano la strada, e come si arriva al villaggio. «Cazzo vuol dire ’sta roba qui?» grida un ragazzo. «Dove sono i soliti blocchi? E perché non ci prendono a calci?»

«Saranno poliziotti di quartiere» ride un altro tipo.

Mio pa’ guarda una fila di sbirri sorridenti, uno che ci saluta con la mano c’ha un ghigno da un’orecchia all’altra. «’Sta roba non mi piace. Non va bene.»

«Basta che non ci impediscono di rimandare indietro quei crumiri» dico io.

«Te stai tranquillo» mi avvisa borbottando, poi aggrotta la fronte. «Chi è questo socio che ti devi vedere?»

«Solo uno dei ragazzi di Londra, che stavamo nella casa occupata di Shepherd’s Bush. Nicksy. È apposto.»

«Un altro di quei punk senza sugo, ci scommetto!»

«Non so che musica ascolta adesso» gli rispondo, un po’ scocciato. Delle volte è proprio un vecchio cazzone rinco.

«Il punk rock...» lui ride coi suoi soci «... un’altra di quelle mode che si è stufato. Qual è l’ultima, adesso... quel night soul? Andare giù al Bolton Casino a bere coche!»

«È il Wigan Casino.»

«Sai che differenza. Dev’essere una serata da urlo! Latte di succo...»

Andy e altri ragazzi lo spalleggiano e io mi becco la lavata perché è inutile mettersi a discutere di sound con dei vecchi cazzari morti di sonno. Mi vien voglia di dirgli che Elvis e Lennon sono cibo per vermi, per mandarli affanculo, ma no, l’atmo è mitica sul bus e, come dico, è inutile discutere.

Alla fine, con l’aiuto della polìs, entriamo nel villaggio e parcheggiamo il pullman nella via principale, in fila con gli altri. Assurdo, perché è prestissimo e il sole si sta ancora riscaldando intanto che arriva ancora altra gente. Il vecchio si attacca a un telefono pubblico e dalla faccia capisco il tenore della conversazione. Cattive notizie.

«Tutto bene?»

«Sì...» fa lui, ma poi scuote la testa. «Tua madre dice che il piccolo ha passato una brutta notte. Han dovuto dargli l’ossigeno eccetera.»

«Va... bene. Sono sicuro che ora si rimette» gli rispondo. «Sono gente che lo sa, il fatto suo.»

Cazzo. Anche qua lo stronzetto deve rovinar tutto...

Pa’ dice qualcosa che non avrebbe dovuto lasciare il Piccolo Davie, perché mamma non lo sa fare bene il drenaggio posturale, e ha paura che le infermiere dell’ospedale c’hanno troppo da fare per dedicargli abbastanza tempo. Scrolla la testa, con una smorfia di dolore in ghigna. «Non può permettersi che quel fluido gli si accumula nei polmoni...»

Io non posso stare a sentire ’ste merdate per la centesima volta. Siamo nello Yorkshire e le vibra sono ancora magiche, ma è come trasformare la sensazione della finale di coppa in una specie di festival pop. Sono tutti gasati mentre marciamo verso il campo dove si ammassano i picchettanti. Mio papà diventa più allegro e si mette a parlare con questo ragazzo dello Yorkshire, poi scambia il distintivo dei metalmeccanici con quello del tizio, del sindacato minatori, se lo appuntano l’uno al petto dell’altro tutti fieri come se fosse una medaglia.

Vediamo che gli sbirri si riuniscono davanti a queste barriere che han tirato su. Ce n’è a fottere, ’azzo. Vedo gli stronzi in camicia bianca della pula metropolitana: un ragazzo sul bus diceva che non vogliono usare troppi polìs dello Yorkshire in prima linea, han paura che non sanno da che parte stare. Dalla nostra ci sono striscioni di tutti i sindacati e i gruppi politici che ho sentito nominare che partecipano alla manifestazione. Però io inizio a essere nervoso. C’è ancora più polìs in giro. Per ogni carico di picchettanti che gonfia le nostre file, le forze della polìs sembrano aumentare altrettanto, e anche un po’ di più. Andy dà sfogo al senso di preoccupazione sempre più forte che c’è nell’aria. «Si preparavano per questo da anni, da quando i minatori han fatto fuori Heath.»

Non puoi confonderlo, lo stabilimento che intendiamo picchettare: è dominato da due enormi ciminiere falliche che svettano da una serie di costruzioni industriali vittoriane. C’ha un’aria minacciosa, ma i polìs ci hanno intruppato tutti dentro questo grande campo sul lato nord. Poi cala un silenzio improvviso, mentre gli slogan si smorzano: guardo lo stabilimento e sembra un po’ Auschwitz, e per un attimo mi viene l’idea nauseante che ci faranno entrare come bestiame, tipo che dentro ci sono i forni e il gas, perché c’è più polìs che picchettanti, ma adesso si sono schierati su tre lati attorno a noi, e siam tagliati fuori dal quarto perimetro per via di questo binario del treno. «’Stardi, li sanno i cazzi loro, qua...» Andy scrolla la testa con tristezza. «Ci han portati qua loro. Succederà qualcosa!»

Sento che non si sbaglia, perché davanti ci saranno un cinquanta polìs a cavallo, e anche un bel po’ coi cani. Si capisce che scherzano poco, perché non c’era un’agente donna in vista. «Te stai vicino a noi» fa mio papà, occhiando con sospetto un gruppo di ragazzi piazzatissimi con l’accento dello Yorkshire e l’aria di voler menare le mani.

All’improvviso un tuono di un applauso si propaga nella folla quando appare Arthur Scargill salutato come una rockstar, e si alza lo slogan «I minatori vinceranno». I suoi capelli tirati col pettine si agitano al venticello, e lui si mette questo berretto da baseball americano.

«Dicono che qua c’è un sacco d’infiltrati dei servizi» sta dicendo a Andy questo tizio che si chiama Cammy del nostro bus, mentre ci stringiamo in avanti per intravedere Scargill.

Discorso che a me non mi è stato bene, perché preferivo pensare agli stronzi di agenti segreti britannici come dei tipi alla Sean Connery, tutti fighi collo smoking a Montecarlo, non poveri coglioni che vengono a usmare nei villaggi minerari dello Yorkshire fingendosi minatori per fare la spia agli altri operai. Scargill ha il megafono e si lancia in uno dei suoi rinomati discorsi trascinanti che mi fa venire i brividi al coppino. Parla dei diritti dei lavoratori, conquistati con anni di lotte, e che se ci negano il diritto a scioperare e organizzarci, allora non siamo meglio degli schiavi. Le sue parole sono come una droga, le senti che passano per i corpi attorno a te: fanno bagnare gli occhi, raddrizzano le schiene e rafforzano i cuori. Quando finisce lanciando il pugno in aria, il grido «I minatori vinceranno» arriva al cielo.

I leader dei minatori, tra cui Scargill, si son messi a discutere coi capi polìs, dicendogli che non abbiamo intenzione di restare dove cazzo dovremmo, perché dobbiamo picchettare come si deve, mentre siamo bloccati in questo campo che è troppo lontano dallo stabilimento. «Tanto valeva vederci a Leeds, cazzo» gli grida un tipo grosso col giubbotto di lana a uno sbirro colle basette che sembrano braciole in completa tenuta antisommossa. «Siete dei cessi, cazzo!»

Lo stronzo resta impassibile, guardando avanti come una guardia di Buckingham Palace. Ma l’umore cambia ancora di botto, sembra che la tensione si scioglie perché calciano un fùtbal tra la folla e un po’ di noi iniziamo una partita usando come pali i caschi dei minatori. Mi viene un attacco di euforia quando vedo quello stronzetto cockney facciadimerda, Nicksy: ha lui la palla e se la tira tutta, fa il bullo, così intervengo io su di lui, di brutto con una scivolata a due piedi, ma sporca. «Piglia su, inglese bastardo» sto dicendogli mentre va giù, dopo salta su gridando: «Cazzo sei, uno dei servizi o cosa, scozia di merda?»

I ragazzi attorno a noi smettono di giocare, tipo aspettando la resa dei conti, ma noi invece attacchiamo a ghignare.

«Come butta, Mark?» mi chiede Nicksy. È un piccoletto magro, con due occhi mobili, la frangia molle e il naso a becco, assomiglia e si muove come un pugile dei pesi leggeri, strascina i piedi e fa il gallo. Ce n’ha di energia, cazzo.

«Vabbe’, socio» dico io guardando le file della polìs. «Però oggi qua è spessa, eh?»

«Cazzo, sì. Sono arrivato a Manchester in treno venerdì e stamattina ho beccato un passaggio fin qua. Sembrava un formicaio di sbirraglia, cazzo.» Fa segno ai poliziotti. «Certi di questi boia li hanno addestrati in nuove tattiche antisommossa dopo Toxteth e Brixton. Loro lo vogliono, cazzo.» Si gira di scatto verso di me. «Tu con chi sei qua, amico?»

«Col mio vecchio. Venuti giù sul bus del sindacato scozzese» gli spiego mentre la palla ci vola sopra le teste e facciamo un tentativo un po’ scazzato di rimetterci a giocare. Però man mano che aumentano i giocatori delle due squadre, la tensione ricomincia a montare. La gente smette di inseguire la palla, perché qualcuno grida che fra poco arriveranno i camion dei crumiri, e siamo troppo lontani dalla strada per fermarli. Un po’ di ragazzi fanno brigata e attaccano a tirare sassi ai polìs, che reagiscono mandando avanti un cordone di sbirri cogli scudi lunghi davanti a quelli equipaggiati normale. Si alza un urrà quando un polìs si becca una sana botta sul muso con un pezzo di mattone. Mi vien la nausea alla bocca dello stomaco, ma ho dentro un’elettricità che è più forte perché si propaga un boato che sono arrivati i camion dei crumiri che vengono a prendere il carbone del cazzo dallo stabilimento!

Tutti si lanciano avanti per cercare di sfondare le linee della polìs, cazzo, e io mi trovo spinto in mezzo al casino, le braccia incollate ai fianchi per un minuto da paura e perdo Nicksy e nel panico mi sto chiedendo dov’è mio papà, che mi ricordo all’improvviso cosa ha detto nonna Renton. Si apre uno spazio e io mi c’infilo, poi la pula a cavallo ci carica e corriamo tutti indietro come coglioni. Sembra tipo una rissa del fùtbal, ma qui hanno fatto spazio per far passare i camion e noi sbrocchiamo, cazzo! Io sto gridando dritto in faccia a un giovane polìs, c’avrà la mia età: «CHE COSA CAZZO FATE, CRUMIRI NAZISTI DIMMERDA?»

C’è un altro scatto avanti, ma quando i polìs a cavallo caricano un’altra volta tutte le file di polìs gli van dietro. Volano sassi in aria contro gli stronzi e uno sbirro ci avvisa dagli altoparlanti che se non andiamo indietro cento metri ci verranno addosso in assetto antisommossa. Li vediamo che si preparano, coi loro elmetti, gli scudi corti e i manganelli.

«È una vergogna» dice un vecchio minatore dello Yorkshire cogli occhi che gli scottano di rabbia, «in questo paese qui non si mandano le squadre antisommossa contro ai picchetti!»

«Quegli scudi piccoli del cazzo...» grida un altro «... sono per picchiare, mica per difendersi, cazzo!»

Il soggetto l’ha detta giusta, perché quando noi restiamo sul posto i bastardi vengono alla carica e cazzo, è sbroccamento totale. Maggior parte della gente è vestita normale, un po’ hanno dei giubbotti di lana spessa, però nessuno è armato per difendersi e quando la polìs attacca agitando i bastoni tra gli scioperanti il panico dilaga e scoppia il casino. Io mi becco una botta sulla schiena, poi sul braccio, che mi fa sentir male, poi un colpo alla tempia. Le manganellate sono diverse dal pugno o dal calcio, senti che ti fanno danni sotto la pelle, ma l’adrenalina è il migliore anestetico, e quando rispondo, tirando una pedata contro uno scudo...

INUTILE, CAZZO.

Cazzo, non è giusto... non è giusto, cazzo... il mio scudo dov’è?... dove cazzo è il mio bastone, stronzi pezzi di merda?... cazzo no non è giusto...

Tiro pugni e pedate contro il perspex, cercando di romperlo, però inutile, cazzo. Ma ’fanculo; mi volto e corro nello spazio aperto centrando di brutto uno sbirro da dietro, uno stronzo che mi aveva sorpassato inseguendo uno scioperante. Questo inciampa, sembra che deve andare giù ma mantiene l’equilibrio e continua a correre dietro al tizio ignorandomi del tutto. Vedo un ragazzo a terra che viene smerdato di botte da tre sbirri. Sono piegati su di lui che lo macellano a bastonate. Una ragazza che avrà la mia età coi capelli lunghi e neri sta gridando con loro, li sta pregando: «Che cosa fate?»

Uno degli sbirri le dà della puttana da minatori e la spintona. Lei inciampa e cade sulla schiena e vien tirata su da questo tizio più vecchio che per il disturbo si becca una manganellata sulla spalla. È tutto un gridare e cacciar urli, cazzo, e io sono qua in piedi, paralizzato fra pensiero e azione, proprio ingolfato, e un polìs più vecchio mi guarda, dà un occhio al più giovane e poi mi abbaia dritto sulla faccia: «VAI FUORI DAI COGLIONI SUBITO, SE NO CE LA LASCI, CAZZO!»

La sua preoccupazione mi mette più scaga della minaccia: mi ritrovo a allontanarmi, aprendomi la strada nella folla confusa, che gridano tutti, cercando mio pa’ e Andy, o anche Nicksy. Dappertutto che ti giri è un manicomio: un gigante scemo con i capelloni e il giubbotto tipo Hell’s Angels sta spaccando le chiappe a uno sbirro; anche se il porco c’ha lo scudo corto e il manganello, il grosso è troppo potente e lo mazzuola coi suoi pugni enormi, allo stronzo coglione. C’è uno che barcolla in giro con il sangue che gli cola dalla testa come se non riuscisse a vedere niente. Sento un tonfo da vomito nella schiena e le budella che mi vengono su, ma resisto e mi volto e vedo uno sbirro con il panico in faccia e scudo e bastone che si fa indietro come se io fossi una minaccia per lui. Va tutto al ralenti adesso e mi sento il batticuore dall’ansia per il vecchio, ma nello stesso tempo il casino mi esalta, mi pompa alla stracazzo. Fortuna che la polìs si ritira e i picchetti bastonati si riformano e andiamo avanti dopo aver raccolto dei sassi ai lati del campo. Io ne piglio uno grosso ragionando che questi tuonati non fanno prigionieri e ho bisogno di una specie di arma, cazzo. Ma quello che voglio davvero, adesso, è trovare mio pa’.

Eccheccazzo...

All’improvviso squarciano l’aria questi muggiti di rabbia da brucio, le voci della gente sono così disperate che per un attimo penso che la polìs ci abbia spruzzato ammoniaca o non so cosa negli occhi; invece sono i camion dei crumiri: stanno iniziando a andar via dallo stabilimento pieni di carbone. Un’altra spinta, ma la pula ci respinge e Scargill si piazza davanti alle file dei polìs gridando nel megafono, ma non capisco cosa dice, sembrano gli annunci ai viaggiatori delle stazioni del treno. I camion dei crumiri si allontanano mentre i buuu e gli insulti scendono di volume e la voglia di lottare si drena via da tutti. Sento una cosa dura e orrenda che mi si congela nel petto e sto pensando, fine della partita, e continuo a cercare mio papà.

Per favore fa’ che stia bene dio protestante dio papista dio musulmano dio ebreo dio buddista o qualsiasi dio per favore fate che stia bene...

Un po’ di picchettanti escono dal campo verso il villaggio con i loro compagni feriti, ma altri si mettono sdraiati al sole con un’aria talmente da relax da non credere che appena qualche minuto fa sono stati presi in un tafferuglio di massa. Io non sono così: c’ho i denti che sbattono e tremo come se dentro di me ci fosse un motore minuscolo. Per la prima volta sento dove sono stato colpito, la testa mi pulsa forte e anche la schiena e il braccio che mi penzola lungo il fianco sembra morto.

CAZZO...

Mi sento quello che sembra mio pa’: ansioso. Quello che sembra adesso, non nelle foto quando era più giovane. Mi ricordo una volta che gliel’ho chiesto, come mai in quel periodo sembrava sempre in ansia.

«Per i figli» mi aveva risposto.

FA’ CHE STIA BENE!

Sono pronto a tornare al villaggio per beccare il bus: credevo che il vecchio e Andy sarebbero andati là, ma ecco, adesso vedo le squadre antisommossa della polìs avanzare verso di noi tamburellando sugli scudi coi manganelli. Non posso crederci, perché la partita è chiusa, quei camion del cazzo sono andati! Ma cazzo, questi ci caricano e noi siamo disarmati e molti meno di loro, e io penso: questi stronzi ci vogliono proprio morti, e la sola cosa da fare è filare come una scora e sgambettare giù dalla scarpata fino ai binari. Ogni passo è una pugnalata per la schiena, cazzo. Mi si impiglia il giubbotto su un cancello e lo sento che si strappa. Sul binario di fianco a me c’è un vecchio bestione colla faccia rossa che zoppica e sbanfa con questo accento del Nord dell’Inghilterra: «Ma qui... ma qui... cazzo, ci vogliono ammazzare!»

Dove cazzo è mio pa’?

Attraversiamo i binari e aiuto il vecchio a arrampicarsi sull’altra scarpata. Lui ha una gamba a culo, ma io ho la schiena che mi dà il tormento ed è una lotta perché anche il braccio è inculato totale eccetera. Il tizio è scioccato, mi fa la litania nelle orecchie. Mi suonava del Nord, ma poi mi dice che si chiama Ben e in realtà è un minatore scioperante di Nottingham. Si è preso una bella legna sulla rotula.

Io adesso al posto del dolore ho una nausea che mi sale dal fondo della pancia. Perché dall’altra parte dei binari siamo testimoni di questa carneficina tremenda: i picchettanti che sono rimasti lì vengono pestati come bistecche e portati via dalla polìs, certi hanno due coglioni così e nonostante tutto continuano a reagire. Un ragazzo in camicia rossa da boscaiolo, in ginocchio che aiuta il suo socio al tappeto, si becca un colpo al cranio da dietro da un antisommossa e crolla addosso al suo amico. Sembra un’esecuzione. Al cavalcavia un po’ di picchettanti hanno preso della roba da uno sfasciacarrozze e la lanciano contro alla polìs. Un po’ di ragazzi hanno trascinato una macchina fuori da lì e l’han messa di traverso alla strada e gli hanno dato fuoco. Questo non è più ordine pubblico o contenimento, questa è guerra contro i civili.

Guerra.

Vincitori. Sconfitti. Perdite.

Lascio lì Ben e torno indietro sulla strada e tiro il fiato perché vedo mio padre. È assieme a questo tizio con un’aria assurda: sembra che ha addosso il cappuccio di Batman. Vado vicino e capisco che è tutto rosso-nero di sangue, che gli copre la faccia al punto che gli vedo solo il bianco degli occhi e dei denti. Resto stravolto quando mi rendo conto che è Andy. Gli hanno randellato la testa di brutto. I polìs avanzano ancora e metà ci inseguono, metà ci intruppano verso il villaggio. Saliamo sul pullman e molti dei ragazzi sembrano inculati non poco. Mio pa’ ha un taglio alla mano, dice per via di una bottiglia rotta lanciata fiondata da un picchetto ma troppo corta. Andy è malmesso e ha bisogno di cure, ma uno stronzo polìs di scorta ci fa che tutti quelli che si fermano in un ospedale saranno passibili di arresto e che dobbiamo andare a casa e basta. Facce arroganti, piene di odio: così diverse dalle ghigne radiose che ci hanno accolto quando siamo arrivati.

Ci han fregato, i bastardi.

Non c’è motivo di non credergli allo sbirro, però voglio scendere e andare a vedere se Nicksy sta bene. «Il mio socio» dico al vecchio, ma lui scrolla la testa e fa: «Non se ne parla. L’autista ha chiuso la portiera e non la apre per nessun motivo».

Il bus comincia a muoversi e Andy ha la camicia di qualcun altro legata attorno alla testa per tamponare il sangue. Mio papà è seduto che gli tiene un braccio attorno alle spalle, ha la mano bendata provvisoria e intanto il povero Andy mormora: «Mai visto una roba simile, Davie... non ci posso credere...»

Io sono qui seduto col fondoschiena che mi pizzica sul sedile e mi chiedo da dove cominci tutta questa storia: il capo della polizia, il ministro degli Interni, la Thatcher... che abbiano dato l’ordine o no, son stati complici. Le leggi antisindacato e i mega aumenti di stipendio per i polìs, quando per tutti gli altri del pubblico impiego ci sono tagli ai quattrini e alle condizioni di lavoro... gli stronzi gli hanno dato la carica per farci questo...

Sul bus, mentre imbocca l’autostrada, sembra di stare all’obitorio. L’alcol comincia a girare, si beve ancora più di brutto per la rabbia, e alla fine fa effetto, gli slogan di sfida «I minatori vinceranno» prendono forza e convinzione. Ma a me non sembra un momento di gloria. Mi sembra che siamo stati imbrogliati, come quando torni da Hampden Park e all’ultimo minuto l’arbitro ha dato un rigore assurdo ai Celtic o ai Rangers. Fuori fa veramente caldo, ma il bus aveva accesa l’aria fredda e qua dentro si gela. Sono seduto colla testa piantata nel finestrino, guardo il mio fiato farci la condensa. Adesso mi fa male veramente, il braccio soprattutto, e ogni inspiro è come un pugno nella cazzo di spina dorsale.

Questi ragazzi in fondo al pullman attaccano a battere i piedi e a cantare queste ballate repubblicane irlandesi di lotta, poi dentro per dentro ci mettono anche un paio di slogan pro-IRA. Di lì a poco sbraitano solo e soltanto ballate repubblicane irlandesi.

Il mio vecchio scatta in piedi puntandogli contro il dito accusatore, la mano che gli sanguina dallo straccio legato attorno. «BASTA CANTARE QUESTA MERDA, PORCI DI TERRORISTI MALCAGATI DELL’IRA! QUESTA NON È UNA CANZONE SOCIALISTA, NON È DEI SINDACATI, SPURGHI FENIANI DI MERDA!»

Un soggettino magro si alza e inizia a gridargli contro: «VAFFANCULO, BASTARDO DI UN TORY DI UN PROTESTANTE UNNO DEL CAZZO!»

«IO NON SONO TORY, CAZZO... PEZZO DI MERDA...»

E il mio vecchio parte come un toro verso la coda del bus e io gli corro dietro e lo acchiappo e lo tengo per un braccio con il mio buono. Siamo alti uguali, ma io sono molto più smilzo e ho culo che anche Cammy si alza e mi dà una mano a trattenere il vecchio matto. Mio padre e gli stronzi in fondo si stanno urlando contro, ma gli dicono statevi calmi e io e Cammy lo tiriamo via mentre una fitta di dolore atroce mi parte nella schiena facendomi lacrimare gli occhi mentre il pullman sobbalza imboccando una rampa.

Glasvegia di ’sto cazzo, qualunque cosa fanno devon tirarci dentro i loro cazzi di fùtbal e d’Irlanda...

Lo facciamo mettere seduto e, a dirla tutta, arriva subito uno dei tuonati a chiedere scusa. E anche quello magro, uno stronzo praticamente senza mento e con dei dentoni irregolari. «Scusa per prima, omone... c’hai ragione, canzone sbagliata, posto sbagliato...»

Mio padre accetta le scuse facendo sì colla testa mentre il tizio gli passa una bottiglia di Grouse. Il vecchio le dà un ciucciotto di pace e poi, all’invito colla ghigna da castoro, me lo passa, ma io faccio segno di no. Che m’inculino se piglio una roba da bere da ’sti stronzi, figurarsi quella merda.

«Ma no, è roba che capita, qua le emozioni vanno un po’ alle stelle» fa mio padre con un cenno a Andy, che sembra rincoglionito, come uno sotto choc.

Poi iniziano a parlare dei fatti del giorno, e poco dopo hanno le braccia attorno alle spalle come due amici per la pelle. Che io, cazzo, mi viene la nausea. Se c’è una cosa ancora più schifosa degli stronzi settari quando si pigliano per il collo, è quando iniziano a fare comunella. Sì, ma con questa cazzo di schiena non ce la faccio a star seduto qui. Fuori lumo i segnali stradali per Manchester e non capisco tanto bene cazzo sto facendo, forse sto pensando un po’ a Nicksy, e mi alzo. «Pa’, io scendo qui.»

Il vecchio resta smerdato. «Che cosa? Te vieni a casa con me...»

«Cosa ti salta di scendere dal bus qui, socio?» interviene inopportunamente il suo nuovo comparuccio del cuore con il muso da topo, ma io ignoro lo stronzo con decisione.

«No» dico a mio pa’, «ma ero d’accordo con dei miei amici che ci vedevamo al Wigan Casino.» Balla. È il mezzogiorno di un cazzoso lunedì e il Wigan ha chiuso da qualche anno, però è l’unica scusa che mi viene in mente.

«Ma tua nonna ti aspetta a casa a Cardonald... che dopo abbiamo da pigliare il treno per Edimburgo... hai tuo fratello all’ospedale, Mark, tua mamma c’avrà un patema...» Il vecchio mi sta pregando.

«Vado» gli dico, e parto verso il davanti e dico all’autista di fermarsi vicino al cordolo. Mi guarda come se fossi un balordo, ma i freni pneumatici fischiano e salto giù dal pullman, con uno scatto di dolore nella schiena. Guardo indietro, l’espressione incredula sulla faccia di mio papà mentre il bus si allontana perdendosi nel traffico. Mi viene in mente che non c’ho un cazzo d’idea di cosa sto facendo qui, camminando di fianco all’autostrada. Ma se mi muovo la schiena va meglio: dovevo solo togliermi da quei cazzi.

Il sole pesta forte e la puttana s’è ancora caldo, proprio un bellissimo giorno d’estate. Le auto mi sfilano come frecce dirette al Nord, mentre io mi strappo dal giubbotto di jeans l’adesivo CARBONE NON DISOCCUPAZIONE. Lo strappo sulla manica non è grave: si può cucire senza problemi. Alzo il braccio allungandolo nonostante il dolore continuo nella spalla. Salgo il terrapieno fino a un cavalcavia e dal guardrail osservo le macchine e i camion che corrono sotto di me. Sto pensando che abbiamo perso, e che abbiamo davanti tempi brutti, e mi chiedo: che cazzo ci farò col resto della mia vita?

Skagboys
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