39.
«Purtroppo la situazione è precipitata.»
Milan se lo sentì ripetere almeno tre volte,
prima di mostrare di aver capito quanto gli era stato detto. Aveva
ancora indosso l’abito da cerimonia, con il nodo elegante alla
cravatta che gli aveva fatto Dafne e un bicchiere di caffè ormai
freddo stretto nella mano, ma davanti al responso dell’oncologa si
era sentito un libro cui erano state appena strappate le pagine,
lasciate alla mercé del vento; il suo destino, la vita intera, era
affidata al capriccio delle correnti.
Ventiquattr’ore erano volate, seduto su una
sedia di plastica azzurra. Aveva assistito al cambio delle
infermiere, al viavai dei medici e dei portantini, sacche di
medicine e carrelli con il vitto che emanava lo stesso odore del
disinfettante. Una giornata intera su una sedia a contare le parole
che non aveva detto, a rifare la strada tutta daccapo per capire
dove aveva sbagliato, dove avrebbe potuto fare meglio, mentre un
uomo accanto a lui gli offriva il telefono per chiamare casa. Sul
volto la stessa espressione stravolta, la stessa cravatta allentata
e lo stesso pessimo caffè del distributore automatico accanto,
bevuto per metà.
«Per avvertire i suoi figli», gli aveva detto
quando aveva visto Milan fissare il cellulare inebetito, prima di
ricordare che anche lui era il padre di una bellissima bambina,
Marie-Hélène, con i capelli biondi della madre e quei due occhi che
ogni volta lo lasciavano senza fiato, e che sembravano capaci di
leggere nella pelle della gente. Approfittò dell’offerta dell’uomo
per avvisare Clelia e Mario della situazione, ma quando la donna si
presentò con sua figlia al seguito lui barcollò.
«Non c’è stato modo di convincerla a restare a
casa con Mario, dopo la tua chiamata», tagliò corto Clelia mentre
Marie-Hélène volava verso di lui, in cerca di rassicurazioni. Col
viso premuto contro il suo petto gli chiese ripetutamente come
stesse Dafne, e ripetutamente Milan mentì.
La verità, però, era tutta nello sguardo che
scambiò con Clelia, crollata sulla sedia a fissarlo
disarmata.
Da lì l’attesa estenuante, seduti dall’altra
parte di una porta che fungeva da confine, orizzonte tra le due
facce dell’esistenza.
Milan vide Clelia uscire con Marie-Hélène e
tornare poco dopo con il sacchetto del pranzo appeso al braccio, e
la sera riprendere la strada di casa per una doccia. Si offrì più
volte di dargli il cambio, il necessario per riposare qualche ora,
ma lui non volle nemmeno sentirsi dire di andare a casa. La sola
idea di perdere la possibilità di vederla, di ascoltare dalla viva
voce della dottoressa che Dafne stava meglio o che era vigile, era
intollerabile.
«Andate voi, io resto», disse salutando Clelia
e la bambina sulla porta.
«Milan, vieni via anche tu. Sei distrutto, e
non c’è molto che possiamo fare qui. Ci chiameranno, se dovesse
succedere qualcosa», insistette Clelia, ma lui reagì nel suo solito
modo, facendo spallucce.
«Lo so, ma preferisco restare. Tu però vai:
hai bisogno di riposare, sai che devi riguardarti.»
«Resto io con papa», si offrì Marie-Hélène tirando la gonna di
Clelia per attirarne l’attenzione. «Così non deve stare da solo e
tu puoi andare a casa a dormire.» Si stropicciò gli occhi, le
orecchie del coniglio di pezza che portava ovunque quasi toccavano
il pavimento, talmente era lenta la sua presa.
«Porta anche lei, con te.»
«No!» protestò la piccola, voltandosi verso il
padre. Negli occhi la paura di un’altra partenza, mentre le braccia
si stringevano intorno al peluche. «Farò la brava, lo
prometto.»
Milan le accarezzò la testa, e si inginocchiò
facendole segno di avvicinarsi. «Non puoi restare qui.»
«Ma io voglio restare!» protestò sull’orlo del
pianto, i piccoli pugni che fendevano l’aria e le guance incendiate
dal dispiacere, mentre una ciocca di capelli le scendeva sulla
fronte a coprirle la visuale.
Milan gliela sistemò dietro l’orecchio, negli
occhi la ferita di un gesto che aveva visto ripetere tante volte da
Dafne, mentre si sforzava di sorriderle. La mano scivolò via
nell’eco di un momento che temeva di aver perso, mentre gli occhi
di sua figlia continuavano a fissarlo. Si sfregò la fronte, la
mente a caccia di un’idea, e il viso tirato di Clelia che
conversava con il familiare di un altro paziente gli fornì lo
spunto perfetto. «Non puoi restare con me, e sai perché?» disse
alla figlia, che scosse la testa. «Perché ho bisogno del tuo
aiuto.»
«Aiuto per che cosa?» replicò Marie-Hélène,
sospettosa.
Milan le fece segno di avvicinarsi ancora di
un passo. «Per prenderti cura della nonna, guardala», disse
invitandola a voltarsi proprio nel momento in cui un eccesso di
tosse obbligò Clelia a sedersi. «È ancora molto debole, e ho
bisogno che tu la tenga d’occhio. Faresti questo per me?»
La bambina ci rifletté su, indecisa, e
acconsentì. «Va bene», disse voltandosi verso Clelia, «ma tu tieni
questo fino a quando non torno. Poirot è buonissimo, vedrai», gli
assicurò sistemandogli fra le braccia il suo peluche.
Milan sorrise, accarezzando il coniglio di
pezza della figlia: aveva un paio di bottoni spaiati al posto degli
occhi e una toppa rosa acceso sulla pancia. Era uno di quei pupazzi
che si trovano presso i rigattieri, una parola che subito gli
ricordò Dafne e le loro uscite domenicali. Non erano state
abbastanza, e seduto su quella sedia, solo con un coniglio di
stoffa fra le mani, sentì di volerne ancora, di giornate come
quelle. Ancora caos intorno, ancora pentole e oggetti di ogni tipo
in cui perdersi con lei, contrattazioni infinite e chiacchiere
davanti a un panino e una lattina di birra. Era quella la vita, e
non se n’era accorto: il suo più grande rimpianto.
Posò Poirot accanto a sé, in cerca di un
fazzoletto, ma frugando nella tasca si scontrò con un oggetto
compatto, seppure ridotto nelle dimensioni: un anello, l’anello che
completava il fermaglio che aveva ideato per la serata di
beneficenza, anche quello in rame battuto con un diamante
incastonato tra i fili sottili.
Il gioiello al quale aveva lavorato per
giorni, appostato accanto alla bottega in attesa che Dafne finisse
di lavorare per poter forgiare e battere il metallo, che avrebbe
dovuto consegnarle alla fine del ricevimento, una volta soli.
Un momento che non c’era mai stato.
Rigirò il cerchio sottile fra le dita, mentre
le immagini della vita che aveva sognato con lei si sgranavano in
un futuro incerto. Dietro la porta solo silenzio, nel corridoio
qualche passo distratto di chi aveva sbagliato strada, prima che
Clelia si riaffacciasse dal vano scale insieme a Marie-Hélène e si
sedesse accanto a lui. Notò l’anello, ma non disse una parola.
Rimase a guardare quel ragazzo con la schiena china in avanti, le
spalle troppo curve per la sua età, e avvertì il bisogno di
proteggerlo, lo stesso che la spingeva a coccolare Marie-Hélène che
sonnecchiava con la testa sulle sue gambe.
«Non riuscivo a restare a casa, mi sembrava di
impazzire fra quelle quattro mura.»
Milan annuì, sul viso un sorriso triste.
Clelia accarezzò i capelli della piccola,
stringendosi nelle spalle quando Milan fissò entrambe in cerca di
una risposta. «Ho provato a convincerla a restare a casa, ma non ha
voluto saperne», spiegò. Poi si guardò intorno, e accennò alla
porta chiusa. «Si è visto qualcuno?»
«Non ancora», rispose lui scattando in piedi
non appena sentì la porta del reparto aprirsi e vide affacciarsi
sulla soglia una donna con un camice bianco, occhiali squadrati e
un paio di ballerine color ruggine che spuntavano dai jeans.
«L’oncologa di Dafne», bisbigliò Clelia,
mentre l’altra si avvicinava a passo svelto stringendo al petto una
cartella. Clelia fece appena in tempo a fare le presentazioni che
la donna spinse gli occhiali sul naso e si schiarì la voce,
cercando una sedia per sedersi accanto a loro. Iniziò illustrando
le condizioni di Dafne e quelle in cui era giunta in ospedale, gli
esami cui la stavano sottoponendo e quelli in calendario, ma dopo
una lunga lista di nomi di farmaci ed esami clinici Clelia posò le
mani sulle sue.
«Cosa dobbiamo aspettarci, dottoressa?» le
domandò, affamata di chiarezza. «Dafne ha delle possibilità di
salvarsi, vero?» insistette ignorando i mugolii di protesta di
Marie-Hélène, che tornò a dormire non appena sentì la mano della
donna accarezzarle di nuovo la testa.
La donna posò le mani sulla cartella chiusa,
lo sguardo perso nel vuoto a cercare la giusta concentrazione prima
di posare gli occhi su Clelia, che con le dita tesseva i capelli
della bambina mentre il cuore urlava.
«Il quadro clinico di Dafne è molto complesso,
e i risultati degli ultimi esami non sono buoni, ma questo non vuol
dire che è spacciata. Può ancora salvarsi», spiegò. Aprì la
cartella in cui erano incolonnate una serie di numeri e sigle,
alcuni dei quali evidenziati in rosso. «Mi sono confrontata con i
miei colleghi, e siamo tutti concordi nell’optare per un approccio
aggressivo.»
Clelia balbettò a vuoto, mentre Milan faceva
la spola fra le due donne davanti a lui. Loro sapevano, parlavano
in una lingua che capivano, ma lui no. Lui non sapeva niente di
valori di riferimento e TAC; lui
voleva solo avere la certezza che Dafne sarebbe uscita da
quell’ospedale sulle sue gambe, alleggerita del male che la stava
divorando.
«Che intende con approccio aggressivo?»
s’intromise.
«Intende chirurgia. Dico bene?» rilanciò
Clelia, mentre l’altra abbassava lo sguardo.
«Questa al momento è l’opzione migliore che
abbiamo. Il chirurgo ha già individuato l’area di intervento, ma
non possiamo perdere altro tempo o rischiamo che il cervello di
Dafne venga gravemente danneggiato. Dobbiamo agire in
fretta.»
Milan schioccò le nocche. «Quanto in
fretta?»
La dottoressa si voltò verso di lui. «Domani»,
rispose. «Il chirurgo che opererà in questo momento è su un volo di
ritorno dagli Stati Uniti. Molto probabilmente ora sta studiando
gli ultimi esami di Dafne per definire il miglior approccio; prima
che salisse sull’aereo gli ho inviato tutta la
documentazione.»
Clelia e Milan si scambiarono un’occhiata
smarrita.
«Dobbiamo agire celermente se vogliamo
scongiurare seri danni neurologici ed evitare di compromettere la
riuscita dell’intervento.»
«Quanto le resta?» le domandò Milan,
diretto.
La donna indietreggiò, sul viso un sorriso
imbarazzato che la costrinse a sviare lo sguardo da quello furioso
di lui. «Io credo che sia presto per questo genere di discorsi;
abbiamo circa il cinquanta per cento di possibilità di salvarla,
non perda la speranza.»
Milan scattò in piedi, scagliando una sedia
dall’altro lato del corridoio. «Crede davvero che basti la
speranza, che sia stupido?» urlò svegliando Marie-Hélène, che si
aggrappò a Clelia, spaventata da lui che continuava a girare in
tondo, con le vene del collo in rilievo e gli occhi affilati come
lame. «Io voglio risposte, voglio certezze. Dei numeri non me ne
faccio niente, io voglio che lei mi assicuri che Dafne sopravvivrà
e guarirà», insistette mentre Clelia teneva le mani premute sulle
orecchie della bambina, supplicando Milan di calmarsi. Lui però
aveva troppo dolore dentro, troppo per sopportare un’altra parola,
un’altra speranza che poteva essere tradita.
La dottoressa richiuse la cartella di Dafne e
si alzò in piedi, composta come se nulla fosse accaduto. Niente, in
lei, lasciava intendere che si sentisse minacciata dalle grida di
Milan.
«La prego di calmarsi, o mi vedrò costretta ad
allertare la sicurezza.» Indicò con la penna la porta chiusa del
reparto alle sue spalle, dietro la quale si muovevano le ombre
sfocate di infermieri e pazienti. «Lì dentro ci sono delle persone
ammalate, fra cui Dafne, che hanno bisogno di quiete e riposo.
Comportamenti come il suo, seppure comprensibili, non sono
tollerabili. Senza contare il fatto che sta spaventando sua
figlia», aggiunse. Salutò brevemente Clelia e la piccola mentre a
Milan rivolse solo un cenno, prima di tornare dai suoi
pazienti.
«Non ci credo», borbottò lui cercando la
complicità di Clelia, impegnata a tranquillizzare la bambina.
«Siamo nelle mani di uno che adesso starà sgranocchiando arachidi e
sorseggiando Martini in business class
mentre sfoglia distratto la cartella di Dafne.» Affondò le mani nei
capelli, fissando la porta chiusa. «Quello che domani dovrà
operarla e decidere della sua vita.»
«Non essere così severo, Milan. Noi non
conosciamo quest’uomo, ma mi fido della dottoressa e sono sicura
che è uno dei migliori in circolazione», intervenne Clelia
restituendo a Marie-Hélène il suo peluche. Si schiarì la voce, la
mano stanca posata sulla testolina bionda della piccola che dormiva
di nuovo serena. C’era qualcosa di familiare, in lei, qualcosa che
le ricordava Dafne e Maria Elena, con quella curiosità innata e il
modo che aveva di raggomitolarsi quando dormiva, ricalcando la
posizione in cui tante volte aveva sorpreso la nipote.
Un ricordo, quello di Dafne bambina, che per
un attimo le oscurò il volto. «Se dovesse morire io non so cosa
farei», ammise infine, con le labbra che tremavano per l’angoscia
che la straziava, la voce spezzata dalla paura di perdere anche
lei, di non sapersi più tenere insieme. «Lei è tutta la mia
famiglia, il mio angelo», disse fra i singhiozzi, cercando di
trattenersi per non svegliare la bambina. Premette forte il
fazzoletto sulle labbra per soffocare i gemiti, per asciugare
quello che le parole non sapevano tradurre.
Piangeva, dopo mesi in cui si era proibita di
versare una sola lacrima: ora le lacrime sommate nel tempo erano
diventate un fiume in piena, al punto da rompere qualsiasi
argine.
Singhiozzò con compostezza, sino a quando non
si quietò, confortata dalla mano di Milan che si posò sulla sua
spalla.
Cercare di fuggire era stato inutile, così
come lo era stato prendersela con la dottoressa o con la sedia, ora
lui lo capiva. Per questo l’aveva raccolta da terra e rimessa al
suo posto, e per questo si era seduto accanto a Clelia, rimasta in
disparte.
La notte scesa sull’ospedale disegnava profili
sinistri nel tramonto, acceso di luci d’emergenza e sirene di
ambulanze parcheggiate nelle aree di sosta in attesa della
chiamata.
Eppure la rabbia, tutta quanta, svaniva nel
ritratto di una donna spersa, alla deriva nel mare di rapporti
familiari che non aveva capito, recisi prima ancora che vi potesse
trovare un senso. Clelia aveva perso la sorella e sua madre quando
era ancora troppo giovane, poi la figlia e il compagno di una vita
intera quando non sapeva più fare a meno di lui. Non erano esistite
le mezze misure per lei, nessuna primavera di cui lamentarsi o
autunno troppo caldo. Era caduta solo pioggia, gelida e battente su
spalle che non sapevano più contenerla.
Milan si protese verso di lei per
abbracciarla, per provare a restituirle un po’ di speranza, lei che
chiamandolo dal suo letto di ospedale per parlargli di Dafne gli
aveva regalato una seconda vita. «Abbiamo solo paura. Paura e
nient’altro», ammise a bassa voce, e in quel momento la dottoressa
si affacciò dal reparto e richiamò Clelia. Parlò con lei il tempo
necessario per un breve scambio di battute, e le tese la mano per
guidarla all’interno.
Milan scattò subito in piedi, deciso a
seguirla, ma Clelia scosse la testa.
«Fanno entrare solo una persona.»
«Un familiare», la corresse la dottoressa
prima di chiudere la porta, ma quando un’ora più tardi Clelia se la
lasciò di nuovo alle spalle il suo viso non sembrava essere
rasserenato.
Muta, camminò verso la sedia sulla quale si
abbandonò, esausta, con la mano tesa a cercare quella di Milan che
le sedeva accanto, mentre la piccola che nel frattempo si era
svegliata e riaddormentata dormiva stretta a lui.
«Ho paura, Milan. Ho tanta paura»,
bisbigliò.