PROLOGO
Torralta
Era buio, tutto intorno a lei.
Dafne camminava lentamente, i sensi in allerta a ogni scricchiolio delle foglie, spaventata dal suo stesso respiro.
Era a casa, a Torralta, riconosceva il profumo della terra bagnata e dei fiori di limone del giardino di sua nonna Clelia, eppure distingueva una nota diversa nell’aria, in quel sogno, che la metteva in allarme.
La casa dei suoi nonni, La limonaia, era insolitamente silenziosa, una sagoma bruna che si stagliava sullo sfondo indistinto di una notte senza luna.
“Un fantasma”, pensò.
Procedeva a piedi scalzi su un tappeto di foglie colorate autunnali, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e indosso la camicia da notte regalatale da Ettore qualche estate prima. Cercava qualcosa che non poteva chiamare perché non ne conosceva il nome, ma sapeva di dover continuare a camminare con gli occhi bene aperti: era un imperativo cui la coscienza non poteva sottrarsi.
Calpestò un ramo secco e si voltò di scatto, richiamata dallo squittio della civetta che la fissava dal ramo del melograno che suo nonno Levante aveva piantato quando lei aveva pronunciato la sua prima parola. Schiuse le labbra di fronte alla meraviglia dei due occhi color ambra che la fissavano dal ramo più alto, poi lo sguardo scivolò lungo il tronco snello, e rimase catturato dal chiarore sprigionato intorno a quel vecchio corpo sul quale da bambina aveva inciso le proprie iniziali.
«C’è qualcuno?» bisbigliò col pugno chiuso premuto sul cuore.
Distinse nel silenzio il suono delicato di un respiro e vide un’aura bianca espandersi e infine salire rapida. Deglutì e si avvicinò con passo deciso. La paura l’aveva abbandonata, al suo posto solo una smania felice che si agitava nel petto.
«C’è qualcuno?» ripeté sporgendosi, e in quell’istante vide di fronte a sè una bambina con un basco rosso calato di lato sulla testa e due trecce bionde sulle spalle. La fissava sorridendo: viso tondo, labbra gentili, una mano pallida e affusolata che si sollevava come per tendersi in una preghiera.
«Dafne», la chiamò.
Spalancò gli occhi, le dita aperte conficcate nella lana morbida del materasso, le lenzuola incollate alla pelle, mentre il cuore lentamente decelerava la sua corsa e un rivolo di sudore le attraversava la fronte.
Si girò verso la sveglia sul comodino che segnava le 3.30 del mattino, e di nuovo guardò il soffitto. Le tornò in mente il viso della bambina, così delineato e perfetto che avrebbe potuto disegnarlo, se solo ne fosse stata capace, e il sorriso pieno di dolcezza che le aveva rivolto.
“E quella mano che mi indicava, che chiamava me… perché? Cos’aveva da dirmi?” si domandò alzandosi. Aprì la finestra e riempì i polmoni dell’aria fresca della notte, mentre ripercorreva a occhi chiusi i passaggi di quel sogno anomalo. Quando schiuse le palpebre notò sul melograno piantato dal nonno una sagoma che conosceva. Si sporse per mettere a fuoco i contorni di quella forma scura, e subito si portò entrambe le mani alle labbra, arretrando.
“È lei”, pensò. Una civetta, gli stessi occhi color ambra del sogno, e ancora il suo squittio che si alzava nella notte.
Dafne ripensò al sogno, alla civetta e alla bambina che la chiamava per nome, e subito cercò una spiegazione. Quella bambina conosceva il suo nome, conosceva lei, i suoi occhi non mentivano.
«E le coincidenze non esistono», sussurrò con la mano premuta sul petto.