35.
Marie-Hélène si presentò in atelier prima del
solito, poco dopo l’ora di pranzo, mentre Dafne era intenta a
controllare gli ultimi dettagli del tableau de
mariage: aveva reinventato la porta in stile country chic,
le era bastato sporcarla con della vernice bianca e carteggiarla
insistendo sugli angoli per far emergere il colore di fondo e far
risaltare l’effetto invecchiato, ma aveva preferito lasciare il
chiavistello arrugginito a vista per omaggiare lo spirito romantico
e vintage che era l’essenza della cerimonia, mentre i cartellini
con i nomi degli invitati erano ancora tutti disposti sul tavolo, a
ricalcare lo schema col quale avrebbe dovuto apporli sul
tableau.
«Ciao», la salutò la piccola dalla soglia, ma
non appena Dafne la vide con indosso la cartella rosa e la faccia
scura non esitò ad andarle incontro, la lista degli invitati da
ricontrollare stretta nella mano.
«Come mai sei passata così presto?» le domandò
sistemandole le trecce dietro le spalle.
«Oggi non ci sono andata, a scuola: non
funzionavano i riscaldamenti e maman mi
ha mandato a fare i compiti da un’amica.»
«Hai mangiato, almeno?»
Marie-Hélène annuì, le manine strette l’una
nell’altra come i fili intrecciati di un gomitolo.
La spia che qualcosa non andava come
doveva.
Fece leva sul ginocchio e si rialzò
barcollando, fiaccata dalle continue aggressioni del parassita che
aveva invaso il suo corpo; da quando aveva lasciato la stanza di
Clelia non aveva fatto che rimettere, persino in strada, e aveva
un’emicrania lacerante. Sarebbe voluta rimanere da sola, al buio,
perché non si sentiva forte abbastanza per occuparsi di lei, per
seguirla come avrebbe voluto, ma l’espressione cupa di Marie-Hélène
la preoccupava. Le prese il mento fra le dita, e con dolcezza lo
sollevò perché potesse guardarla negli occhi. «Tesoro, cosa c’è che
non va?»
Una domanda cui la piccola rispose con un
singhiozzo che la scosse dal profondo, le mani sul viso a
nascondere le lacrime.
«Ehi», sussurrò Dafne sporgendosi verso di
lei. L’abbracciò forte, mentre la mano scivolava sui morbidi
capelli biondo grano.
Una nuvola oscurò il sole, disegnando ombre
lunghissime sul pavimento, mentre nella stanza scendeva momentanea
la notte. Dafne tenne stretta la piccola sino a quando non sentì i
singhiozzi scemare, e il respiro tornare a poco a poco regolare;
allora le impresse un bacio sulla fronte e le asciugò le lacrime,
sorridendole.
«Ti va di raccontarmi cos’è che ti rende tanto
triste?»
Marie-Hélène piantò gli occhi nei suoi,
piccole iridi profonde come oceani in cui lei si sentì annegare.
«Ieri maman e papa hanno litigato. Papa ha detto a maman
che non vuole più vederla, e che io d’ora in poi starò con lui. Ha
detto che lei lo ha ricattato, che elle a
menti, ma non so che vuol dire. Che vuol dire
ricattare?»
Dafne prese un respiro profondo; l’emicrania
non sarebbe scemata, così come il suo malumore al sentire nominare
Milan e Camille. Si sistemò una ciocca dietro l’orecchio,
sforzandosi di ignorare la nausea che sentiva risalire sino alle
labbra, mentre più in basso lo stomaco protestava arrabbiato,
spiazzandola: aveva fame come non le capitava da giorni, un
appetito deformato dai farmaci che alteravano la percezione del
gusto, lasciandole sulle labbra uno sgradevole sapore
metallico.
Prese Marie-Hélène per mano e la fece sedere
accanto alla cassa, mentre le sue dita volavano sulla tastiera del
telefono; ordinò al bar un paio di cioccolate calde con doppia
panna e due porzioni di Sacher, e riagganciò. «Vedrai che ora andrà
meglio; non si può essere tristi davanti alla cioccolata», disse
facendole l’occhiolino.
La sua ordinazione arrivò con Ginevra, con cui
scambiò a malapena un’occhiata; da quando l’aveva sorpresa con
Milan non era più riuscita a guardarla negli occhi, a ricucire lo
strappo.
“Non siamo più adolescenti, ma donne, e
credevo anche amiche, fino a quando non ti ho visto con Milan. Come
hai potuto farmi questo proprio tu, che conosci la ragazzina che
sono stata, che sai quanto sia stato difficile per me aprirmi
all’altro sesso?” continuava a pensare mentre la osservava posare i
piattini sul tavolo e la scodella di panna appena montata. Le
parole giravano in tondo nella testa che sembrava scoppiarle,
mentre gli occhi di Ginevra si facevano sfuggenti, in cerca di una
via d’uscita. Dafne invece continuava a cercarli, seguendoli come
un cacciatore sulle tracce della preda prima di lanciare i
cani.
Si voltò un momento a prendere il portafogli e
le consegnò una banconota di un importo volutamente superiore,
obbligandola così a trattenersi per cercare il resto nel
portamonete che teneva nella tasca dei jeans, bianchi e aderenti.
Aveva ancora una chance affinché i loro sguardi si incontrassero e
finalmente riuscisse a parlarle, ma l’altra mise sul tavolo un
pugno di monete e con il vassoio sottobraccio salutò dalla
porta.
«Ciao», disse controvoglia.
Dafne la guardò dall’alto dei tacchi dondolare
verso l’uscita. Erano diverse, ormai. Lontanissime.
«Addio», rispose.
La porta si chiuse, e con lei il capitolo
della sua vita che le aveva viste ridere complici. L’adolescenza
era finita, gli occhi arrossati della bambina seduta davanti a lei
reclamavano il calore di una donna, della madre che non aveva
avuto, di cui da quando Marie-Hélène era comparsa nella sua vita
sentiva la voce sin nei visceri. Aveva sentito sin dal primo
istante un legame forte con la figlia di Milan, con il suo nome,
cordone ombelicale di un passato misterioso; si erano scelte,
riconosciute nell’amore puro di una madre e una figlia che la
genetica divideva, unite dal tempo e nel tempo che le aveva fatte
incontrare.
Si voltò verso la piccola, seduta con la
schiena dritta e le braccia rigide lungo il tronco, i polsi
appoggiati contro il tavolo. Una bambina, pensò osservando la sua
espressione assente, cui Camille stava rubando la spontaneità. La
sfiorò per richiamare la sua attenzione, mentre la radio
trasmetteva una ballata. «Allora, ti va di dirmi cosa è successo
esattamente fra Milan e tua madre?»
«Maman non mi
vuole più con sé», rispose Marie-Hélène stropicciandosi l’orlo
della gonna. Aveva fatto un respiro profondo, la pelle del viso
segnata da minuscole efelidi del colore delle fragole mature. «Ha
detto a papa che deve tornare in
Francia a lavorare, e lui si è arrabbiato tanto; ha urlato che lei
è una cattiva persona, che mi voleva abbandonare, e che d’ora in
poi io starò sempre con lui. Maman ha
risposto che se lui pensava vraiment
questo di lei allora se ne sarebbe andata per sempre, ed è andata
in camera a riempire le valigie. Le ha fatte anche per me, ma poi
papa mi ha detto che avrei dormito con
lui da monsieur Mario, anche se mi ha
promesso che presto avremo una casa tutta nostra», raccontò
rivoltando il cucchiaino nel liquido denso, il petto che sotto il
vestito di tartan si svuotava di ogni preoccupazione. «Maman, invece, è partita stamattina», aggiunse con
un sospiro.
Dafne posò la mano sulla sua, accarezzando la
pelle sottile. «Tornerà, tesoro, vedrai. La mamma non ti ha
abbandonato», cercò di rassicurarla, ma in realtà non sapeva quanto
fondata fosse la sua teoria. Se Camille aveva intenzione di
sbarazzarsi della figlia, e se veramente era stata capace di
abbandonare l’uomo che le aveva salvato la vita, era possibile che
sarebbe rimasta per sempre in Francia, mentre Milan si sarebbe
ritrovato catapultato nel ruolo di padre tardivo.
Saccheggi: fu questo che pensò Dafne guardando
Marie-Hélène bere a piccoli sorsi la cioccolata. Milan sapeva
pochissimo di lei, dei suoi sogni, delle piccole manie che hanno
tutti i bambini: non sapeva quale fosse il suo peluche preferito,
la favola con cui le piaceva addormentarsi. Era di fatto un padre a
metà, spogliato di ogni diritto salvo poi prendersi l’intera quota
genitoriale di doveri.
“Camille deve tornare”, pensò arrabbiata
mentre nelle gambe della bambina che ciondolavano svogliate
brillava il riflesso di un dolore trattenuto, che sentì l’urgenza
di colmare. Le sorrise e le accarezzò le guance, con il loro
profumo dolce e rotondo dell’infanzia; Marie-Hélène non meritava
quel che le stava accadendo.
«Tesoro, anche se la mamma non dovesse tornare
subito tu lo sai che puoi venire qui ogni volta che vuoi, vero?
Ogni volta, io ti aspetto qui», sussurrò premendo la mano sul
tavolo, ma un momento prima di prometterle qualcosa che temeva non
sarebbe riuscita a mantenere, prima di giurarle che ci sarebbe
stata sempre, le parole si accartocciarono in fondo alla gola come
foglie appassite.
Sorrise guardando le sue mani di bambina,
piccole e affusolate, dietro l’onda dei capelli che le
incorniciavano il viso. Avrebbe voluto prometterle che non
l’avrebbe mai abbandonata, ma la paura di tornare in sala
operatoria, di tutto quel tessuto verde e azzurro intorno, dello
schiocco dei guanti in lattice del personale di sala mentre il
carrello dei ferri si avvicinava a lei, le tolse il fiato. Aveva
paura, era terrorizzata dal pensiero di non risvegliarsi, o che
facendolo avrebbe trovato sotto le garze un corpo che non avrebbe
riconosciuto. Che nessuno, lei in primis, avrebbe mai più
amato.
Fu allora che Marie-Hélène, con la stessa sua
dolcezza, le sollevò il mento; lei sentiva il suo dolore,
l’angoscia che si dibatteva sotto i vestiti.
La bambina col basco rosso, venuta da una
clessidra senza granelli da contare, la vedeva come mai prima di
allora altri occhi l’avevano guardata; le leggeva l’anima. Leggeva
e le sorrideva, offrendole un sorriso dolce, il più dolce che Dafne
avesse mai visto.
«Sai che papa mi
ha detto che mi vuole bene? Lo ha detto ieri, mentre ci lavavamo i
denti prima di andare a dormire. Lo ha detto, anche se poi ha
aggiunto che però non mi conosce ancora tanto.»
Una pioggia gentile si riversò sul suo viso,
il conforto dopo una lunga marcia.
Dafne si premette la mano sulla bocca, le
ciglia a lottare con un’emozione esplosale nel petto che sconfinava
negli occhi. Milan le aveva dato ascolto, Marie-Hélène non sarebbe
più stata sola; non avrebbe avuto al fianco un uomo che la guardava
con distacco, con cui limitarsi alla condivisione della routine
quotidiana. Lui sarebbe stato un padre, quello che lei non aveva
mai conosciuto, o almeno ci stava provando.
Stava provando a diventare un uomo migliore,
sforzandosi di amare, per lei, sua figlia.
Le braccia si protesero verso la piccola per
offrirle il calore di un abbraccio che troppo spesso temeva Camille
le avesse negato, anima fragile segnata dalla violenza e dimentica
di ogni spontaneità, spogliata della capacità di amare anche lei.
Le tornarono in mente le parole di Clelia, quelle che l’avevano
fatta andar via contrariata dalla sua stanza d’ospedale, e sorrise
della sua rabbia. Clelia si sbagliava, perché quegli occhi di mare
non sarebbero mai stati una macchia per lei, mai. Solo la fonte
inesauribile di una luce che nessuno, a parte loro due, potevano
vedere.
«Tesoro», sussurrò prendendole il viso fra le
mani, «non devi più avere paura, né essere spaventata. Sei a casa,
adesso.»
“Sei a casa”, si ripeté Dafne facendo cadere
il pennello nel barattolo, allontanandosi dal tableau per avere la visione d’insieme e
assicurarsi che le ultime rifiniture fossero perfette. Ricontrollò
la lista degli invitati, e finalmente si fermò. Era quella la sua
vita, il suo mondo: intrecciare il passato al presente per creare
nuove connessioni, recuperare ricordi e togliergli via la polvere.
Dare voce a chi non ne aveva più.
Sollevò delicatamente la porta della bisnonna
di Vera ormai pronta per il matrimonio e la sistemò contro il muro,
accarezzandone le venature del legno come fosse il viso della
persona amata; qualcuno un tempo aveva amato la casa che quella
porta proteggeva, qualcuno che aveva corso per le sue stanze e
respirato l’odore impresso per sempre nella memoria. Il legno
nascosto in parte sotto la vernice era vivo; ogni nodo, ogni
scalfitura le parlava della donna che era stata la bisnonna di
Vera: forte, autoritaria, elegante e legata alla famiglia come solo
quelle della sua generazione avevano saputo essere. Lo aveva
sperimentato con Clelia e con tutte le nonne che vedeva stringere
la mano dei nipotini fuori dalle scuole, nei parchi in cui tanti
pomeriggi era andata a passeggiare con Marie-Hélène. Erano donne
come loro la spina dorsale della famiglia. Dafne lo avvertiva ogni
volta che sfiorava la porta, quando il pennello scivolava sul
legno.
«Un mondo antico», sussurrò mentre spingeva
l’interruttore generale verso il basso, con una lunga sciarpa di
lana colorata intorno al collo e negli occhi la voglia di vedere le
stelle, di non sentirsi sola in quella notte serena, finalmente
pacifica dopo le nevicate dei giorni precedenti.
Camminò per le strade silenziose, umide, sulle
lastre di pietra dei vicoli del centro rese insidiose dalla nebbia
impalpabile che aveva avvolto Torralta in una dimensione ovattata,
fiabesca.
Una notte sospesa.
Riscaldata dall’eco bagnata del suo respiro
impigliato nella sciarpa si lasciò guidare dalla strada, con la
sola compagnia di qualche gatto randagio che di tanto in tanto
trovava raggomitolato davanti ai portoni delle case, mentre i fari
di auto lontane disegnavano cerchi luminosi nel buio. Gli alberi
nei giardini tacevano, addormentati, mentre dai vasi di limoni
facevano capolino piccole gocce di sole. Una volpe le attraversò la
strada, scomparendo in un basso cespuglio, mentre il cane nella
casa accanto abbaiava alla luna.
Fu una sensazione nuova quella di lasciarsi
andare all’istinto senza più bussole, una novità che inizialmente
la intimorì, ma non appena sentì il cuore batterle con forza nel
petto capì di non aver bisogno di altro. La luce dei lampioni
illuminava incerta i suoi passi. L’emicrania era tornata più forte
col gelo che le martellava le tempie, ma non se ne preoccupò;
l’intervento era fissato a giorni, avrebbe solo dovuto resistere
ancora un po’.
Fu sul punto di inciampare nella radice di un
pino che aveva spaccato l’asfalto, sollevandolo, così si fermò e
appoggiò la fronte contro il tronco.
“Solo cinque minuti”, si concesse ansimando
per la fatica. Le tremavano le gambe e aveva i muscoli intorpiditi
dalla camminata, ma era determinata a raggiungere il solo posto
dove sentiva di poter stare in pace, quella notte: il cimitero.
Aveva bisogno di ristabilire un contatto col suo passato, con
quella bisnonna di cui sentiva più acuta la mancanza, ora che anche
Clelia era lontana.
Lo trovò aperto nonostante l’ordinanza del
sindaco di chiuderlo nelle ore notturne dopo il ritrovamento di
siringhe e l’attività di spaccio segnalati dalla cittadinanza, ma
per lei non fu semplice, quella volta, trovare le lapidi delle sue
antenate. Il cuore urlava pensieri confusi, appesantiti dalla
fatica, e tuttavia, quando vi si trovò di fronte, perse un battito
alla vista di una rosa bianca disposta in ognuno dei vasi. Fiori
freschi: i petali erano ancora ben chiusi e rinfrancati
dall’umidità della notte.
«Milan», disse Dafne a voce alta, riconoscendo
la stessa bellezza che aveva visto alcune ore prima sul comodino di
Clelia, in ospedale. Non ne avrebbe mai avuto la conferma, ma era
sicura che fosse stato lui a regalare quei fiori alle sue antenate.
Un presentimento confermatole dalla presenza di una rosa in ferro
posta davanti alla fotografia di Maria Elena.
Dafne affondò le mani nelle tasche e sorrise,
mentre uno sbuffo di fumo bianco saliva dalle labbra schiuse. Da
qualche parte una sposa guardava la luna dal cuscino nella casa
paterna, per l’ultima volta; le chiedeva cosa sarebbe cambiato
nella sua vita, cosa avrebbe comportato indossare l’abito protetto
nella fodera bianca appeso all’anta dell’armadio e scendere
l’indomani le scale decorate con fiocchi di raso bianco. Se la
persona cui avrebbe giurato amore eterno davanti a Dio era quella
giusta, e soprattutto se avrebbe avuto la forza di mantenere quella
promessa sino al suo ultimo respiro.
«Tu l’avresti avuta, se solo avessi potuto
sposare Augustus», disse al sorriso lucido della bisnonna,
ripercorrendo le tappe del suo amore. Le pagine del libro di poesie
frusciavano nella borsa, un canto che la trasportò in un altro
tempo, agganciato dalla sua mano premuta contro la copertina. Lo
estrasse e lo sfogliò, ma per ogni lettera o parola che leggeva
sentiva farsi strada nella mente il presentimento di stare
sbagliando tutto, tutto quanto. Maria Elena e Augustus erano stati
divisi da una guerra, la più spaventosa che fosse mai esistita, ma
lei, si chiese mentre il rimprovero di Clelia riacquistava vigore
nelle dita che tremavano colpevoli, lei che scusa aveva?
Gli occhi guardarono spiazzati la terra
ghiacciata intorno ai suoi stivali in cerca di un sentiero da
seguire, ma si persero nel buio, nel freddo penetratole sin nelle
ossa.
Strinse forte il libro contro il petto,
riflessa sul viso sereno di Maria Elena la sensazione di stare
sprecando un sentimento; pensava spesso a Milan, eppure lo aveva
respinto.
Lui aveva fatto un passo verso di lei, si era
scusato per averle causato tanto dolore, ma non le era bastato: non
riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di lui e Camille nella
bottega, sul tavolo. Era stata profanata proprio nel suo spazio
privato, nel luogo per lei più sacro; non avrebbe mai potuto
perdonarlo. Mai.
«Eppure», sospirò guardando le mani arrossate,
le stesse che avevano mappato il corpo di Milan centimetro per
centimetro. Se si soffermava a rifletterci le sembrava che fossero
trascorsi secoli, ma la pelle non dimenticava, al contrario della
mente, che le rinfacciava impietosa la cronologia di giorni in cui
Camille non era che un sospetto, quando la felicità era stata
spudorata e lei e Milan non riuscivano a lasciare il letto. La
coscienza la obbligava a ricordare di aver dormito fra le sue
braccia e respirato i suoi sogni come fossero propri, disegnando un
futuro per entrambi lì, a Torralta, nella sua casa. Ma quello che
di buono c’era stato fra loro, pensava ogni volta Dafne scacciando
infastidita quelle immagini dalla mente, era stato travolto da un
paio di gambe infinite e una cascata di lunghi capelli biondi,
seppellito sotto il bacio che lo aveva riavvicinato al suo
passato.
Eppure c’era ancora quel sogno, lo sentiva;
respirava appena sotto le macerie, ma era vivo.
«È davvero troppo tardi?» interrogò Maria
Elena, affidando i suoi pensieri al vento.
Un soffio d’inverno s’incanalò nel vialetto,
accarezzandole i capelli con mani di velluto. Istintivamente Dafne
chiuse gli occhi e raccolse le mani sul petto, in ascolto del
battito ora calmo; su di lui sembrava essersi posata la mano
gentile di Maria Elena, ne era certa.
“Grazie”, pensò lanciando un bacio verso il
cielo.
Tornò alla bottega, gettò borsa e cappotto sul
tavolo, e prese la sua dose serale di farmaci. Li mandò giù
pregando che la salvassero dal dolore che la sfiniva e crollò sulla
sedia di Levante, la scrivania ingombra illuminata dalla lampada da
peschereccio.
Afferrò i manici della borsa seppellita sotto
il cappotto in cerca dell’agenda, ma quando la trascinò verso di sé
un oggetto le cadde sulle gambe, una carezza di velluto. Un basco
rosso.
Il basco rosso, quello che aveva popolato
tutti i suoi sogni prima di incontrare Marie-Hélène, la sua bambina
speciale, prima di ritrovare Maria Elena in quegli stessi occhi. Un
paio di occhi che il tempo sembravano averlo sconfitto.
I polpastrelli accarezzarono la morbidezza
della lana, incerti; era sicura che Marie-Hélène non lo indossasse,
quel giorno, e non aveva la minima idea di come fosse finito lì
sotto.
«Strano», sussurrò dirigendosi verso la porta.
Spolverò il basco dai residui di polvere, ma quando fece per
riporlo sentì i rumori intorno rarefarsi e l’aria diventare densa,
le immagini liquide, dai contorni sfocati. Chiuse gli occhi nel
tentativo di sfuggire a qualcosa che tuttavia sapeva inevitabile, e
in un breve battito di ciglia sentì nelle orecchie il suono di
rotaie in movimento, il loro incedere lento, mentre una colonna di
fumo disegnava una freccia nera nell’aria. La gente si ammassava
sulla banchina, centinaia di braccia tese a catturare ancora un po’
d’amore, ancora un bacio dalle labbra di una ragazza con la
promessa di tornare presto e sposarla, quando tutto sarebbe
finito.
Erano solo voci, ma il loro moltiplicarsi
rendeva il momento assordante, confuso in balia di vestiti colorati
che si agitavano.
Lo sguardo di Dafne si mosse inquieto nella
folla sino a quando riconobbe una mano sollevata, e poi una macchia
di colore nello spintonarsi della concitazione: Maria Elena.
Camminava lenta accanto al treno, la mano
posata sulla sua pelle di metallo nera come la notte, e gli occhi
appannati a mantenere il contatto con quelli dell’uomo affacciato
al finestrino fra le cui dita spiccava una fiammata di colore.
Dafne acuì la vista, e lo riconobbe: Augustus stringeva a sé il
basco rosso, la copia perfetta di quello che lei aveva appena
ritrovato in atelier. L’ultimo regalo dell’amata, Milan aveva detto
la verità.
Una manciata di centimetri di stoffa stretti
nelle mani dell’uomo che la sua bisnonna aveva amato più di sé
stessa, un basco sopravvissuto a una guerra per finire nelle mani
di una bambina francese.
Augustus lo aveva tenuto al riparo nella falda
del cappotto per anni, cucito al suo interno, ora lo vedeva; se ne
stava accovacciato nei tunnel scavati nella terra a scrivere a
Maria Elena con un mozzicone di matita, mentre l’altra mano di
tanto in tanto andava a cercare l’eco della sua carezza.
In un certo senso, pensò lasciandosi guidare
dalla memoria che si andava incidendo sui polpastrelli, quel basco
era sopravvissuto a loro, per decenni, affinché lei lo trovasse.
Era sulla sua strada da tempo, Maria Elena ce lo aveva messo
insieme alla sua piccola omonima transalpina.
Strinse la lana contro la pelle calda,
sospirando. Il viso della bisnonna emerse rapido dai contorni
definiti della foto al cimitero, spogliandosi in un battito di
ciglia del peso degli anni e di un matrimonio che non si sarebbe
mai celebrato, se Augustus fosse tornato da lei.
Dafne ritrovò in un momento la ragazza sulla
banchina, quella col cuore gonfio di aspettative, di promesse per
il futuro che guardava al suo amore in partenza come al nuovo
Messia, mentre nel cuore recitava la preghiera di ritrovarsi
presto.
«Sapevi già di essere incinta?» chiese a
quella giovane donna con lo sguardo offuscato dalle lacrime, in
attesa di una risposta che forse solo il tempo conosceva, geloso
dei suoi segreti.
Sospirò, di nuovo, e le venne naturale pensare
a Milan e alla bambina nata per volere del destino, nel silenzio di
Camille.
Una bambina speciale, che lei aveva amato sin
dalla prima volta che l’aveva sorpresa davanti alla porta della sua
bottega, con un basco rosso calato sulla testa che le aveva fermato
il cuore. Lo stesso di Maria Elena, con la quale per un momento,
nella quiete perfetta delle tempie, immaginò di parlare in cerca
della via da seguire per dipanare i dubbi che le affollavano la
mente.
«Ho sistemato tante cose, nel corso della mia
vita professionale: oggetti dimenticati e legami spezzati, eppure
non riesco a trovare la colla che rimetta in sesto me, qualcosa che
sia capace di darmi una prospettiva, di convincermi ad alzarmi la
mattina. Per cui valga la pena farlo. Qualcosa come Milan»,
sussurrò facendo spallucce.
Posò lo sguardo sulle braccia incrociate sotto
il seno, mentre un suono di passi si avvicinava alla porta chiusa.
Una camminata che aveva scolpita nella mente, un ritmo che alla
Limonaia riconosceva quando ancora era al cancello.
“Milan”, pensò impaurita al pensiero che le
parole violassero le labbra chiuse, con le dita che sfioravano
l’aria tremando al pensiero che lui fosse oltre la porta. Avrebbe
voluto superare quella barriera e parlare con lui, ma dopo il primo
passo verso l’entrata si bloccò, nella mente una domanda che girava
come il ritornello di una vecchia canzone: cosa sarebbe
cambiato?
Si guardò le mani, prosciugate dalla malattia;
le vene in rilievo, la pelle ingrigita dai farmaci, le dita ossute.
Si sentiva un mostro, e a poco valevano i guanti che indossava ogni
volta che qualcuno entrava in atelier e la terapia antinausea che
comprava a giorni alterni in farmacia, e che sembravano non bastare
mai.
Strinse il basco, il petto una linea concava
ad accoglierlo, mentre gli occhi cercavano una risposta. Sentiva i
suoi passi incerti, quasi lo vedeva sollevare il pugno chiuso e
bussare, esattamente come lei oltre la porta tendeva la mano. Si
cercavano ancora, senza il coraggio di prendersi.
I battiti erano sfilacciati, il respiro
affannato dal peso di occhi che non sapevano più vedere, immersi in
un buio da cui Dafne emerse con dolore, con la testa fra le
mani.
Di nuovo lui, il tumore, che non le dava
respiro.
Doveva lasciarlo andare, o la malattia li
avrebbe distrutti entrambi.
Si raggomitolò contro la scrivania, gli occhi
stretti e le mani premute sulla carne che sembrava bruciare. Un
lampeggiante arancione disegnò strisce di luce intermittente tra le
feritoie delle persiane a scandire un ritmo che nella testa di
Dafne non aveva note. Non sentiva nemmeno il chiacchiericcio
svogliato dei netturbini che spazzavano davanti alla vetrina, con
le scope di saggina che graffiavano il marciapiede trascinando via
residui di vite di cui non sapeva nulla, insieme a sigarette fumate
a metà, mentre lei era nell’attesa di qualcuno che non sarebbe
arrivato.
Milan se n’era andato, e lei aveva lasciato
che accadesse.
La notte, quella notte, le sembrò essere
un’infinita parte di oscurità.