21.
Alla partenza per Roma dove avrebbe fatto
l’intervista richiesta dalla giornalista che Dafne aveva contattato
al suo ritorno da Merano mancavano ancora parecchie ore. Pioveva
ininterrottamente da due giorni, quarantotto ore di raffiche di
vento fino a cento chilometri orari e temporali continui che
avevano mandato in tilt l’intera Torralta. Le luci natalizie
avevano l’aspetto triste di lucciole dalle ali bagnate, e le
grondaie non facevano che riversare nei canali frammenti di festoni
e aghi di abete stracciati dal vento. Anche allora, mentre era
china sulla credenza di Clelia, sfere di ghiaccio grandi come
nocciole rimbalzavano sul davanzale.
«Quando finirà?» sbottò scagliando lo
strofinaccio sul tavolo; aveva messo da parte tutte le altre
commesse per completare il mobile di sua nonna, lavorando per
giorni sino a tarda sera, per portare a Roma qualche foto dei nuovi
lavori. Ma non appena si fermò, con la schiena contro il muro
guardando la credenza, capì che non era il maltempo il suo
problema.
Aveva di nuovo sognato la bambina con il basco
rosso, e per due notti consecutive anche Augustus e Maria Elena,
dal cui orologio non si separava mai. Cercava un pretesto per
parlare a Milan delle sue scoperte su Augustus, ma il momento non
sembrava mai quello giusto, con lui: aveva sempre del lavoro da
sbrigare, e una volta finito se ne andava da Mario dove trascorreva
la serata, riducendo al minimo i contatti con lei.
Lui era un mondo proibito, al quale lei non
aveva accesso. Lo era anche allora, mentre lo osservava dal
pavimento: erano a pochi metri di distanza, eppure non si era
voltato a guardarla nemmeno una volta. Lei però ne aveva abbastanza
di quella sorta di pace armata, dato che fra loro non era scoppiata
alcuna guerra.
Si alzò in piedi e raccolse i capelli in una
coda. Rivoli d’acqua correvano lungo i vetri, scrosciando per le
strade di Torralta, sorde ai gorgoglii provenienti dai tombini
ormai incapaci di riceverne altra, e a quelle di un cielo vestito
di notte che affondava nella terra fertile delle campagne
circostanti il suo bastone di luce.
«Devo parlarti», esordì seria, picchiettando
con le dita sul tavolo dove lui stava lavorando.
Un colpo di martello fece vibrare l’aria, che
tremò offesa. Milan si asciugò la fronte, e caricò il braccio per
un nuovo colpo. «Non si può rimandare?»
«Credo sia importante. È importante. Per favore», insistette.
Un fulmine illuminò la stanza di una luce
fredda; un urlo rabbioso scosse il cielo, squarciato da uno
sfrigolio di cavi recisi. Le sirene della banca vicina gridarono,
imitate da quelle degli allarmi delle auto parcheggiate per le vie
del centro. Il buio calò sull’intero borgo, nella bottega dove
d’improvviso discese la notte.
Dafne si mosse tentoni sino a raggiungere il
telefono, ma non appena sollevò la cornetta riagganciò,
sbuffando.
«Siamo isolati», comunicò a Milan, che
imprecando a denti stretti spense il forno. Sfruttando la poca luce
rimasta Dafne mise a posto il materiale, dispiaciuta per non poter
fare alla credenza le fotografie per cui aveva lavorato tanto,
mentre Guache miagolava impaurita dalla cassetta sotto la
scrivania.
Milan strinse la presa sul manico e diede
l’ultimo colpo di martello. «Ci mancava solo questa.»
«Già», concordò lei frugando nella borsa. Il
cellulare era il solo modo che aveva per comunicare con Clelia e
accertarsi che stesse bene. Il temporale non accennava a smettere,
e già due camion dei pompieri erano sfrecciati davanti alla bottega
a sirene spiegate. Digitò il codice pin, e ignorando i bip incessanti che la informavano dei messaggi di
Ettore in segreteria chiamò la nonna per avvertirla del guasto,
aggiungendo che sarebbe tornata a casa non appena avesse
spiovuto.
Clelia, da parte sua, la informò che un
fulmine aveva colpito la cabina elettrica del paese, e che
trovandosi accanto ai depositi dell’acqua era stata disposta la
sospensione dell’energia elettrica.
«Di’ a Milan di venire a cena da noi, stasera;
almeno qui potrà farsi una doccia calda, e sarà più comodo
organizzare la partenza per Roma. Guidare per le strade di Torralta
la mattina presto con la nebbia è pericoloso. Con questo tempo,
poi.»
«Nonna, io non credo che…»
«Diglielo e basta, Dafne; se ha di meglio da
fare ce lo dirà. Vuoi proprio che quel povero ragazzo si ammali,
eh?»
«Ma no, non è questo.»
«E allora cos’è?»
«Dimmi la ragione di tutta questa insistenza,
tanto per cominciare», rilanciò.
Clelia sbuffò. «Nessuna ragione particolare»,
mentì, perché in realtà stava facendo di tutto affinché lei e Milan
si chiarissero, si avvicinassero. Lui era la persona giusta per sua
nipote, lo aveva capito la sera della festa, sorridendo del suo
intuito che interpretò come una forma del suo dono.
Dafne strinse forte il telefono, infastidita
dalle insistenze della nonna. «Ok», cedette, cercando Milan nella
penombra. Lo individuò dopo qualche secondo, con le braccia
conserte a guardare fuori dalla finestra. «Milan?» lo chiamò
sottovoce; lui si girò, e lei gli riferì dell’offerta di Clelia.
Era pronta a incassare un no, e aveva già pronta la risposta da
dare a sua nonna in attesa all’altro capo del filo, e invece lui
acconsentì senza nemmeno il bisogno di insistere, anche se non si
sarebbe mai spinta a tanto; non sembrava gradire la sua compagnia,
e lei non aveva intenzione di imporgliela.
«Ok», ripeté sollevando le spalle, e posò
l’orecchio sul ricevitore. «Nonna, ha detto di sì. Verrà a cena da
noi, stasera, e si tratterrà a dormire, così che domani non dovremo
fare deviazioni», riferì ancora titubante a Clelia, che chiuse la
telefonata con un bacio.
Lei, invece, aveva la testa infestata di
domande. Raggiunse Milan, e accanto a lui rimase in ascolto delle
scie bagnate disegnate sull’asfalto dagli pneumatici delle auto; la
pioggia che prima batteva insistente contro i vetri divenne un
gocciolio svogliato, così come l’eco sulla grondaia si affievolì a
poco a poco. Voci di passanti sopresi dal temporale, intanto,
riempivano la strada dei loro passi fradici. Dafne abbassò lo
sguardo, sentendo oltre la parete lo schiocco di un bacio; una
coppia di innamorati aveva cercato riparo sotto il suo tetto, una
sensazione che le strappò un sorriso pieno di orgoglio.
«È meraviglioso l’incosciente ottimismo degli
amanti, non trovi?» osservò a voce alta continuando a fissare il
vetro. «Ogni contrattempo, ogni problema, si trasforma in una
possibilità, in condivisione. Ogni passo che fanno è amore», notò
unendo le mani dietro la schiena. Lui non si mosse, ma la
ascoltava: Dafne sentiva su di sé i suoi occhi, il modo in cui la
accarezzavano. «Come se il male e il dolore non fossero mai
esistiti, o fossero soltanto dei personaggi minori.»
Milan sorrise, una smorfia amara gli arrochì
la voce. «Peccato che si tratti solo di un’illusione.»
«Lo so. Purtroppo non si può sconfiggere il
male.»
«Purtroppo l’amore è solo l’illusione di un
prestigiatore con scarso talento», la corresse. Rimase in silenzio
ancora un istante, il tempo necessario perché i vetri tremassero di
nuovo scossi dal tuono, e si voltò a guardarla. Occhi negli occhi,
come quella notte, nonostante il buio. «A quanto pare il temporale
ci ha concesso una tregua, ma ne sta arrivando un altro da ovest.
Vogliamo andare?»
Gli occhi di Dafne si dibatterono nei suoi,
ribellandosi a una sentenza dal sapore acre della ruggine. Milan
era già distante, di nuovo lontano da lei, dal mondo.
«Certo», sussurrò mentre lui infilava un paio
di cambi nella borsa. «Andiamo.»
Quella trascorsa alla Limonaia fu una serata
insolita, con una Clelia visibilmente nervosa. La cena era squisita
nella sua essenziale semplicità, la padrona di casa aveva optato
per i piatti forti del suo repertorio, maltagliati ai ceci e
cosciotto di agnello al miele di rosmarino, ma le domande, troppe,
che avevano accompagnato il pasto e che vertevano tutte sulla festa
di beneficenza e quel problema alla macchina, covavano il germe del
sospetto. Un sospetto felice, in cui Clelia vedeva il germoglio
della felicità della nipote, che pure recalcitrava di fronte a
essa. Di fronte alla possibilità di ricominciare accanto a un uomo
diverso da Ettore.
«Vieni, ti mostro la tua stanza», gli disse
Dafne dopo il dessert rivolgendo un’occhiata infastidita alla
nonna, mentre lui ripiegava il tovagliolo accanto al piatto,
ringraziando Clelia per l’ospitalità. Gli fece strada in salotto,
illuminato dalla luce tiepida della lampada da lettura accanto al
lavoro di cucito della nonna, e poi lungo le scale che conducevano
al piano superiore, dove si trovavano le camere. «Non dovresti
essere troppo formale con mia nonna, visto il modo in cui ti ha
trattato stasera: ti ha rivoltato come un calzino.»
«Nessun problema.»
Salì i gradini a due a due, agganciata al
corrimano, ogni passo un piccolo scoppio d’ira. «Non so proprio
cosa le abbia preso, di solito non è così invadente», si scusò
ancora, quando in cima alle scale si voltò a guardarlo. Le faceva
male pensare quanto erano stati vicini, solo qualche sera prima, e
quanta distante freddezza invece ci fosse fra loro in quel momento.
Rigirò nel palmo la chiave della stanza degli ospiti mentre lui la
raggiungeva, e tese il braccio verso la porta chiusa alla sua
destra.
«Ecco qui la tua camera», gli annunciò
ruotando la chiave nella serratura. Premette la mano
sull’interruttore e avanzò all’interno. Intorno a Dafne il chiarore
di quattro pareti dipinte a calce bianca e un arredo minimale ma
raffinato, del carattere ruvido e delicato della casa, e a terra
grandi mattonelle di cotto toscano di quella tonalità calda che
Milan sentiva provenire dal basso, dalle radici di una famiglia di
cui sapeva pochissimo e della quale tuttavia proprio quella sera a
cena aveva intravisto la forza. L’aveva colta nel piglio deciso di
Clelia, nel suo amore per la bellezza mescolato a una raffinatezza
semplice, d’altri tempi, e la coglieva ogni giorno in Dafne, nella
passione con la quale lei affrontava il suo lavoro, ma soprattutto
l’aveva scorta quando lei lo aveva guardato, mentre intorno a loro
non c’era nient’altro che il buio, qualche sera prima.
L’aveva ferita, allora, lo percepiva dal vuoto
che si era creato fra loro, e se ne pentì.
«Deve fare parecchio freddo qui, la notte»,
osservò indicando una catasta di trapunte che nascondeva un
trittico di cuscini color cioccolato. Dafne inclinò la testa,
compiaciuta.
«Un po’, ma mai quanto la mansarda.»
Un breve silenzio. Milan lasciò cadere a terra
la sacca, accarezzando la cassettiera dagli angoli scrostati sulla
quale spiccavano una lampada e una lattiera smaltata azzurra colma
di peonie. «Non più di certe persone, temo», osservò accogliendo
nel palmo un petalo caduto, che strinse nel pugno e gettò
via.
Una ferita si schiuse nella carne di Dafne,
che si vide appassita nel cestino. «È così effimera la bellezza
delle peonie, e la vita stessa», bisbigliò posando la chiave della
stanza sul comodino. «Al punto che lasciare che ci scorra accanto
appare come il più imperdonabile dei crimini.»
Milan sposò lo sguardo su di lei, che già
indietreggiava.
«Buonanotte, Milan», sussurrò. Voltò le spalle
alla mano tesa di lui, improvvisamente solo nella stanza mentre
fuori il vento soffiava forte.
«Buonanotte, Dafne», disse al corridoio vuoto.
Di nuovo solo.
Un rintocco, un altro ancora scandivano i
pensieri di Dafne, impigliati nel reticolo di luce sul letto. Lei
fissava con le braccia incrociate dietro la testa la struttura in
legno che galleggiava su di lei, quattro assi a formare un quadrato
attraversato da rami trovati in giardino. Vi aveva intrecciato
serpenti di minuscole lucciole colorate, in cerca di oblio. Aveva
bisogno del loro tepore, di luce calda che la abbracciasse, per
superare la notte.
Si risvegliò sudata e ansimante. L’aveva
sognata, di nuovo: la bambina col basco rosso e i due amanti
abbracciati, come nella visione, avvolti in spirali di vento blu
che le ricordavano i dipinti di Chagall, sospesi in una favola
senza tempo.
«Peccato sia troppo grande per le storie», si
rimproverò arricciando il bordo della maglia aderente alla pelle
ancora umida, in cerca della tranquillità ritrovata del suo
cuore.
Attese che un altro fulmine spaccasse il
cielo, di nuovo, seguito dal tuono.
La rabbia del temporale che rovesciava
grandine su Torralta era prevedibile, eppure non la rendeva meno
spaventosa. Impaurita si raggomitolò sotto le coperte, poi scalciò
le lenzuola e si guardò intorno, inquieta; nella sua stanza tutto
era invariato, immerso nel solito disordine di progetti, campioni e
vestiti sparpagliati in ogni angolo, dal baule ai piedi del letto
alla scala che utilizzava come scarpiera accostata alla parete. In
fondo, accanto alla porta, la valigia pronta per il breve viaggio a
Roma, nella sua personale capitale dei ricordi.
Sbuffò e si lasciò cadere sul materasso,
mentre nella testa si agitavano le parole di Milan. Lo sentì nella
stanza accanto rigirarsi sul letto, più volte, sino a quando le
molle tacquero per lasciar parlare la porta. Un rumore secco
seguito al picchiettare di passi cauti in corridoio, gli stessi che
Clelia contava nella sua stanza in preda a un’insonnia che
l’accompagnava dal suo primo giorno di vedovanza.
Dafne sospirò, districando i capelli
sparpagliati sul cuscino; di solito dormiva così profondamente da
non accorgersi di quanta vita si consumasse nel cuore della notte,
nelle case della gente.
Nella sua casa, nel cuore di Clelia.
Sua nonna soffriva tremendamente da quando
Levante era morto, un dolore che si consumava proprio sotto i suoi
occhi. Ma pur di non affrontare quel dolore lei aveva preferito
accontentarsi del sorriso della nonna benché posticcio, delle
premure a volte al limite dell’ossessione, preferendo ignorare il
terzo piatto che di tanto in tanto compariva a tavola, o il modo in
cui a volte si voltava a cercarlo, come se il marito la stesse
ascoltando dall’altro lato della stanza.
Si tirò di nuovo le lenzuola sulla testa e
diede le spalle alla finestra, sforzandosi di ignorare il
temporale, ma la sua mente era sveglia, ormai. Quando poi lo
schermo del cellulare che aveva lasciato sul comodino si illuminò,
lampeggiando il nome di Ettore, ebbe la certezza che la voglia di
dormire era passata veloce come il suo buonumore. Si coprì gli
occhi col braccio, consapevole che ormai non le restava molto da
fare, se voleva dormire almeno un paio d’ore: latte caldo e miele,
il solo rimedio che funzionasse a dispetto di qualsiasi camomilla o
tisana alla valeriana. Scalciò via le coperte e si lasciò la porta
alle spalle, mentre a piedi scalzi scendeva veloce i gradini. Ogni
passo era una puntura gelida alla base del piede, nel petto aveva
lo stesso brivido di quando da bambina si aggirava di notte per la
casa immaginando la fuga verso nuove avventure. Evitò con un salto
il gatto di ceramica sull’ultimo gradino e atterrò sul pavimento.
Adorava camminare al buio e la casa le permetteva di farlo; aveva
imparato a scivolare fra quelle pareti, ma rimase sorpresa quando
vide la luce della cucina irradiarsi in sala.
«Nonna?» azzardò affacciandosi dalla porta, ma
invece di Clelia trovò Milan, in piedi davanti ai fornelli, che
apriva e chiudeva i pensili. Cercava qualcosa che evidentemente non
trovava, un’immagine d’irresistibile comicità, per lei, che si
morse il labbro pur di non ridere.
Un’istantanea, tuttavia, che la colse
impreparata: era la prima volta che un uomo che non fosse Levante
si aggirava nella cucina della Limonaia, ma la sua presenza lì, in
quel momento, aveva il sapore dolce di un ritorno alla vita.
Mise le mani dietro la schiena e gli si
avvicinò in punta di piedi; voleva provare a cancellare i malumori
dei giorni passati, ritrovare quell’intimità che solo la notte sa
regalare.
«Ti occorre aiuto?»
Lui chiuse un’anta e aprì le braccia,
sconfitto. Indossava il solito paio di jeans e una maglietta
bianca, immune al freddo che Dafne invece sentiva graffiarle la
pelle, e aveva gli occhi arrossati e stanchi. «Cercavo qualcosa che
mi aiutasse a rilassarmi un po’», confessò sfregandosi il viso.
«Prima di un viaggio sono sempre nervoso, e fatico a
addormentarmi.»
«Ho capito», rispose lei tranquilla,
insinuandosi fra lui e i pensili. «Lascia fare a me.»
Milan indietreggiò mentre lei cercava di
limitare il contatto fra loro, ma quando avvertì il corpo di lui
sfiorare il suo si sentì invadere dall’emozione. Si schiarì la voce
e a testa bassa afferrò un bricco che riempì di latte, in attesa
che il fuoco facesse il resto. Aspettò sino a quando non lo vide
gonfiarsi in una spuma soffice, e con le mani che tremavano lo
versò in due tazze. Solo allora sollevò lo sguardo su di lui.
«Quanto miele?»
Milan arricciò il naso, mentre lei sollevava
impalpabili fili dorati dal barattolo.
«Miele?» le domandò, scettico.
«Miele, certo», confermò lei. «Vuoi dormire o
no?»
Lui si voltò verso la finestra, ma il panorama
era schermato dalla tendina di pizzo.
«Tre», rispose picchiettando con l’indice sul
fratino, mentre lei versava il miele e sistemava qualche biscotto
su un piatto, accomodandosi accanto a lui.
Il silenzio fra loro, chiusi in uno spazio
ristretto, senza via di fuga, era una presenza terza che Dafne mal
sopportava; lei e Milan avevano molto di cui parlare, ma nessuno
dei due sembrava avere la forza di farlo. Lei sorseggiò il latte
caldo, raccogliendo il primo strato di panna in superficie col
cucchiaino, e gli offrì la metà di un biscotto grande quanto il suo
palmo, di quelli che Clelia preparava in quantità per la
colazione.
«Non sono d’accordo», disse dandogli un
morso.
Milan, che girava distratto il cucchiaino
nella tazza, si fermò. «Su cosa, scusa?»
«Quello che hai detto a proposito dell’amore,
poco fa, in bottega. Non sono d’accordo», ribadì. «L’amore non è un
gioco di prestigio, ma una splendida opportunità; possiamo
moltiplicare le nostre percezioni, conoscere mondi nuovi, e
soprattutto scoprirci come esseri umani. Amare qualcuno ti obbliga
a fare i conti con te stesso, e al contempo a ragionare sul noi
senza mai dimenticare il tuo io. Ma soprattutto non ti lascia mai
solo, perché l’amore moltiplica sempre, non divide né sottrae. È
una forza magnetica.»
Milan prese dal piatto un biscotto e lo
spezzò, pensieroso. «Perciò è la solitudine che ti preoccupa tanto?
Trovi così intollerabile l’idea di stare da sola?»
Dafne sprofondò nello scialle che Clelia aveva
dimenticato sulla sedia, guardando le pareti ingombre di pentole e
oggetti della cucina immersa in una luce surreale. Milan, seduto
accanto a lei, la guardava in un modo in cui non l’aveva mai
guardata, e che la disorientava: c’era rancore, in lui, la sua voce
era una raffica di sabbia sulla pelle, dolorosa e improvvisa.
«La solitudine è orribile», rispose. «Ti
svuota, ti inaridisce. Dubito che esista qualcuno a cui non faccia
paura.»
«Uno ce l’hai di fronte.»
Lei rispose con una smorfia e annuì, perché in
fondo si aspettava quella risposta, dal momento che stava cercando
di provocarla. Arrotolò una ciocca di capelli intorno all’indice,
rifiutandosi di guardarlo; non poteva sopportare di leggervi dentro
una smentita, non poteva pensare di aver sbagliato tutto, con lui.
«Io non credo che tu dica sul serio.»
«No?» Diede un morso al biscotto, guardandola
con aria di sfida.
«No, perché nemmeno il paradiso è abbastanza,
se non hai qualcuno con cui condividerlo. Dio lo sapeva, per questo
non ha permesso che Adamo rimanesse solo.»
«Io non credo in Dio.»
«Non cambia la sostanza delle cose, è una
verità che gli uomini coltivano da secoli. Che tu ci creda o
no.»
L’orologio batté l’ora, riempiendo la stanza
di rumori, di vita sfumata; scorreva veloce, più rapida di quanto
Dafne desiderasse. Prese un respiro profondo e bevve un altro sorso
di latte caldo, assaporando il grasso della panna che scivolava sul
palato; le tornò in mente un sapore simile provato solo pochi
giorni prima, a Merano, e insieme al suo ricordo tutto quello che
aveva scoperto al Grand Hotel. Era arrivato il momento, non poteva
più tenere quella storia per sé.
«Maria Elena e Augustus Klammer, il soldato
della foto, si amavano», confessò. «Si amavano anche se erano
consapevoli di essere molto diversi, in modo inaccettabile agli
occhi della società dell’epoca, ma non sbagliavano. Loro erano nel
giusto, perché se ami non puoi sbagliare, se ami non sbagli mai. E
anche quando il destino li ha separati loro hanno continuato ad
amare, perché gli esseri umani lo fanno da sempre, da millenni.
Siamo questo, Milan; è la nostra natura, non puoi
combatterla.»
Lui deglutì e la guardò con la coda
dell’occhio, le dita strette intorno alla tazza. «Augustus Klammer,
hai detto?»
«Esattamente», annuì lei. Abbassò gli occhi
sulle mani che teneva in grembo, le dita che creavano ponti fra le
estremità. «Ne ho avuto conferma poco dopo il mio ritorno da
Merano; avrei voluto parlartene prima, ma non ne ho avuto il modo,
con tutto quello che è successo fra la serata di beneficenza e il
resto.» Lo scialle di Clelia la teneva al caldo, eppure non ricordò
di aver mai percepito tanto gelo in casa come quella notte.
Dicembre era piombato fra loro come un monolite ghiacciato, neve
che solo il tempo e il calore avrebbero potuto sciogliere. «Hans mi
ha riferito di aver trovato il suo nome fra i registri del
personale, a conferma della mia tesi.»
Gli occhi di Milan guizzarono su di lei, la
schiena rigida. «Chi è Hans?»
«Il direttore del Grand Hotel Meran.»
«Ah.»
Dafne si sentì attraversare da quell’unica
sillaba. Faceva male, presto la ferita avrebbe iniziato a
sanguinare. «A ogni modo Augustus era il primo amore di Maria Elena
e padre di Ines, e da questo non possiamo fuggire», aggiunse.
Un rumore stridulo coprì la sua ultima parola,
seguito dallo scrosciare dell’acqua nel lavandino di ceramica. La
sedia di Milan accanto a lei era vuota, così come era sparita la
sua tazza di latte.
«Buonanotte, Dafne. Ci vediamo fra qualche
ora», la salutò sistemando lo strofinaccio piegato sulla maniglia
del forno, prima di lasciare la cucina.
«A domani», rispose. «Tanto ormai non facciamo
altro che augurarci la buonanotte», aggiunse con uno strascico
polemico, contando i suoi passi sulle scale. Avrebbe solo voluto
posare la testa sulla sua spalla e ritrovare la magia della notte
della festa, sentire ancora empatia fra loro. Ma lui sembrava una
persona diversa, dopo quel bacio. Come se l’incontrarsi delle loro
labbra avesse risvegliato una persona che non le piaceva affatto,
diversa, che le aveva voltato le spalle consegnandola alla luce
tiepida della cucina, con la sola compagnia di una tazza di latte e
uno scialle ad abbracciarla. E di pensieri, domande che aleggiavano
fra le pareti di un’infelicità lacerante.