15.
Il treno arrivò a Merano in perfetto orario, nonostante uno spesso strato di neve nascondesse i binari. Una voce femminile dal marcato accento tedesco informò i passeggeri dell’arrivo, invitandoli a non dimenticare effetti personali a bordo.
Dafne riemerse da un sonno spesso e senza sogni, coccolata dall’aria calda nel vagone, ma non appena vide il convoglio fermarsi in stazione recuperò il bagaglio dalla cappelliera e salutò il suo compagno di viaggio assorbito dalla lettura del «Dolomiten», diretta verso l’uscita. La infastidì l’aria gelida che filtrava dalle porte chiuse, il contrasto con il tepore umido della carrozza, ma una volta fuori benedì il freddo salutare che la accolse, e trascinò la valigia sino al piazzale antistante la stazione. Il panorama, notò Dafne volgendo lo sguardo verso i lunghi viali alberati che si dipanavano dalla piazza appena ripulita dagli spazzaneve, sembrava volersi sottrarre alla vista, nascosto da una patina bianco-azzurrina, mentre gli alti alberi appesantiti dalle recenti nevicate e la montagna alla sua sinistra facevano bella mostra di sé, formando un cono sfaccettato di legno e roccia illuminati dalla luce intensa delle Alpi.
Prese dalla borsa l’agenda sulla quale aveva appuntato gli indirizzi degli hotel storici della città, i soli nei quali ai primi del Novecento Maria Elena e suo padre avrebbero potuto alloggiare, e ne confrontò le distanze sulla cartina che le aveva regalato Milan. Gliel’aveva consegnata un attimo prima che lei salisse sul treno per Bolzano, augurandole buon viaggio dal binario ingombro di foglie colorate. Ne carezzò i fogli sgualciti dalla lunga permanenza nella borsa, un sorriso tenue a scaldarle le labbra; era tutto così diverso, solitario, senza la voce della sua radio in sottofondo spezzata dai colpi di martello, senza di lui.
“Ora basta malinconia, concentrati sulla tua ricerca, piuttosto”, si rimproverò tirando su col naso. Passò al setaccio il piazzale in cerca di un taxi. Fermò la prima vettura che le capitò a tiro e si fece portare nel suo albergo, un modesto hotel a tre stelle a conduzione familiare nei pressi del lungofiume. Lungo il tragitto provò a scambiare qualche parola con il tassista, ma l’uomo al volante non sembrava affatto propenso a chiacchierare con lei; teneva al minimo una radio che trasmetteva musica classica e alzava il volume ogni volta che lei tentava di intavolare una conversazione, preferendo canticchiare fra sé e sé.
Una volta arrivata in albergo, perciò, si liberò dei bagagli, si concesse una doccia veloce e con i doposcì ai piedi, i soli che regalassero un po’ di tepore ai suoi piedi ghiacciati, si diresse verso il primo indirizzo sulla lista. Camminò a passo spedito fra palazzetti e ville Jugendstil viennese, con piccoli balconi fioriti e tetti spioventi color ruggine che la catapultarono nelle atmosfere dei film sull’imperatrice Sissi che rivedeva ogni anno durante le feste natalizie, nel sogno di un impero sgretolatosi sotto i colpi della Grande guerra.
«Sembra di vivere in un film», sussurrò con il sorriso stampato sulle labbra, ma quando si ritrovò di fronte al numero civico cerchiato in rosso sull’agenda, che nella realtà corrispondeva a un laboratorio di analisi con tanto di insegna al neon e videocitofono, cominciò a sospettare che la ricerca non sarebbe stata semplice come aveva pensato.
«Meno uno», sospirò tracciando una linea rossa sulla prima destinazione. Consultò la mappa e si diresse verso il fiume, dove avrebbe dovuto trovare il secondo hotel: un buco nell’acqua anch’esso. Nello stabile che a inizio secolo ospitava uno degli hotel più rinomati della cittadina, si era insediata la divisione commerciale di un nuovo gruppo bancario. Il portone antico era stato sostituito da moderne porte con telaio di acciaio e vetri antiproiettile, dai quali uscivano impiegati in giacca e cravatta con le loro ventiquattrore.
Dafne li osservò dall’altro lato della strada, fissandoli come se appartenessero a una specie aliena; non era questo che aveva immaginato, non aveva percorso centinaia di chilometri per incontrare un mucchio di banchieri e burocrati.
«Avrei dovuto documentarmi di più», si rimproverò; aveva studiato l’itinerario soltanto in treno, ripensando alle resistenze di Clelia a quel viaggio, continuate sino in banchina.
E quella stessa sera a cena, con un solo coperto al suo tavolo mentre in sala l’intera cittadina si ritrovava in piccoli gruppi, ebbe la tentazione di saltare sul primo treno per Bolzano e prendere la coincidenza per Torralta. Detestava la solitudine, detestava ritrovarsi in una città che non conosceva senza nessuno con cui condividerla.
«I canederli sono di suo gradimento?» la interrogò la cameriera rivolgendole un sorriso cortese; aveva l’aspetto di una giovane ladina, con i capelli biondo grano raccolti in una lunga coda di cavallo e guance sapientemente spolverate di blush color pesca, ma l’accento marcatamente slavo tradiva le sue vere origini.
Dafne si portò alle labbra una cucchiaiata di brodo caldo e annuì. «Deliziosi, grazie.»
Finì il suo piatto e si concesse una porzione di strudel con gelato alla vaniglia e doppia panna, mentre oltre il vetro vide uomini e donne con la ventiquattrore o con indosso le uniformi da lavoro affrettarsi a rincasare. Diede un’occhiata al display del cellulare, stupita di notare che a quella stessa ora Clelia stava ancora finendo di cuocere la minestra mentre lei aveva già finito la cena.
Scorse le ultime chiamate e i messaggi, ma non appena vide comparire il nome di Ettore in cima alla lista rimise il telefono nella borsa e si mise a studiare l’itinerario per il giorno seguente; non poteva permettersi un soggiorno prolungato, Milan era solo alla bottega, ma avvolta nell’abbraccio caldo del legno, con la cartina aperta sul tavolo, per un istante si prese una vacanza dalla sua vita provando invece a immaginare come apparisse la città agli occhi della bisnonna, una vita fa.
Le vennero in aiuto alcune foto d’epoca appese alle pareti, che ritraevano carrozze trainate da cavalli e uomini in livrea accanto a giovani contadine con le trecce bionde, e un anziano con indosso il vestito tipico del posto che nella stube accanto alla sala ristorante brindava con gli amici storici, tutti con i capelli del colore della neve che silenziosa fluttuava nell’aria ferma, fra una particella e l’altra di silenzi. Nelle strade regnava una quiete scesa improvvisamente, a scaldarle solo la luce debole dei lampioni e le impronte di passi frettolosi lasciate dagli ultimi passanti. Aveva tutto un sapore precario, là fuori, frettoloso e gelido, eppure se spiava oltre le finestre delle case di fronte, dietro le tendine, scorgeva un calore che lei non ricordava di aver mai provato al di fuori dei suoi primi anni di vita a Torralta.
Accarezzò il calice del suo bicchiere di Lagrein, così sottile eppure capace di sopportare oltre il doppio del suo peso e della solitudine che percepiva nell’aria, fra i pensieri che il vino rendeva insolitamente leggeri, per quanto malinconici.
Da quando aveva rotto con Ettore, pensò fra un sorso e l’altro, anche gli amici erano scomparsi; il numero delle chiamate in entrata sul suo cellulare rasentava lo zero se non fosse stato per Clelia, e non c’era stato nessuno che le avesse scritto un solo sms per sapere come stesse. La sua linea dell’orizzonte nella vita post Ettore si era capovolta, non aveva più riferimenti né pilastri cui aggrapparsi, ma le piaceva camminare a testa in giù se poteva contare su rapporti veri, per quanto ridotti al minimo.
«Tu invece», disse all’orologio che aveva appoggiato nel cuore della città in cui tutto era iniziato, «a quanto pare hai incontrato molto più di un amico, qui. Ma era vero amore?»