34.
Dafne entrò in ospedale al seguito delle
infermiere del turno di mattina, in una mano il sacchetto di
biscotti del forno delle Lavandai e nell’altra un bouquet di
camelie bianche e rosa, le preferite della nonna. Il cardiologo
l’aveva informata la sera prima che avrebbero trattenuto Clelia per
un altro giorno o due, il tempo necessario per svolgere gli ultimi
accertamenti e monitorare la pressione ancora troppo alta, ma il
tono rassicurante corso sul filo del telefono l’aveva
rasserenata.
Ciò che la preoccupava, piuttosto, era la data
impressa sul calendario: 13 febbraio.
Aveva solo ventiquattr’ore per curare gli
ultimi dettagli in vista del matrimonio di Vera fissato per il
giorno seguente, ma era ogni minuto più stanca: faticava a salire
le scale, a vestirsi. Persino respirare era un peso, per lei. I
muscoli non la sostenevano più come un tempo, e i farmaci che ai
pasti le riempivano il piatto raramente rimanevano nello stomaco
per il tempo necessario. La nausea, poi, si univa all’emicrania che
spesso la obbligava a tirare le tende e rimanere al buio per ore,
distesa sul letto, in attesa che il mondo tornasse a essere un
luogo sopportabile.
La sera prima, poi, era dovuta passare da Vera
per consegnarle la testiera ricavata dalla porta di casa della
nonna, ma aveva avuto bisogno dell’aiuto di Mario per quel lavoro,
da sola non sarebbe riuscita nemmeno a salire in macchina. Ma anche
lì, mentre in salotto l’amica staccava l’ultimo assegno, aveva
avuto un capogiro così forte che si era dovuta stendere sul suo
divano e rimanervi per quasi un’ora. Un’esperienza umiliante per
lei che era sempre stata un vulcano di energia, per la sua
professionalità, ma Mario e Vera non avevano voluto sentire
ragioni: nessuno avrebbe mosso un passo sino a quando lei non fosse
stata meglio.
Meglio, però, era una parola che Dafne aveva
dovuto cancellare dal vocabolario.
«Hai abusato del tuo corpo, ecco cos’è
successo; l’oncologa ti aveva detto di riguardarti, ma tu sei
cocciuta come un mulo e non le hai dato ascolto», la rimproverò
Clelia non appena la vide crollare sulla sedia accanto al suo
letto. Dafne posò il sacchetto con i biscotti e il bouquet sul
comodino, la mano premuta sulla fronte a cercare un compromesso con
l’emicrania che le rendeva insopportabile persino la luce che
filtrava dalle tapparelle, mentre l’odore asettico delle pareti le
avvelenava i polmoni. Tossì e svegliò la vicina della nonna,
costretta al silenzio da un taglio sul collo nascosto da un grosso
cerotto.
Dafne scambiò con lei una lunga occhiata
silenziosa; avrebbe voluto prendere il suo posto, per un momento,
essere dispensata dal dover parlare, spiegarsi. Dal raccontare alla
nonna di Milan, della sua ultima visita in cui le aveva confessato
i trascorsi con Camille, del carcere e del sentimento che provava
per lei, che invece lo aveva respinto.
«Tu cosa hai fatto?» quasi strillò Clelia,
puntando i gomiti per tirarsi su e guardare negli occhi la nipote,
che invece le dava le spalle in cerca di un vaso dove sistemare i
fiori.
«Nonna ti prego, non urlare; stamattina mi
scoppia la testa», sbuffò sfregandosi la fronte col polsino, mentre
l’altra, zittita, si torceva le mani.
«Va bene, ma metti i fiori insieme alle rose,
in quel vaso; non c’è bisogno di usarne un altro.»
«Ma…»
«Me le ha portate Milan ieri, e dato che alla
mia vicina non piacciono i fiori non le faremo un torto.»
Dafne obbedì, e afferrò il vaso colmo di rose
dal davanzale. «Non sapevo fosse venuto a trovarti.»
«Era in pensiero per me, anche se credo
sperasse con l’occasione di incontrarti; avresti dovuto vederlo,
non se ne voleva più andare via.»
«Oh, immagino.»
«Dafne, per favore, non essere sarcastica;
quel poveretto lo ha consumato, il corridoio, a forza di camminare.
E stamattina mi vieni a dire che lo hai rispedito dalla francese»,
disse scuotendo la testa mentre in corsia le infermiere iniziavano
a somministrare la terapia ai pazienti, fermando il carrello delle
medicine davanti a ogni camerata. «Io cerco di capire, ma proprio
non ci riesco; si può sapere perché gli hai dato il benservito?
Perché hai fatto una sciocchezza del genere?»
Dafne tagliò il nastro rosa del bouquet e
liberò i fiori dalla velina bianca, disponendo una alla volta le
camelie nel vaso, in cerca di un equilibrio cromatico con le rose;
non voleva pensare a Camille e Milan, al modo in cui lo aveva
lasciato andare via, con le spalle curve, sotto la neve. Le era
sembrato che quasi non respirasse, non aveva notato nemmeno un
ricciolo di fumo bianco sollevarsi dalle spalle, come se la loro
conversazione avesse assorbito l’ultima parte di vita. «Le cose non
sono sempre bianche o nere, nonna; non basta un biglietto di scuse
per rimettere tutto a posto.»
«Lui è venuto da te per parlarti; non ha
mandato un mazzo di fiori.»
L’ultima camelia quasi trafisse l’acqua,
talmente Dafne la spinse in fondo al vaso. La sua era una
composizione perfetta, armonica, eppure non vedeva che dolore e
confusione fra i petali vellutati che lei e Milan avevano
accarezzato.
Appallottolò la carta col logo del fioraio e
la lanciò nel cestino, voltandosi verso la nonna. «Sapevi che Milan
è stato con Camille, l’ultimo dell’anno?» rilanciò, il tono acuto
pronto a far male, a sbattere la porta lì dove si intravedeva
l’ultimo spiraglio di sole. Li rivide stretti, aggrappati l’uno
all’altro. Voltò le spalle al letto di Clelia, sorvolando sugli
occhi spalancati della sua vicina. Dietro di lei i soliti rumori
della corsia, fra lo scivolare dei carrelli del vitto e dei farmaci
e il parlottio rassicurante degli infermieri alle prese con i
pazienti difficili. «Quella mattina avevamo fatto l’amore, e solo
qualche ora dopo lui era sopra la sua ex sul tavolo del negozio,
mentre io cercavo di salvare la faccia a entrambi con la figlia.
Nonostante non l’avessi mai vista prima l’ho portata a giocare al
parco, non ho pensato nemmeno per un momento al fatto che
Marie-Hélène fosse sua; l’ho fatto perché qualcuno doveva occuparsi
di lei, distrarla da quel che stava succedendo in negozio, e quando
ho chiesto a Milan di essere sincero, di dirmi semplicemente la
verità su quella mattinata, lui non ha avuto il coraggio di
ammettere di avermi tradito. Ha mentito, e questo non posso
perdonarlo.» Un raggio di sole pennellò una striscia di luce sul
pavimento, investendo anche lei del suo calore. Si fece da parte,
un passo indietro e poi di nuovo occhi negli occhi con Clelia, che
dalle coperte bianche e blu col logo dell’ospedale la guardava in
silenzio.
L’infermiera fermò il carrello dei farmaci di
fronte alla porta e si affacciò per chiedere a Dafne di accomodarsi
fuori, ma quando rientrò ritrovò Clelia nella medesima posizione in
cui l’aveva lasciata pochi minuti prima, con l’aggiunta di una
fronte solcata da decine di rughe.
«Forse non è come pensi, sai? Per gli uomini è
diverso.»
«Per favore nonna; da te certi discorsi non
voglio proprio sentirli.»
Clelia lanciò un’occhiata alla sua vicina;
guardava il soffitto con l’iPod a tutto volume, le mani intrecciate
sul ventre mentre le cuffie tradivano le note più alte. Sospirò e
allungò la mano verso il comodino dove trovò ad aspettarla le sue
compresse giornaliere, che ingoiò con un sorso d’acqua. Chiese a
Dafne di riempirle il bicchiere una seconda volta, ma non bevve
nemmeno una goccia d’acqua; rimase con le mani strette intorno alla
plastica sottile, lo sguardo puntato in quel piccolo lago
artificiale.
«Sai bene che non faccio sconti a nessuno»,
esordì bloccando con uno sguardo le proteste che già vedeva
increspare il sorriso della nipote. «Dico solo che probabilmente
Milan sentiva ancora un trasporto verso di lei, ma dopo aver fatto
quel che ha fatto ha capito che non è Camille la donna che vuole al
suo fianco. Quella sei tu.»
«Dovrei sentirmi lusingata, per questo?»
scattò Dafne, ferita e arrabbiata. Avrebbe voluto prendere la prima
cosa le capitasse a tiro e scagliarla a terra, romperla e
calpestarla, ma si impose di dominarsi e abbassare la voce. «Tu non
capisci quanto sia frustrante per me», sussurrò col dito
schiacciato contro lo sterno, in un guizzo che avrebbe pagato caro.
«Non sai quanto sia stato doloroso accettare che Ettore tornasse
ogni sera da sua moglie, che facesse l’amore con lei e poi con me,
quante lacrime mi sia costato accettarlo. Non sai come ci si sente
a essere l’altra, quella sempre in bilico, senza un posto fisso nel
cuore di chi ami.»
«Ti ci sei messa tu in quella situazione»,
ribatté Clelia con una durezza che la spiazzò. «Ettore era sposato,
e lo sapevi bene quando hai iniziato a frequentarlo. Ti sei voluta
raccontare la storia che lui avrebbe lasciato la moglie per te,
ignorando volutamente la lezione che tutte le donne conoscono: un
uomo non lascia mai la moglie, e le poche eccezioni non fanno che
confermare la regola. Ti sei illusa con questa bella favola e ci
hai sofferto, e quando hai bussato alla mia porta in cerca di
conforto io ti ho aperto le braccia, perché questo fa una persona
che ti ama come io amo te, che sei quanto di più caro ho su questa
terra. Milan e la storia con lui sono un’altra cosa, perché non è
come Ettore: lui non è sposato, e ti ha detto chiaramente che ti
vuole nella sua vita, ma no, a te non sta bene perché non è
perfetto, perché ha avuto una figlia con una donna che non sei tu.
Perché Marie-Hélène, per quanto tu possa amarla, ti ricorderà
sempre che un tempo è stato di un’altra, e questo per te è un
ostacolo insormontabile.» Prese fiato, i numeri accanto al cuore
sul monitor segnalavano frequenza e pressione in aumento, ma invece
di preoccuparsene Clelia sfilò il dito dalla pinza che registrava
le pulsazioni. «Ora ti dirò una cosa, Dafne, e vorrei che mi
ascoltassi: abbiamo tutti un passato, tutti delle ferite che ci
fanno male, mai cicatrizzate, ma non per questo possiamo smettere
di vivere. E pazienza se chi amiamo non è perfetto come vorremmo,
se ha una figlia e un passato con un’altra donna, perché quel che
importa è che lui voglia te. Adesso. Te soltanto, senza fughe
clandestine e incontri rubati fra un appuntamento di lavoro e un
altro. Milan ti ha offerto sé stesso e una vita con lui, ma tu sei
troppo sciocca e orgogliosa per capire che un oggetto sbeccato, con
qualche crepa e ammaccatura, ha un valore di molto superiore a
quello appena uscito intonso dalla fabbrica. E sai perché?»
continuò chinandosi verso di lei, che la fissava con le braccia
conserte, imbronciata. «Perché quell’oggetto custodisce in sé il
valore inestimabile del tempo, dei ricordi. C’è amore in un vaso
sbeccato, ed è esattamente quello che Levante ti ha insegnato. Una
lezione che a quanto pare applichi solo a ciò che ti conviene, e
che invece lui aveva adottato come uno stile di vita. Ti
incaponisci a voler vedere solo che Milan ha sbagliato, ed è vero,
lo ha fatto, ma non esistono montagne impossibili da scalare se ami
davvero una persona. Forse è su questo che dovresti riflettere,
invece di cercarti degli alibi per rifiutare un dono così
grande.»
Dafne indietreggiò, inciampando nella sedia
sulla quale cadde goffamente, le dita sulle calze borgogna che le
fasciavano le gambe. Clelia aveva ragione, aveva ignorato la
lezione di suo nonno; aveva dimenticato quanto prezioso fosse il
tempo, quanto amore custodisse nelle sue pieghe imperfette. Le era
stato rubato, così come Camille aveva rubato la sua fiducia in
Milan, l’uomo che amava e odiava allo stesso tempo, un sentimento
che trovava pace solo nel sorriso di una bambina che non era sua,
ma che sentiva di aver protetto dentro di sé per un tempo superiore
a quello di una gravidanza. Era il tempo dell’anima, senza
rintocchi o campane a segnare le mezz’ore. Solo un flusso continuo
di sentimento.
Si sfiorò la fronte, un peso le rendeva
faticoso tenere gli occhi bene aperti, e afferrò la borsa che aveva
lasciato appesa alla spalliera farfugliando un saluto.
Sentiva il corpo lento, pesante, la carne
forata da proiettili che l’avevano attraversata, provocando
emorragie fuori controllo.
Clelia la guardò alzarsi con gli occhi gonfi
di rimpianto, di un’angoscia che solo lei conosceva, osservandola
avviarsi verso la porta trascinando i piedi. Malgrado il suo
ottimismo doveva soffocare ogni volta il terrore che quella sarebbe
stata l’ultima volta in cui l’avrebbe vista, e tremava al pensiero
che potesse essere proprio quella, che non avrebbe più avuto la
possibilità di chiarirsi, di lasciarle e lasciarsi un ricordo cui
guardare con dolcezza. Tese la mano verso di lei, già sulla porta,
di spalle. «Concedigli una possibilità, ti prego; avrai bisogno di
lui per superare l’operazione», sussurrò. «Tu lo ami, Dafne, perciò
ti prego, ti imploro: permettiti di essere felice.»
Lei si voltò appena, lo sguardo basso per non
tradire gli occhi lucidi, mentre la mano scivolava sullo smalto
sbeccato della porta. «Ciao nonna», sussurrò.
La porta si chiuse, mentre la mano di Clelia
si tendeva verso il comodino, nel vuoto.