30.
Gennaio era un mese che Dafne aveva sempre
amato: aveva il sapore della possibilità, spalancava porte e
offriva tempo per ottemperare ai buoni propositi per il nuovo anno,
ma seduta al centro della bottega, circondata dalla testiera del
letto di Vera e il tableau de mariage
ancora da ultimare, sentiva soffocante la morsa del tempo.
Gli avvenimenti di fine anno l’avevano
trascinata in un’apatia insolita per lei che d’improvviso non aveva
nemmeno la forza di alzarsi dal letto e trascorreva le giornate fra
il divano e la televisione, ma una volta rimesso piede nel suo
studio, immersa nel suo elemento, si era pentita di aver ceduto
alla debolezza. L’assegno di Vera che aveva trovato nel cassetto e
che ancora non aveva incassato era una sirena che le urlava nella
testa, specchio di un timore che vide riflesso nel tableau. Era in ritardo come mai le era capitato
prima, e non aveva più il sostegno di Milan; dopo la loro ultima
conversazione lui era sparito, ma le fu di conforto sapere
attraverso Mario che stava continuando a lavorare al loro progetto,
benché lontano da lei.
“Anche se è proprio questo che fa male”, pensò
con la mano sul coperchio della vernice; le mancava la sua
presenza, il rumore che aveva imparato ad apprezzare, sottofondo di
tutte le sue giornate. A mancarle era persino il suo malumore
mattutino sino a quando il caffè non lo rappacificava col mondo, ma
ogni volta che si sentiva assalita dalla malinconia si obbligava a
ricordarsi la mattina dell’ultimo dell’anno, e allora ogni pensiero
romantico su di lui svaniva.
La ferita invece no, quella non accennava a
guarire.
E poi c’era Camille, che aveva deciso di
trattenersi a Torralta insieme a Marie-Hélène, il suo unico
conforto per superare i tramonti a metà pomeriggio e le lunghe
pause quando la mente si impantanava nel passato, la sua unica
consolazione, ponte fra un passato che amava e un presente che
invece l’aveva ferita, fra la sua bisnonna e una vita da
reinventare, di nuovo. Dal momento che quella bambina aveva rimesso
piede in paese, pensò con un gran sorriso sulle labbra, non era mai
rimasta da sola: Marie-Hélène trascorreva nella bottega tutti i
pomeriggi a giocare con lei e la «nonna adottiva», il soprannome
che aveva assegnato a Clelia, ormai una presenza fissa fra quelle
mura. Erano diventate inseparabili, riconosciutesi in un battito di
ciglia, anime affini. Dentro quegli occhi oltremare Dafne vedeva il
bisogno di accoglienza l’una nella vita dell’altra, che la spingeva
a fissare l’orologio con trepidazione con l’approssimarsi
dell’orario di uscita dalle scuole, per poi accogliere la piccola
con grandi abbracci e interi quaderni da colorare non appena la
vedeva fare capolino dalla porta con la cartella sulle spalle e la
divisa indosso.
E così era per sua nonna.
Clelia amava Marie-Hélène, forse perché
rivedeva in lei sua madre, e Dafne pregava che la piccola si
trattenesse ancora un po’ a Torralta, perché da quando era entrata
nelle loro vite, malgrado Milan, malgrado tutto, lei non aveva
trascorso una sola giornata senza concedersi una risata; era
divertente andare al parco con la piccola a dar da mangiare ai
cigni o giocare a palle di neve, o sdraiarsi sul pavimento della
bottega a fantasticare di mondi lontani e storie di pirati,
trasformando un tubo di carta in un cannocchiale e un vecchio
cavallo a dondolo in Pegaso: era semplice essere felici con la
piccola Kerla.
E poi Marie-Hélène le ricordava sé stessa alla
sua età; aveva una curiosità vorace riguardo al suo lavoro, ai
pennelli che sceglieva, alle vernici che sapeva riconoscere dal
solo odore: all’acqua, allo smalto, per interno o esterno. Un
interesse che avrebbe riempito Dafne d’orgoglio materno, se solo
fosse stata sua figlia, ma quando un pomeriggio la vide seduta con
le gambe incrociate di fronte al carretto dei gelati di Rodolfo,
con l’orologio di Augustus in una mano, l’istinto le suggerì che
c’era qualcosa, in lei. Qualcosa di inconsueto.
Le sedette accanto, seguendo la traiettoria
del suo sguardo fisso sulla scritta GELATI che la carteggiatrice aveva raschiato quasi
del tutto.
«Ti piace?» le chiese, ma la bambina non
rispose. Dafne allora le sfiorò la spalla facendola sobbalzare come
se fosse appena riemersa da un sogno. «Va tutto bene?»
Marie-Hélène ripose l’orologio nel sacchetto,
giocando con i cordini di stoffa. «Rodolfo è preoccupato, Dafne»,
rispose seria, sulla fronte il germoglio di una ruga.
«Rodolfo?» le fece eco lei corrugando la
fronte. «Tesoro, chi è Rod…»
E poi si bloccò, fissando la bambina e poi
Clelia, al telefono con una cliente. Si passò la mano sulle labbra,
pizzicandole nel tentativo di mettere a fuoco quello che aveva
appena sentito; ci doveva essere una spiegazione, perché quella che
aveva in mente era lontana anni luce dalla logica. Riunì le mani
davanti al viso guardandola come si fa con i bambini troppo
fantasiosi, ma in quei grandi occhi oltremare non scovò nemmeno la
traccia di una bugia. Una possibilità, quella, che la spaventò
ancora di più. “Assomiglia troppo a Maria Elena perché sia una
coincidenza, ma tutto questo non ha senso. Non ha senso”, si
ripeté, guardandosi intorno in cerca di una spiegazione. Fece un
respiro profondo, e riunì le mani davanti al viso, inginocchiandosi
di fronte alla piccola. «Hai incontrato Adelina, per caso, tesoro?
È stata lei a parlarti del marito?»
«No», rispose Marie-Hélène con una naturalezza
che le ghiacciò il sangue. «Me l’ha detto lui, Rodolfo. È
preoccupato per la moglie, perché anche se è morto da tanto tempo
lei non si è mai voluta risposare, e ora che Mario le fa la corte e
a lei piace, dice Rodolfo, dovrebbe smetterla di pensare di
tradirlo. “Io sono felice se lei è felice.” È stato lui a dirmelo»,
riferì. Abbassò lo sguardo sulla punta arrotondata delle scarpe di
vernice, e batté l’una contro l’altra. «Tu pensi che dovremmo dirlo
a Adelina?»
«No!» esclamò Dafne accorgendosi di aver
urlato solo quando Clelia, al telefono, si voltò indispettita
intimandole di abbassare la voce. Attese che la nonna tornasse a
discutere di listini e prezzi scontati, e posò la mano fra i
capelli della piccola. «Marie-Hélène, mi puoi dire come hai fatto a
sentire Rodolfo? Hai toccato qualcosa, per caso?» le chiese
accovacciandosi accanto a lei, ma l’altra scosse la testa con
decisione, lisciando le pieghe del suo vestito di velluto
rosso.
«No, mi ero appoggiata un momento al carretto
mentre giocavo con questo», rispose mostrandole l’orologio di
Augustus. «L’ho preso ieri dal cassetto di papa. Eravamo a cena insieme, ma quando siamo
usciti dal ristorante mi scappava, così maman ha chiesto a papa
di farci salire a casa sua. Mentre ero in bagno loro hanno iniziato
a parlare e poi a litigare, così quando ho finito invece di tornare
in sala sono andata in camera sua, dove ho trovato questo. Era in
fondo al cassetto, così l’ho preso.»
«Tesoro, non avresti dovuto farlo, senza il
suo permesso.»
«Lo so, ma se l’aveva messo laggiù non gliene
importava molto, no?»
«Questo non puoi saperlo, ma di certo avresti
dovuto chiedergli il permesso prima di prenderlo», ribadì indicando
il sacchetto che Marie-Hélène stringeva forte a sé, con le guance
in fiamme e il petto che si muoveva rapido sotto la stoffa, mentre
il viso della bambina s’infiammava di dispiacere.
«Credi che papa si
arrabbierà tanto? Credi che mi picchierà?»
Nella sua voce l’angoscia, le mani strette
all’orologio di Augustus mentre negli occhi ridotti a due fessure
lucide brillava un dolore autentico. Era sul punto di piangere, il
naso era già rosso e le labbra tremanti, perciò Dafne fece la sola
cosa che le venne in mente per calmarla: l’abbracciò.
«No che non si arrabbierà, stai tranquilla. Tu
digli che lo hai preso per sbaglio, perché credevi fosse un gioco,
e vedrai che non succederà niente», la rassicurò stampandole un
bacio sulla fronte, ma Marie-Hélène si strinse ancora più forte a
lei.
«E se invece si arrabbia e dice a maman di mandarmi via? Io non me ne voglio
andare!»
Dafne sorrise della preoccupazione esplosa sul
viso ora in fiamme di Marie-Hélène, e le diede un buffetto sulla
guancia. «Ma che ti viene in mente? Certo che non lo farà, sta’
tranquilla.»
«E se invece lo fa? Io non voglio andare via,
non voglio che maman mi mandi via!»
esclamò, ma a quel punto Dafne sciolse l’abbraccio e la guardò
negli occhi liquidi. La piccola Kerla era una bambina silenziosa e
solitaria, ogni volta che l’aveva spronata a giocare con gli altri
bambini al parco l’aveva sempre vista tornare indietro imbronciata,
ma non aveva mai notato in lei la sofferenza che quel pomeriggio le
spezzava la voce, ed era abbastanza sicura che non si trattasse di
un mero capriccio; Marie-Hélène, dopotutto, non ne aveva mai
fatti.
“C’è qualcosa in lei, nella sua famiglia, di
distorto”, pensò cancellandole le lacrime con un sorriso. Ogni
volta che aveva incontrato Milan con madre e figlia per le strade
di Torralta aveva notato che Camille manteneva sempre una postura
rigida con lei, e lui non si avvicinava mai alla bambina né la
prendeva per mano come qualsiasi papà. Mai. Sembrava piuttosto aver
stabilito con la figlia un rapporto di gelida cortesia, distaccato,
che Dafne si era spiegata con il bisogno e il timore di stabilire
un legame con la piccola, di dover amare qualcuno che dipendesse
totalmente da lui, che a malapena riusciva a bastare a sé
stesso.
Un legame, quello, che lo obbligava a
confrontarsi con un sentimento disinteressato, poiché bastava
osservare il sorriso con cui Marie-Hélène raccontava delle giornate
trascorse con suo padre per capire quanto lo amasse.
Milan però era un uomo introverso, difficile,
e, di fronte al viso rigato di lacrime della piccola, Dafne fu
costretta a ricordare di aver incontrato più spesso la coppia da
sola, senza la figlia al seguito. Li aveva incontrati ovunque,
soprattutto nei primi tempi; al mercato, mentre uscivano dalla
chiesa, e persino nel borgo vicino, durante un mercatino
dell’antiquariato, a rinnovare ogni volta una ferita che non voleva
saperne di rimarginarsi.
“Come se lui rifiutasse il suo ruolo di
padre”, si disse amareggiata mentre assumeva nitidezza l’immagine
di Camille stretta al braccio di Milan, intenta a rivolgerle
occhiate minacciose.
Una commedia cui avrebbe fatto volentieri a
meno di partecipare, ma non poteva chiudere gli occhi di fronte a
una bambina che le chiedeva aiuto. Quella volta non era di lei e
della sua storia d’amore naufragata, che si trattava.
Le accarezzò i capelli dorati e le sorrise.
«Perché dici che la mamma vuole mandarti via? Non è bello dire
queste cose, la farai soffrire.»
«Ma è vero!» protestò Marie-Hélène agitando i
pugni, scossa dai singhiozzi. «Maman ha
detto che è troppo impegnata per occuparsi di me, che io sono
malata, e che se papa non mi prenderà
con sé mi darà a delle signore che mi porteranno via. Io non ci
voglio andare, però, io voglio restare con te! Ti prego,
maman, dille di farmi restare»,
insistette strattonandole la maglia.
Dafne si lasciò travolgere da Marie-Hélène, da
quel «maman» quasi urlato nelle
orecchie a serrare le file di un rapporto nato per caso e diventato
viscerale, ma nella mente aveva il caos. La bambina che stringeva a
sé non sembrava affatto malata: esteriormente era perfetta, nello
zaino non aveva trovato tracce di medicine o cose simili, e anche i
suoi riflessi erano ottimi, ogni volta le loro guerre nevose
finivano con lei imbiancata da capo a piedi e Marie-Hélène
perfettamente asciutta, perciò la ragione doveva essere altrove. Un
altrove che la spaventava, talmente poteva essere grande.
«Perché la mamma dice che sei malata? Cosa c’è
che non va?»
Marie-Hélène si toccò la fronte. «Ici», rispose. «Maman
dice che sono malata alla testa, gliel’ha detto monsieur le médecin. Lui dice che vedo cose che non
esistono, ma non è vero: io li vedo. Quei signori che mi parlano io
li vedo per davvero. È iniziato tutto da quando la prima volta ho
indossato il basco. Da allora tocco delle cose e vedo le persone
che non ci sono più. I fantasmi, dice maman, ma loro sono veri, io li vedo. Io non sono
malata.»
Dafne trattenne il fiato, e sgranò gli occhi.
«Tesoro, a quale basco ti riferisci quando dici che tutto è
iniziato indossandolo?» balbettò, nonostante conoscesse già la
risposta confermatale dal copricapo che la bambina le indicò con
l’indice. Il basco rosso, sempre lui. Lo stesso che indossava la
bisnonna nei suoi sogni. Si schiarì la voce, e si passò la mano fra
i capelli. «D’accordo, mi sai dire dove lo hai preso?»
La piccola ci pensò su, e le sorrise.
«Mamam mi ha detto che glielo aveva
regalato papa, e dato che era molto
antico e molto bello, lo ha tenuto e lo ha dato a me. Dice che mi
dona», aggiunse.
Dafne fissò il basco appoggiato sul tavolo, e
di nuovo rivolse l’attenzione alla piccola. «Ti dispiace farmelo
toccare? Solo per un secondo, te lo restituisco subito.»
«Certo», rispose Marie-Hélène, correndo a
prenderlo. Glielo consegnò, ma al primo tocco Dafne si sentì
mancare. Subito la raggiunse una visione, quella di Maria Elena
bambina che correva per le strade di una cittadina con la cartella
della scuola che le sobbalzava sulle spalle canticchiando una
filastrocca, la stessa che qualche volta aveva sentito cantare
anche a Marie-Hélène. La vide saltare nello schema disegnato col
gesso bianco di un gioco da bambini urlando «Campana!» e correndo
subito via, e spolverare da quello stesso basco una spruzzata di
neve bianca. Era una bambina felice, e forse quella stessa felicità
stava cercando di trasmetterla alla figlia di Milan, affinché non
le mancasse mai il sorriso. “Avevi e hai proprio un cuore grande”,
pensò Dafne rivolta alla bisnonna, ritrovando nella figlia di Milan
la stessa gioia degli occhi, lo stesso sorriso di Maria Elena.
Restituì il basco alla piccola e annuì. «Grazie», sussurrò
imprimendole un bacio sulla fronte.
Dunque anche lei, come tutte nella sua
famiglia; anche la piccola Marie-Hélène, così fragile, in
apparenza. Anche lei con un dono che assomigliava ogni giorno di
più a una maledizione.
Si passò la mano sul viso stanco, su una
storia che il sorriso di una bambina aveva riportato in superficie.
Erano lì, vivi; se solo tendeva l’orecchio li sentiva ticchettare
nei loro sacchetti di velluto colorato. Erano Maria Elena e
Augustus, la storia, le pagine di un amore interrotto, imperfetto
come lo sono solo i grandi amori, sbagliati ed eterni perché è
proprio lì, nella crepa che moltiplica un’immagine spezzata di due
corpi allacciati in un abbraccio, che vive il loro splendore.
Un ticchettio lontano che Dafne sentì
ripetersi come una filastrocca nella testa, ogni volta di un mezzo
tono più alto, vicina sino a far emergere il volto di Milan dalle
paludi della sua emicrania. Strizzò gli occhi, le mani strette
intorno alle spalle ad abbracciarsi.
“Il tempo”, pensò mentre un brivido le
serpeggiava lungo la schiena, “il tempo è un dittatore
sanguinario.”