28.
Il chiarore della neve caduta durante le ore notturne amplificava i colori, ovattando invece i rumori intorno alla Limonaia. Babette e le altre capre sonnecchiavano nei loro giacigli, non un suono proveniva dalla stalla, mentre i limoni in vaso che nella bella stagione accoglievano gli ospiti in giardino se ne stavano al riparo, avvolti nel tessuto e isolati dal terreno ghiacciato per proteggersi dall’abbondante nevicata della notte.
Dafne canticchiava in cucina, a proteggerla dal freddo il maglione di Milan e un paio di calzettoni di maglia, regalo di Clelia di qualche Natale prima. La moka era sul fornello, mentre lei riempiva il bollilatte smaltato a fiori di sua nonna, con il sapore della notte ancora impresso sulla pelle.
Lo scroscio dell’acqua nelle tubazioni che correvano nel soffitto strisciando lungo la parete le indicava che Milan si stava ancora sbarbando, perciò aveva tutto il tempo necessario per preparare la colazione natalizia. Prese dal cassetto il runner di lino grezzo che aveva comprato a Roma e le sue tazze preferite, quelle bianche da caffellatte con inciso un cuore rosso in stile tirolese, e dispose sulla tavola un cesto di frutta secca e pigne trovate in giardino. Vi incastonò quattro candele bianche, che una volta accese riscaldarono subito l’atmosfera: il profumo legnoso delle stecche di cannella si diffuse istantaneo nell’aria, unitamente a quello delle bacche di anice stellato e dei rami d’abete.
Dafne indietreggiò di un passo per osservare il suo piccolo capolavoro, la scatola di fiammiferi stretta nel pugno e nel petto il cuore felice di una bambina.
“Il primo Natale con un uomo che non ha una moglie con cui brindare e scartare i regali sotto l’albero, lasciando me a guardare le pareti di casa in compagnia di una bottiglia di Chianti, una confezione di lasagne precotte e un panettone mezzo rinsecchito con cui riempire le ore in attesa del suo sms di auguri”, pensò ripercorrendo i suoi ultimi Natali. Era sempre rimasta a Roma, da quando conosceva Ettore; gli ultimi giorni dell’anno erano stati spesso i più impegnativi per lo studio, e a volte capitava che lui riuscisse a liberarsi dalla stretta familiare per qualche ora, ma comunque lei non aveva mai voglia di festeggiare, soprattutto dopo l’operazione. Le era sufficiente leggere la parola «dicembre» sul calendario per scatenare il suo malumore.
“Chissà cosa direbbe oggi, vedendomi così allegra”, si domandò divertita al pensiero di un’altra sé con cui confrontarsi. Era un gioco, eppure se si soffermava a guardare il proprio ritratto riflesso nel cucchiaino che stava lucidando vedeva un’altra Dafne, una che fischiettava motivetti natalizi impaziente che Milan la raggiungesse per fare la loro prima colazione di Natale insieme.
Si soffermò a pensare alla donna, l’altra sé, che invece avrebbe trascorso la giornata sdraiata sul divano a guardare film in pigiama, con la peggiore accozzaglia di dolciumi a disposizione e il telefono sempre appoggiato sulla pancia con la suoneria al massimo.
«Una donna che non mi manca per niente», sussurrò soffiando sul fiammifero con cui aveva acceso nuovamente le candele, orgogliosa del centrotavola che aveva composto.
«È bellissimo», disse Milan sorprendendola alle spalle, preceduto dal profumo resinoso del dopobarba, le braccia che scivolavano intorno ai fianchi di Dafne che si adattava al suo abbraccio.
«Proprio bello», fece loro eco Clelia scrollandosi la neve di dosso, le guance rosse e i capelli d’argento spruzzati di polvere ghiacciata.
Gettò l’ombrello nel cesto accanto alla porta e si sfilò la mantella, ma le bastò rivolgere un’occhiata alla nipote per dirle tutto quello che doveva sapere, per farle percepire la gioia che provava nel vederla finalmente sorridere. Poi guardò Milan perché si sentisse accolto, e gli sfiorò la manica della camicia per fargli intendere che avrebbe dovuto prendersi cura di sua nipote e giurarle che sulle sue labbra quel sorriso non sarebbe mai sfiorito.
«Altrimenti dovrai vedertela con me, e non pensare che sia innocua solo perché ho i capelli bianchi», lo minacciò schioccando un bacio sulla guancia di Dafne. Prese il ferro accanto al camino per smuovere il fuoco sopito e vi gettò il contenuto di un sacchetto che conservava accanto alla finestra, liberando nell’aria il profumo resinoso e dolce delle bucce d’arancia che bruciavano tra le fiamme tornate vive.
Dafne affettò la focaccia dolce di noci e uvetta che Clelia aveva preparato la sera prima, mentre Milan sollevò incuriosito il coperchio della pentola sul fornello spento contenente il bollito per il pranzo Le due donne arricciarono il naso protestando, infastidite dall’odore del brodo, e gli intimarono di rimettere subito il coperchio al suo posto.
«Allora», riprese poco dopo Clelia portandosi le mani ai fianchi, «vogliamo farla questa colazione sì o no? A mezzogiorno arriveranno gli ospiti, perciò voi due ora mangerete e poi mi darete una mano con i preparativi. E non voglio sentire storie, sia chiaro», li ammonì precedendo di un soffio Dafne, che abbracciata a Milan reclamava un po’ d’intimità con lui.
Una vicinanza che, più profonda e vera, entrambi riscoprirono nei pochi giorni che li separavano dal nuovo anno, immersi in una bolla di felicità.
La Limonaia divenne in quei giorni un andare e venire di ospiti, amici di famiglia e del burraco di cui Clelia era un’insospettabile campionessa, e poi ancora la visita di Giuseppina, di don Gino che fece capolino per una mano di carte e un bicchiere di vino in compagnia, di Adelina, passata a porgere i suoi auguri e un cestino di frutta esotica insieme a Mario, incontrato sulla soglia con il trasportino di Guache ben stretto nella mano.
Una coincidenza che Dafne accolse con un sorriso, felice di rivedere la gatta e stupita per il cesto della vedova Bianchini.
«In segno di ringraziamento per quello che stai facendo non soltanto per me, ma per tutta Torralta: con il tuo lavoro ci stai restituendo la memoria, l’amore per quello che crediamo di aver perso. L’amore per i nostri cari che vivono ancora dentro di noi e negli oggetti che ci circondano», disse con le mani raccolte sulla borsetta e un sorriso tirato, quando il suo sguardo incontrò quello del vinaio, che la ascoltava estasiato. «Inoltre vorrei ringraziarti personalmente per la bellissima cuccia per la mia Stella, la trovatella che ho preso con me qualche tempo fa. So che Mario si è rivolto a te per questo regalo. Da quando è arrivata a casa, Stella non fa che starsene appallottolata lì tutto il tempo: la adora, letteralmente. E piace molto anche a me», aggiunse scostando una ciocca dalla fronte, abbassando gli occhi non appena sentì sfiorarsi da quelli impazienti di Mario.
«Bene, allora che ne dite di una tazza di tè o una cioccolata calda per festeggiare?» propose Dafne indietreggiando per permettere loro di entrare. «Clelia sarà felice di sapervi qui: ha appena sfornato una teglia del suo pezzo forte, le meringhe, perciò dovete assolutamente fermarvi ad assaggiarle.»
«Garantisco sulla loro bontà», intervenne Milan posando la mano sulla pancia, mentre l’altra planava sul fianco di Dafne. «Quelle che ha fatto ieri le ho mangiate praticamente tutte io, e vi posso assicurare che sono deliziose. Erano deliziose», si corresse baciandole la spalla.
Uno sguardo ancora fra lui e Dafne, stretta nell’abbraccio di un calore ritrovato; c’era complicità fra loro, empatia, gioia anche là dove le parole non arrivavano, e amore nel modo in cui Mario scansò la sedia per far accomodare Adelina al tavolo. Ce n’era persino nel vedere Babette picchiare col muso sul vetro della finestra affinché la sua padrona si decidesse a farla entrare in casa.
Una felicità che Dafne aveva temuto di non assaggiare ancora, dopo la malattia e la fine della relazione con Ettore. Aveva immaginato la sua vita finita allora e con lei le scorte di giorni sereni affidate a ciascun essere umano, e spesso la notte era rimasta sveglia a domandarsi quando tutto sarebbe finito; la gioia esige un prezzo, lo aveva imparato sulla sua pelle, e ogni volta che si voltava verso Milan che dormiva nel suo letto sentiva di stare comprando ore, tempo preso a credito al banco dei pegni della vita.
Prima o poi qualcuno avrebbe bussato alla sua porta a riscuotere il debito.
Una donna, forse, come quella che aveva visto uscire dal Centro culturale francese a Roma.