10.
Dafne salutò Milan dalla porta, la borsa a tracolla e la sciarpa stretta intorno al collo a proteggerla da un raffreddore che le aveva disegnato un naso da clown.
«A domani!» disse prima di tuffarsi nella notte di Torralta. Da una finestra al secondo piano del palazzo accanto sentì una voce anonima aprire il telegiornale con l’annuncio di nuove catastrofi mondiali, mentre in quello di fronte una donna ritirava il bucato e qualcuno suonava al pianoforte l’Ave Maria di Gounod. Lungo il corso, invece, la colpì lo scintillio delle minuscole luci d’argento che incorniciavano l’ingresso del ristorante più lussuoso del paese, dietro le cui vetrine liberty Dafne vide due innamorati scambiarsi un bacio, mentre nel negozio di giocattoli dall’altro lato della strada faceva capolino una cassetta rosso fiammante con la scritta «LETTERE PER IL POLO NORD» bene in evidenza.
«Natale sembra essere già arrivato», sussurrò nonostante il calendario rammentasse che mancava ancora qualche settimana all’inizio dell’Avvento. Eppure Dafne percepiva già una certa elettricità nell’aria, un fermento nelle parrocchie in cui si provavano sino a tarda sera i canti della tradizione e si procedeva con gli ultimi ritocchi alle statue del presepe, mentre per le strade si aggiravano i tecnici del comune muniti di metro e mappe della città per stabilire dove posizionare le luminarie.
La vita in paese rifioriva, alle porte dell’inverno, ma era un’allegria che Dafne non riusciva a far sua, non stavolta. Salutò Mario, che se ne stava davanti al bar con la schedina appena giocata in mano, e attraverso la vetrina della trattoria lanciò un bacio a Ginevra, intenta a servire la cena alla giunta comunale, tuffandosi poi nella solitudine del vicolo che l’avrebbe condotta sino alla Limonaia.
Rigirò fra le dita il biglietto da visita dell’antiquario al quale avrebbe dovuto far visionare l’orologio quel giorno stesso, se non avesse avuto un incidente che l’aveva costretto a una visita in ospedale.
«Proprio una bella fortuna», borbottò, prima di attraversare il cancello di casa. Babette e le altre capre erano già a riposo, non appena si era avvicinata alla porta della stalla aveva sentito lo scalpiccio degli zoccoli, ma quando vi si affacciò vide che la luce nel laboratorio attiguo era già spenta, segno che Margherita era passata a dare una mano a Clelia con i formaggi che stagionavano già in forme e canestri. Avrebbe voluto esserle più utile, da quando era tornata non aveva visto Clelia fermarsi un momento, ma il lavoro alla bottega la assorbiva totalmente, e la sera aveva a malapena la forza di mandare giù un cucchiaio di minestra e trascinarsi a letto. Richiuse la porta del laboratorio e si diresse verso il casale, da cui intravedeva una luce fioca tratteggiare la trama della tendina in cucina.
«Ciao nonna», annunciò alla sala in penombra, agganciando sciarpa e borsa al portabiti. Si sfregò le mani e si diresse in cucina, dalla quale sentiva provenire un intenso profumo di cavolo nero e fagioli, ma la voce di sua nonna la bloccò a metà del corridoio.
«Sono qui, tesoro, nello studio», la richiamò Clelia guidandola sino al cuore della casa, custode del sapere della sua famiglia da almeno tre generazioni.
Era una stanza di dimensioni modeste le cui pareti erano interamente avvolte da robuste librerie in mogano che sfioravano il soffitto, con al centro il tavolo in noce e la lampada ministeriale inglese di Levante, il regalo di un giovane professore di Cambridge incontrato durante la guerra di Liberazione, alla luce della quale aveva annotato negli anni tutti i suoi conti.
In quella stanza Dafne aveva imparato a gattonare, protetta dalle cadute dai morbidi tappeti che Clelia batteva ogni settimana, e lì aveva sostato sino a addormentarsi con un libro sulle ginocchia, seduta accoccolata poltrona di pelle borgogna vicino alla finestra, mentre Levante, seduto alla scrivania fumando la pipa, compilava registri contabili e controllava gli incassi ricavati dalla vendita dell’olio di famiglia. Quella stanza era stata il suo rifugio e la custode di un segreto che Levante aveva voluto condividere solo con sua nipote: solo Dafne, infatti, sapeva della sua collezione di monete antiche, gelosamente custodita in un cassetto di cui lui era l’unico a possedere la chiave. La stessa chiave che il giorno del suo funerale lei aveva nascosto nel taschino della sua giacca, giurandogli di mantenere il segreto.
Posò la mano sullo stipite, incerta se oltrepassare la soglia. Senza suo nonno quelle pareti le sembravano spoglie, inanimate, perché, per quanto le amasse, Clelia non poteva riempirle come aveva fatto lui.
Dafne inspirò, decisa a concedersi un tuffo in un passato nuovo, cui si sarebbe dovuta abituare, e guadagnò il centro della sala. «Ciao nonna, che fai?»
Clelia, in vestaglia e pantofole, era intenta a lucidare il tagliacarte d’argento e gli altri preziosi oggetti da scrivania del marito, sulla punta del naso gli immancabili occhiali. «Stavo pulendo l’argenteria di là in cucina quando all’improvviso mi sono ricordata di tutti i piccoli oggetti che Levante custodiva qui. Te li ricordi?»
«Certo che me li ricordo, ne aveva a decine.»
«E Dio solo sa quanto ci teneva!» esclamò facendo scivolare il panno lungo una lama decorata con una passamaneria rosso cardinale.
Dafne osservò le mani della nonna accarezzare con dolcezza il ricordo del marito, e all’improvviso si sentì di troppo in quella stanza, lì con lei. «Ho visto che c’è la zuppa sul fuoco, vuoi che le dia un’occhiata?»
«Te ne sarei grata, ma non far caso al disordine che c’è sul tavolo; devo ancora rimettere tutta l’argenteria a posto e…»
«Non preoccuparti: ho visto di peggio, fidati», replicò avvicinandosi a lei per un bacio, prima di confrontarsi con il caos della cucina; c’erano scatole aperte ovunque, servizi di posate e argenteria di ogni genere e dimensione sistemati in ogni angolo. Dafne li superò, scansò un putto che fissava il vuoto con espressione innamorata e mescolò la zuppa, ma quando appoggiò il cucchiaio sul tavolo riconobbe a prima vista una forma già nota. Sollevò un lembo della carta di giornale con cui Clelia avvolgeva tutti i suoi ricordi, ma quando mise a fuoco l’oggetto la sua prima reazione fu quella di coprirlo di nuovo. Non era possibile.
Fece un respiro profondo e lentamente risollevò la carta.
Nessun errore: di fronte a lei c’era una copia esatta dell’orologio trovato in mansarda.
Non osò prenderlo, il timore di scatenare di nuovo lo scoppio nella sua mente le faceva tremare le gambe. Già a occhio nudo era evidente che gli intarsi erano gli stessi, anche se per averne la certezza corse a prendere l’altro che aveva portato con sé dalla bottega. Lo estrasse dal sacchetto di velluto blu, e una volta accostato l’uno all’altro ogni dubbio svanì: erano gemelli, nati dalla stessa mano delicata che aveva realizzato gli intarsi sul copripolvere.
«Dafne, manca molto alla zuppa?» le domandò Clelia dallo studio, ma lei non rispose, persino parlare in quel momento le risultava impossibile.
Due orologi uguali avevano attraversato decenni, forse addirittura secoli, sino a giungere nel ripiano ingombro della cucina di un’artista del riciclo col pallino delle storie.
«Dafne?» la richiamò la nonna, ma le rispose di nuovo il silenzio.
Lei, nel frattempo, picchiettava le dita sulle labbra sigillate catturando pensieri e parole. C’era qualcosa che non tornava, quei due orologi non erano una banale coppia di oggetti antichi scovata chissà dove; c’era una storia dietro quelle casse chiuse, Dafne riusciva a percepire il brusio prodotto dalle loro voci.
Afferrò un canovaccio nel tentativo di aprire il copripolvere del secondo, ma quando quello scattò mostrandole la medesima crepa sul quadrante e l’identica posizione delle lancette, immobili a registrare le cinque e trenta, sorrise. Quella era la prova che cercava, la testimonianza che quei due oggetti erano legati da un filo sottile che superava tempo e confini geografici. Per averne la certezza, tuttavia, non le restava che fare ciò che più la spaventava: prendere l’orologio e stringerlo fra le dita.
«Coraggio Dafne», si ripeté con le labbra secche e gli occhi socchiusi, le dita che tremavano a mezz’aria. Poi chiuse il pugno, ed espirò forte. «Avanti, non può essere così spaventoso», bisbigliò, rivolta a quella parte di sé che scalciava, terrorizzata all’idea di ritrovarsi di nuovo in un incubo.
La zuppa di cavolo sobbolliva accanto a lei, mentre nell’altra stanza Clelia continuava a lucidare l’amore mai sopito per il marito. Era il momento, non ne avrebbe avuti altri.
«Okay», disse infine. Tese la mano verso il secondo orologio, e si preparò al salto.
Un calore alieno si propagò nella stanza, che sfumò nei contorni e cancellò ogni traccia di odore e colore intorno a lei.
La luce si spense, e Dafne si ritrovò immersa nel buio assoluto, nelle orecchie solo l’eco del suo respiro. Le mani si ricoprirono di un leggero strato umido, sino a quando all’improvviso una luce fioca si accese in un angolo e gli occhi si riempirono della visione di due corpi stretti, abbracciati. Le bastò una sola occhiata per riconoscerli: erano loro, stessi contorni sfumati, stessa sensazione di calore.
Erano lontani da lei, ma Dafne sentiva vivo e pulsante l’amore che li univa, che disegnava scie luminose tutt’intorno; era nei loro respiri, nei battiti sincronizzati di un cuore gemello, identico meccanismo e lancette.
Sorrise, ma a poco a poco i contorni surreali del sogno sfumarono sino a svanire, sostituiti di nuovo dal buio assoluto. Il suono di un gocciare lento, estenuante, riempì il silenzio; quel rinculo metallico le fece pensare all’acqua che picchia sulla grondaia dal tetto, alla prima neve che cola via dalle tegole. Un suono lento, pieno e ripetuto, finché un campanello squarciò irruento la calma assoluta del momento. Dafne intravide uno spicchio di luce oltre quella che le sembrò una porta che andava aprendosi, e poi nessun volto, solo la canna scura di una pistola che puntava dritto davanti a lei, pronta a fare fuoco.
«Dafne?»
«No!» urlò lei coprendosi il viso, più forte ancora stretta all’orologio.
Clelia la guardò scettica, nella mano il cucchiaio di legno impregnato di brodo. «Tesoro, non volevo spaventarti, credevo mi avessi sentito. È da un pezzo che ti chiamo!»
Dafne scosse la testa e indietreggiò, confusa e spaventata al pensiero che la nonna potesse intuire cosa era appena accaduto. Una quinta nera era caduta sulle immagini legate all’orologio, mentre gli occhi frugavano in quelli di Clelia in cerca di una via d’uscita. Non voleva parlargliene. Non poteva, non ancora. La reazione alle sue visioni e il modo in cui la donna cambiava espressione ogni volta che qualcuno bussava alla loro porta in cerca di conforto per un amico o un parente scomparso erano un chiaro segnale che non era pronta a capire, o che, peggio ancora, avrebbe osteggiato le ricerche.
Perché Dafne, come aveva promesso a sé stessa mentre cercava una spiegazione con cui distogliere l’attenzione di sua nonna dalla verità, era determinata ad andare fino in fondo.
A qualunque costo.
Si frappose fra gli orologi e i fuochi della cucina, facendosi scudo del passato che aveva riempito di inquietudine quegli ultimi minuti. «Scusami, ero con la testa fra le nuvole», rispose trattenendo uno sbadiglio. «Oggi sono a pezzi, credo proprio di aver bisogno di un lungo bagno caldo e di una bella dormita. Ti spiace se intanto vado in camera e mi cambio?»
«Vai pure, tanto di là ho finito; nel frattempo che la cena finisce di cuocere rimetto in ordine e preparo la tavola.» Si sollevò sulle punte e premette le labbra sulla fronte di Dafne, facendole una carezza. «Non vorrei ti stessi ammalando, tesoro; sei un po’ calda, sai?» disse preoccupata, ma Dafne fece spallucce.
«Avrò preso un po’ di freddo.»
«Sarà come dici tu, ma intanto corri a farti un bagno, io penso al resto.» Posò il cucchiaio della zuppa sul piano e afferrò il pomello del pensile, immobilizzandosi di colpo. Si voltò verso la nipote, negli occhi uno sguardo allarmato. «Ti piacciono ancora gli spaghetti in brodo, vero?»
Dafne scoppiò a ridere, sollevata: Clelia era ancora dolcemente disarmante, quando si trattava di coccolarla, quasi che quella piccolezza fosse basilare per la sua felicità.
«Sono i miei preferiti», rispose. Nascose l’orologio nei jeans e sgattaiolò dalla cucina senza dare le spalle alla nonna, che riprese le sue faccende fischiettando allegra. Divorò le scale che la conducevano al piano superiore e si barricò dietro la porta della propria stanza, scivolando lungo la superficie piana del legno fino al pavimento. «Mio Dio, sono un mostro», sussurrò nascondendo il viso fra le mani. Non aveva avuto mai alcun segreto con sua nonna, mentre ora sottraeva dai preziosi di famiglia un orologio basandosi sulle sue visioni. Era tutto illogico, folle, se guardava a quello che era appena accaduto con gli occhiali della razionalità, ma l’istinto continuava a rassicurarla di aver fatto la cosa giusta, nonostante la coscienza le avesse voltato le spalle, risentita. «Sono un mostro, sono un mostro», ripeté mentre il ticchettio di un tempo interrotto risuonava nei suoi occhi pieni di angoscia. Prima il boato devastante custodito nel primo orologio, e poi la canna di una pistola spianata contro i suoi occhi terrorizzati. Se non avesse fatto chiarezza sarebbe impazzita, ma non poteva più fare tutto da sola, non riusciva a sostenere il peso di troppi segreti.
Appoggiò i due orologi sul pavimento, le mani infilate nelle tasche posteriori dei jeans e negli occhi una serie infinita di domande.
«Che cosa nascondete, di chi siete? E perché siete arrivati sin qui, che cosa vi lega?»
Domande, queste, che si disciolsero nel profumo vanigliato dei sali da bagno, mentre la voce dei Platters cantava una struggente Smoke gets in your eyes.