31.
«Io lo so che stai male.»
Dafne non faceva che pensare alle parole di
Marie-Hélène, al suo sguardo pieno di paura la sera in cui le aveva
sistemato lo zaino sulle spalle e l’aveva salutata con un
abbraccio, stringendola forte a sé prima di lasciarla andar via. Si
abbracciavano sempre a fine giornata, prima che lei tornasse da
Camille e dal suo amico immaginario con cui le aveva raccontato di
parlare prima di addormentarsi, una presenza che Dafne sapeva
essere molto più che il semplice frutto della fantasia di una
bambina. Marie-Hélène parlava con i defunti, ci giocava, confidava
loro i suoi pensieri più profondi; lei aveva il dono, un rebus che
Dafne non riusciva a risolvere, dal momento che tra la figlia di
Milan e la sua famiglia non esistevano legami di sangue.
“Eppure lei ha lo stesso nome della mia
bisnonna, e le somiglia in modo impressionante; ci deve essere un
legame fra le due. O forse quello che vuole dirmi Maria Elena è
qualcosa di più profondo, che supera i vincoli carnali. Forse lei
ha mandato Marie-Hélène da me affinché capissi che esistono legami
più forti del sangue, connessioni che la genetica non può spiegare,
ma che sono vere, palpabili”, si ripeteva girando in tondo all’idea
di un ponte fra loro, una spiegazione a quello che la pelle aveva
avvertito al primo sguardo. E poi era arrivata quella frase che
l’aveva fatta tremare. “Io li vedo”, aveva detto, ed era vero.
Marie-Hélène l’aveva pronunciata con lo sguardo serio prima di
sgattaiolare fra gli scatoloni di materiale che Milan inviava
settimanalmente in bottega per il matrimonio di Vera, una frase che
Dafne non riusciva a togliersi dalla testa.
Almeno fino a quando i paramedici
dell’ambulanza non dovettero caricare a bordo Clelia priva di sensi
davanti ai suoi occhi impotenti.
Angina, le avevano riferito i dottori dopo una
nottata trascorsa seduta in un’anonima sala d’aspetto con le
piastrelle bianche che amplificavano la luce abbagliante dei neon,
invasa dall’odore stantio della malattia che aleggiava
tutt’intorno. Ore incolori che si inseguivano sul quadrante
dell’orologio appeso sopra la porta, fra attese interminabili e
conversazioni strappate alle angosce di chi su quelle sedie pregava
per la salvezza dei propri cari.
Dafne era riuscita appena a scambiare qualche
parola con una donna in ansia per la sorella, incinta e con gravi
minacce di aborto in seguito a un incidente d’auto, ma niente
riusciva a distrarla dal pensiero di Clelia oltre la porta a vetri,
dal ricordo delle parole di Marie-Hélène.
Bevve tre caffè in attesa dell’alba, le gambe
che ormai conoscevano ogni centimetro di corridoio, quando
finalmente i medici le diedero la possibilità di salutare la
nonna.
«Riteniamo opportuno tenerla ancora qui per
qualche giorno; abbiamo bisogno di fare alcuni accertamenti e
monitorare la paziente», le riferì il cardiologo, un uomo sulla
quarantina con grandi occhi neri e una pelle del colore del caffè
tostato che rievocò in Dafne i paesaggi indiani.
Lo ringraziò e si precipitò nella stanza della
nonna, ma, nonostante il forzato ottimismo durante la visita della
nipote, Dafne intuì quanto in realtà fosse provata; Clelia non
poteva sopportare i suoi ritmi frenetici, il peso di una vita fatta
di scadenze serrate e continui arrivi di ordinazioni dall’estero,
che spesso invadevano lo spazio della bottega con pacchi di oggetti
da riportare alla vita provenienti dai più importanti aeroporti
internazionali.
Era una vita folle, potenzialmente letale,
Dafne lo sapeva; lei l’aveva scelta per sé, l’aveva voluta, ma non
avrebbe mai messo in pericolo la vita di Clelia. Mai, per nessuna
ragione al mondo, perché quella donna ora minuta che le sorrideva
stanca era tutta la sua vita, un’esistenza che da quando Clelia era
costretta in un letto d’ospedale trovava ogni giorno più spenta.
Lei stessa lo era, e persino Mario, passato in bottega in cerca di
Adelina, se ne accorse.
«Hai la faccia stanca, Dafne; non puoi
continuare a dividerti ogni giorno fra ospedale e lavoro. Devi
rallentare.»
«Rallentare, dici?» ripeté lei con la matita
fra le labbra per spuntare un paio di voci dall’elenco di cose da
fare, una mano a chiudere le ali di un cartone di materiale e il
dispenser con lo scotch per sigillarlo nell’altra. Richiuse in
fretta con un nastro il pacco contenente le rose per il matrimonio
di Vera che Milan le aveva inviato e lo trascinò dove aveva riposto
quelli che aveva già controllato, lasciandosi cadere a terra.
Incrociò le gambe, le braccia che massaggiavano la schiena mentre
su di lei la lampada di Levante ondeggiava al vento infiltratosi da
una fessura nella finestra. Avrebbe dovuto ripararla, chiudere la
falla, ma continuava a rimandare. Rimandava tutto quanto da giorni,
mentre Clelia ci aveva quasi rimesso la vita per correre dietro di
lei e raccogliere i pezzi: pagava al suo posto le bollette del
negozio, parlava con i fornitori, si assicurava che facesse dei
pasti regolari. Troppo per lei, per un cuore provato da tante
battaglie, bisognoso di riposo.
Parole che Dafne si era sentita ripetere anche
dalla sua oncologa, incontrata per caso nei corridoi dell’ospedale,
che visti i risultati degli esami che le aveva prescritto la invitò
a seguirla nella sua stanza per un breve colloquio.
«Clelia starà bene, ma tu devi prenderti cura
di te. Devi essere in forze, se vuoi esserle d’aiuto, e questo
significa tenere d’occhio la tua salute», l’aveva rimproverata
porgendole un foglio bianco fitto di sigle alfanumeriche. Nuovi
esami, per lei che detestava la sola idea di mettere piede in
ospedale.
Avrebbe voluto immaginare di prendere il largo
ancora una volta, come faceva con nonno Levante, levare l’ancora e
salpare verso terre in cui il suo nome era solo un insieme di
lettere, niente di più; era stanca della pressione che la
schiacciava, stanca che tutti avessero la risposta giusta per lei e
compilassero al suo posto la lista dei suoi doveri.
Lei non l’avrebbe nemmeno guardata, quella
lista; avrebbe continuato a correre e lavorare, a chiudere la
bottega la sera tardi e saltare in macchina per andare a trovare
Clelia e vedere con lei il suo telefilm preferito dallo schermo del
portatile, che quello fosse o meno l’orario di visita. Avrebbe
continuato a svuotare lo stomaco nel bagno dell’ospedale e poi
entrare sorridente nella stanza della nonna, la donna verso cui
aveva contratto un debito ormai insanabile, stampandole sulla
guancia il bacio della buonanotte prima di andar via e tornare in
bottega. Si sarebbe fermata alla rosticceria accanto all’ospedale e
con un paio d’ore di riposo a disposizione avrebbe ripreso a
lavorare.
Sarebbe potuta tornare alla Limonaia, ma non
riusciva ad attraversare nemmeno il cancello, sapendo che Clelia
era altrove, che una volta entrata in casa non avrebbe trovato ad
accoglierla il fuoco che crepitava nel camino e tantomeno il
profumo dei dolci che lei sfornava solo per vederla sorridere. Le
mancava il coraggio di guardare la poltrona col lavoro di cucito
rimasto a metà sul bracciolo, se non poteva avere la certezza che
la sera l’avrebbe trovata seduta lì a ricamare. Margherita si era
offerta di occuparsi della casa insieme a Adelina e Mario, che di
tanto in tanto la aiutavano con le capre e il formaggio, e per loro
soltanto lei accettava di tornare a casa; per delle amicizie che
sentiva di aver scoperto per la prima volta, di cui sentiva di non
poter più fare a meno.
Il loro affetto e quello che traspariva dalle
lettere che spesso accompagnavano gli oggetti che le venivano
affidati era tutto ciò di cui aveva bisogno. C’era amore nella sua
vita, malgrado le storture lungo il percorso.
Volse lo sguardo verso le casse piene di rose
di metallo, sullo sfondo il tableau de
mariage cui aveva appena applicato la vernice protettiva, e
il carretto di Rodolfo; le vaschette di acciaio che un tempo
avevano ospitato montagne di soffice gelato erano ricoperte di
ruggine, la stessa che non riusciva a grattare via dal petto ogni
volta che in paese incontrava Milan con la sua famiglia. Lei era
rimasta indietro come Ginevra, alle prese con il figlio del
banchiere di Torralta diventato in un paio d’anni un apprezzato
broker finanziario a New York; il giovane Galliardi era un uomo cui
l’amica non avrebbe mai nemmeno concesso un’occhiata se le
candeline che aveva spento la settimana prima non l’avessero fatta
sentire disperatamente sola, senza una prospettiva che la
soddisfacesse. Sognava sin da bambina una vita di agi, ed era
disposta a tutto pur di ottenerla, persino accettare la corte del
broker.
Ma Dafne no, lei non avrebbe fatto questo a sé
stessa.
Lo specchio però era un nemico insidioso anche
per lei, che a stento scambiava con l’altra sé nel vetro più di
un’occhiata; farlo avrebbe significato ammettere di aver sognato
una famiglia con Milan ed essere la madre di Marie-Hélène, senza
per questo sentirsi un mostro. Amava la piccola come fosse sua, ma
quei pensieri la facevano sentire ogni volta come una ladra di
identità, sbagliata, eppure più tempo trascorreva con lei, più
volte la incontrava per le strade di Torralta in compagnia dei
genitori, più Dafne si accorgeva di guardare alla felicità altrui
come i bambini guardano le vetrine delle pasticcerie: con le mani
sul vetro e il naso pigiato a lasciare l’impronta, nelle orecchie
la voce della madre a ripetere che troppi zuccheri fanno male alla
pancia, eppure non desiderando altro che rimpinzarsi di
cioccolata.
Voleva anche lei il suo pezzo di paradiso,
stringere al petto il figlio avuto dall’uomo che amava e trovare la
felicità in un altro paio di occhi. Ma aveva dovuto imparare in
fretta che la felicità è un regalo evanescente, precario: può
durare una vita intera o dissolversi in una parola sbagliata, al
capriccio del vento. Delle raffiche di aria ghiacciata avevano
travolto ancora una volta la sua vita.
Un’infelicità strisciante che Clelia non mancò
di notare seppure costretta in un letto d’ospedale, ripetendole di
non preoccuparsi per lei e riguardarsi.
«Sei dimagrita troppo, negli ultimi tempi, e
hai un’aria stralunata», le aveva detto osservandola mentre
spolverava il formaggio sulla minestra, la sciarpa già annodata
intorno al collo pronta per tornare in bottega. A Clelia bastò uno
sguardo, uno soltanto per trarre le sue conclusioni, mentre la mano
posata con eleganza sotto il mento lasciava scivolare la manica
della camicia da notte grigio perla lungo il polso. «Tesoro, sei
sicura di non essere incinta?» Dafne la fissò, a bocca aperta;
sarebbe scattata in piedi e corsa lontano se la minestra non avesse
minacciato di esondare dal piatto, se quella premura in fondo non
parlasse a un desiderio inespresso: la maternità. «Sarebbe una
bella notizia, no?» aveva insistito Clelia, ma a quel punto Dafne
era scattata in piedi, il viso paonazzo tradito dal maglione bianco
latte.
«Ma no, ovvio che non sono incinta», aveva
risposto indignata. Aveva afferrato borsa e ombrello ed era corsa
fuori, ma fra le mura della bottega quelle parole assumevano un
significato molto diverso. «E se invece aspettassi un bambino?» si
domandò accarezzando la pancia, mentre i rumori della notte
risuonavano nella quiete perfetta di un paesaggio innevato; le auto
sfrecciavano veloci per il paese deserto, il cortile interno su cui
affacciava il negozio era una bolla di silenzi.
Dietro le finestre buie, oltre le tende
tirate, si muovevano vite sconosciute, persone che quella notte si
rese conto che avrebbe voluto conoscere; di tanto in tanto le
spiava dal cortile, mentre aspettava che una vernice si asciugasse
o che la pressione feroce sulle tempie si placasse. Una donna
preparava la cena, un’altra fumava una sigaretta alla finestra per
cambiare panorama e prendersi una pausa dalla vita, e a un’altra
ancora un uomo stendeva il suo bucato da single sullo stendino in
comune con la vicina cui non osava ancora rivolgere la parola,
nonostante non aspettassero altro l’uno dall’altra da mesi.
“Vite sprecate”, pensava lei ogni volta che
gli incontri fra i due si esaurivano in un saluto sterile. “Ore
sprecate”, si diceva guardando la foto di una coppia sorridente
d’inizio secolo separata dalla guerra, da un tempo bugiardo e
assassino, riponendola nel libro di poesie.
«Tempo sprecato», ripeté a sé stessa, a bassa
voce, mentre la mano cercava vita nella pancia e il sorriso
appassiva in uno sbadiglio, prima di un’altra lunga notte di
lavoro.