11.
Dafne girò la chiave, sul parabrezza della Giulietta decine di scie opache tracciate dalla pioggia che li aveva sorpresi a metà strada. Posò il gomito contro il finestrino, l’altra mano che appena sfiorava il volante. Intorno all’auto parcheggiata nel corso le facciate fradice dei palazzetti antichi del centro con le chiavarde a tenere insieme le antiche arcate interne e le targhe degli studi professionali scritte con ottocenteschi caratteri dorati.
Milan, seduto accanto a lei, continuava a fissare il sacchetto blu che Dafne gli aveva consegnato poco prima, dopo avergli raccontato degli orologi ed essersi scusata per aver curiosato fra le sue cose. Gli aveva raccontato tutto, anche delle visioni che aveva avuto non appena li aveva toccati, e gli aveva restituito quello che lui le aveva spiegato essere il solo ricordo rimastogli della sua famiglia d’origine, nascosto sin dalla prima notte nella bottega in una delle scatole di Levante, e poi dimenticato. Ma quando lei gli aveva chiesto di raccontarle la storia di quell’orologio le parole erano indietreggiate sino a tornare nel cassetto della mente in cui le aveva custodite per anni.
«Non mi va di parlarne, è una faccenda privata.»
Quel pugno di parole fu il suo unico commento. Dafne avrebbe voluto ribattere, convincerlo ad aprirsi con lei, ma la presenza dell’orologio nel palmo con tutti i suoi significati le serrò le labbra.
«Vogliamo avviarci?» gli propose, fendendo il silenzio con la sua voce impaziente, mentre le dita correvano alle chiavi, la mano di Milan che si sovrappose inaspettata alla sua.
«Aspettiamo ancora qualche minuto, siamo parecchio in anticipo.»
Le chiavi si liberarono dalla stretta delle dita mentre la mano ricadeva mollemente sul ginocchio, lontana da lui. «Come vuoi.»
Milan inspirò e rivolse un’occhiata a quel sacchetto di velluto identico al suo, che gli parlava di un passato comune e di cui anche lui voleva scoprire la radice, il segreto dell’incrinatura sul vetro, di quell’arresto simultaneo sulla fragile linea del tempo. C’era una storia nella cassa intarsiata di quell’orologio, era un ponte sospeso fra due mondi, diversi come il suo e quello di cui faceva parte la ragazza con i capelli raccolti in una treccia e una romantica camicia a fiori lilla che gli sedeva accanto, con i jeans strappati sulle ginocchia e le guance arrossate dall’aria spessa.
Dafne rivolse un’altra occhiata all’Omega da polso del nonno e inspirò profondamente. «Ci siamo», annunciò voltandosi a prendere la borsa dal sedile posteriore. Le sudavano le mani e aveva la bocca asciutta, ma quando lui le chiese se stava bene lei rispose con un gelido «benissimo» a chiudere la questione. La feriva il modo in cui lui continuava a escluderla dalla sua vita, mentre lei non aveva tenuto per sé nemmeno una briciola delle sue scoperte: si era confidata come non aveva fatto nemmeno con Clelia, e lui l’aveva ripagata con un silenzio testardo.
Un errore che, ammise osservando le minuscole gocce d’acqua tremanti sul vetro, continuava a ripetere. “È una specie di schema, una maledizione che non riesco a scrollarmi di dosso”, pensò ripercorrendo la sua storia con Ettore, quel darsi senza mai tutelarsi, salvo poi ritrovarsi con il corpo straziato di ferite. «Meglio non pensarci», borbottò.
«Come?»
«Niente», ribatté sfuggendo dagli occhi indagatori di Milan. Strinse la presa sulla borsa, premuta contro lo stomaco contratto. «Credo che lui sia il solo che possa darci una qualche risposta. O almeno un indizio da cui partire», spiegò indicando l’insegna nera e oro del negozio di antichità sull’altro lato della strada. «Montini è fra gli esperti più quotati, nel suo ambiente, perciò se intorno a questi due orologi c’è una storia che vale la pena di essere raccontata, lui la fiuterà.» Fece scattare la leva e aprì la portiera, nella mente satura di domande nemmeno uno spiraglio di luce. «Andiamo?» disse chinandosi verso Milan, rimasto con la mano sulla maniglia e la portiera semiaperta.
«Come mai ne sei così sicura?»
Dafne si arrestò con un piede sull’asfalto, l’altro nell’abitacolo; anche lui non le sembrò più tanto tranquillo. Non faceva che tamburellare con la mano sul ginocchio, lo sguardo ramingo, nervoso.
“Forse”, pensò imponendosi di mostrare un po’ di comprensione, “come me è agitato al pensiero di quello che potremmo scoprire.”
Tornò dentro e richiuse la portiera voltandosi a guardarlo. Quelli di Milan erano occhi profondi, in cui sarebbe potuta annegare se non avesse mantenuto il distacco.
Si schiarì la voce, mentre con la coda dell’occhio teneva sotto controllo la vetrina dell’antiquario. «Mio nonno andava sempre da lui, quando aveva un dubbio su un oggetto. Professionalmente erano una coppia infallibile: Montini ha un ottimo intuito per gli oggetti di valore così come Levante l’aveva per le storie.»
«E se così non fosse, se non ci fosse proprio nessuna storia?»
«Ogni oggetto ce l’ha, persino questo», rispose mostrandogli il tappo mezzo masticato di una penna. «Il nipote di Margherita ha una predilezione per le penne: mastica tutti i tappi che gli capitano sottomano, e questo è stato la sua prima vittima.»
Milan osservò la plastica segnata dai morsi. «Tu non ti accontenterai di un aneddoto: tu cerchi una grande storia.»
«È vero, ma solo perché sono sicura che questi orologi sono speciali, altrimenti non si sarebbero fermati alla stessa ora, e non avrebbero attraversato il tempo e lo spazio per arrivare sino a noi.»
«Coincidenze?»
«Forse è più di una semplice coincidenza; se quegli orologi sono giunti a noi deve esserci una ragione. Non chiedermi come e perché lo so, ma è così, fidati.»
Milan si passò la mano fra i capelli corti, lo sguardo puntato fra i binari immaginari tracciati dai marciapiedi lungo il viale costellato di pozze d’acqua. «Tu vedi cose che non esistono.»
«O forse vedo quello che altri non sanno riconoscere», rispose lei in apprensione, osservando un bambino uscire di corsa dalla panetteria con un sacchetto sottobraccio, pronto ad attraversare la strada: nessun’auto all’orizzonte, semaforo verde per i pedoni. Il bambino mise un piede in strada quando una voce dal negozio lo richiamò, probabilmente per un resto sbagliato, e fece appena in tempo a fare dietrofront che una macchina apparsa da una traversa sfrecciò a tutta velocità sulle strisce pedonali, ignorando la segnaletica. Dafne si voltò a verso Milan, le braccia incrociate sul petto e un gran sorriso sulle labbra. «Che ti avevo detto?»
«Va bene, ma prendi in considerazione la possibilità che i nostri orologi siano semplici oggetti venuti dal passato e niente di più», rilanciò. Le vene del collo erano affiorate sulla pelle sottile, gli occhi guizzavano sulla figura agile di Dafne.
«Tu proprio non vuoi credermi, eh?» lo riprese lei, con dolcezza. «La loro età è già di per sé una storia, non lo capisci?»
«Io non capisco per quale ragione dobbiamo essere tutti ossessionati dal bisogno di essere straordinari», ribatté a denti stretti. Un cambio repentino nel paesaggio, una coltre di nubi a oscurare il cielo, in una notte di colpo piovuta sulla città e nel respiro serrato di Milan. «Perché abbiamo tutti bisogno di una dannata patente di specialità? Magari è la normalità la vera svolta, l’eccezionalità: essere persone normali, senza nessun superpotere. Nessun sensazionalismo. Niente di niente, solo una banalissima vita vissuta senza picchi.» Si voltò a guardarla, gli occhi che fiammeggiavano nei suoi. «Dimmi, Dafne, sarebbe così terribile scoprire di essere ordinari?»
Lei abbassò lo sguardo, la punta dello stivaletto scamosciato macchiata da un alone grigiastro di pioggia. «Perché hai così tanta paura di scoprire cosa ha da dirci Montini? Sei strano da quando siamo partiti da Torralta, come se fossi spaventato.»
«Non ho paura, ma sii ragionevole: perché questi due orologi dovrebbero essere diversi da altri milioni di orologi prodotti da altrettante migliaia di orologiai? Perché dovrebbero essere tanto speciali, e perché per te è così importante che lo siano?»
Lei sorrise, la testa abbandonata a guardare le nuvole rincorrersi. «Ti sfugge il punto, è evidente», rispose posando di nuovo lo sguardo su di lui, «perché vedi, non siamo noi a essere speciali o ad aver bisogno che qualcuno ce lo confermi. Sono questi due orologi a esserlo. E sai perché?»
«No.»
«Perché quando li ho tenuti fra le mani ho sentito la vita scorrere nella materia che li compone.»
«Cristo santo, Dafne, sono solo oggetti!»
«Sono oggetti, è vero, ma sono appartenuti a qualcuno. Persone che li hanno amati, che li hanno conservati perché noi oggi li trovassimo. Dopo quasi un secolo o forse più, te ne rendi conto?»
«Probabilmente no, dato che non riesco a sentirmi elettrizzato come te», rispose svogliato, sgranando gli occhi non appena sentì la sua mano scomparire nel calore di quella di Dafne.
«Devi solo imparare ad accettare che, seppure in un modo che non capisci o forse semplicemente non accetti, tutto questo ha un senso. Che poi è quello che stiamo cercando qui, oggi.»
Milan aggrottò la fronte. «Non ti seguo. Cosa staremmo cercando, esattamente?»
L’ultimo grido del sole si riflesse sul parabrezza, disegnando costellazioni di minuscole gocce d’acqua; un’intera galassia si aprì ai loro occhi inondati di luce, ma durò solo pochi secondi e quello annegò nel buio.
Dafne socchiuse gli occhi, godendo del calore offertole dall’ultimo raggio di sole. L’orologio era nella borsa, eppure per un momento le sembrò di stringerlo ancora fra le dita e assorbire il tepore sprigionato dai due amanti abbracciati. Era lì il cuore dell’ingranaggio, la scintilla che avrebbe rimesso in moto il tempo.
«Una storia, o forse due; è questo che stiamo cercando, la ragione delle mie visioni ogni volta che mi avvicino a loro. Le storie tengono in vita le persone, alimentandole con i ricordi, perché se fra cent’anni anche un solo uomo si ricorderà ancora di te, allora vorrà dire che tu non sarai morto, non sul serio. La morte non è una linea piatta che corre su un elettrocardiografo; non una diagnosi infelice, non una prognosi nefasta, non il colpo esploso dalla pistola del rapinatore mentre sei in fila alla posta, ma l’assenza di ricordi, il silenzio. È l’oblio a uccidere le persone.»
Milan abbassò lo sguardo sul suo sacchetto blu, nelle orecchie la voce di Dafne, ipnotica. Era semplice darle ascolto, chiudere gli occhi e lasciare che gli regalasse il sogno di una storia fantastica, a lui che non aveva conosciuto che sofferenza, durante la sua infanzia in Bosnia. Dafne però era bella, di una bellezza non da copertina patinata, ma sincera. Un bagliore in una stanza buia, l’acqua offerta a una pianta riversa su sé stessa. La mano tesa verso di lui in una notte disperata.
Strinse l’orologio nel pugno e inspirò a fondo. «Andiamo?»
Montini li ricevette nel suo ufficio sul retro, dopo più di mezz’ora di attesa.
Il parquet di quercia e la libreria edoardiana che correva lungo l’intero perimetro della sala conferivano un aspetto sobrio all’ambiente, sottolineato dalla penombra che rendeva l’atmosfera rarefatta, sospesa. Ad accoglierli la luce morbida di una lampada Tiffany originale, sulle pareti cornici di bronzo a protezione di onorificenze e titoli ottenuti in una carriera lunga una vita intera, testimoniata dalla camminata stanca e dal fiato corto dell’anziano antiquario, che con la mano segnata dal Parkinson salutò Dafne e si presentò a Milan.
«Sono felice di rivederla», esordì lei, emozionata nel rivivere le stesse emozioni che provava quando varcava quella porta al fianco del nonno, ma l’uomo mise presto fine ai convenevoli com’era nella sua natura, preferendo concentrarsi sulla ragione di quella visita. Ascoltò con attenzione Dafne raccontare degli orologi gemelli, e quando finalmente poté analizzarli si sistemò le due mezzelune di vetro sul naso, gli occhi enormi dietro le lenti spesse.
«Sono di scuola svizzera, risalenti al XIX secolo; 1850-1870, non di più. Precisamente», stimò facendo scattare il primo dei tre coperchi posteriori dell’orologio di Milan, quelli che Dafne non aveva osato forzare, «realizzati da un certo Olivary di Ginevra. Questo nome vi dice qualcosa?» domandò puntando i suoi occhi velati dagli anni su Dafne e Milan.
«A me non dice granché», rispose lei.
«Nemmeno a me», aggiunse lui.
Montini perciò spinse indietro gli occhiali e proseguì la sua valutazione. Aprì anche l’orologio di Dafne, che rivelò la medesima paternità; fece scattare la leva del secondo coperchio posteriore, a protezione degli ingranaggi, ma da esso cadde sul tavolo un piccolo quadrato bianco.
Lei scattò subito sulla sedia e acuì la vista, affiancando la nuvola di capelli bianco latte dell’uomo. «Che cos’è quello?» gli chiese.
Montini inarcò le sopracciglia cespugliose, e con una pinzetta aprì una a una le pieghe di quella che in pochi secondi scoprirono essere una foto; ritraeva un giovane in uniforme, l’antiquario precisò essere quella della fanteria dell’imperiale e regio esercito austroungarico, e quando la sollevò per mostrarla ai due notò una scritta sul retro. Spinse sul naso le lenti bifocali, vicinissimo alla carta ingiallita dal tempo, e chinò la testa di lato. «Almeno questa, Dafne, ti dice qualcosa?»
Lei si piegò sulle lettere che immaginò essere state vergate dal ragazzo in foto, sforzandosi di decifrare il significato di parole in una lingua a lei estranea. Cercò un senso a lettere di cui non capiva il significato, e dopo una lunga attesa si lasciò cadere sulla poltrona, sconfitta.
«Mi dispiace, ma non riesco a capire che cosa ci sia scritto», rispose mentre l’antiquario annotava sigle e lettere su un taccuino.
«Curioso», notò poco dopo, indicando ai due la scritta sul retro della foto. «Chiunque abbia voluto omaggiare la sua signora con questa dedica non era un asso della scrittura. Osservate la grafia tremolante, il tratto incerto», fece notare loro invitando Dafne e Milan ad avvicinarsi. «Probabilmente il nostro giovane fante non padroneggiava la penna con la maestria che avrebbe voluto far credere.»
Dafne si morse il labbro. Non riusciva a concentrarsi, se Montini continuava a parlare, tuttavia rimase stupita dalla velocità con cui Milan abbandonò l’atteggiamento apatico di quando era entrato nello studio non appena l’altro nominò un giovane soldato. Da quel momento lo vide reagire con interesse alle parole dell’esperto, l’attenzione calamitata dal piccolo ritratto custodito nell’orologio che lei aveva ritrovato.
«Ewig dein, ewig mein, ewig uns», sussurrò Montini, il tono di una frase lasciata a metà. Si ravviò i capelli, rilesse la frase a voce più alta e si voltò verso Milan. «Eternamente tuo, eternamente mia, eternamente noi”; non è la dedica scritta da Beethoven, quella della lettera all’amata?»
«Lettera all’immortale amata», lo corresse Milan. «Le dispiace farmi rivedere l’uomo in foto?» chiese a Montini, che con le pinzette rivoltò la carta sottile. Piantò i gomiti sulla scrivania, lo sguardo incollato all’immagine.
«Conosci quest’uomo?» gli chiese Dafne, ma lui fece di no con la testa. Posò lo sguardo sull’antiquario, intento a esaminare la foto munito di lente d’ingrandimento. «A quando crede possa risalire?»
L’altro posò lo strumento sul tavolo e soffocò un colpo di tosse, mentre la sedia scricchiolava sotto il suo peso. Il silenzio, nella sala in penombra, era interrotto solo dai rintocchi dell’orologio a pendolo accanto alla porta; un grammofono d’inizio secolo giaceva addormentato accanto alla poltrona, un disco di Marlene Dietrich posto sul piatto era pronto per diffondere la sua musica, mentre un tagliacarte d’argento con un’aquila bicipite riluceva sulla scrivania a segnalare lo scorrere anomalo del tempo. Fra quelle pareti, pensò Dafne, tutto era scandito da ricordi.
«Agli anni tristi della prima guerra mondiale, senza dubbio», rispose Montini. «Le uniformi in uso nell’impero in quegli anni erano come quella che indossa il nostro fante, e inoltre ci sono altri dettagli che mi fanno pensare che l’uomo abbia partecipato a quell’inenarrabile carneficina.»
«Perciò la foto potrebbe essere una sorta di regalo in vista della partenza per il fronte, magari per la sua fidanzata», continuò Milan.
«Un ricordo da custodire e da cui trarre conforto per il tempo in cui sarebbero rimasti divisi», intervenne Dafne, sentendo su di sé il peso di occhi che ben conosceva.
«In effetti questa sembra l’ipotesi più plausibile», concordò Montini sfilandosi gli occhiali.
«Di certo la sola capace di spiegare l’esistenza di due orologi gemelli. Potrebbe trattarsi di un regalo tra fidanzati, una specie di scambio di promesse», dedusse lei, mentre l’antiquario strofinava le lenti con un panno di velluto scarlatto.
«Vedo che non hai perso la tua vena romantica», scherzò l’uomo rivolto alla sua ospite, che invece continuava a fissare la foto. Durante le visioni non era stata in grado di individuare un volto o un particolare che rendesse riconoscibili i due amanti, ma era certa che si trattasse di loro. La ragione per cui gli orologi si trovassero fra i gioielli della sua famiglia e in quelli di Milan, però, era ancora un mistero.
«A te non dice proprio niente?» insistette voltandosi a guardarlo. Fece scivolare la foto sul tavolo, sotto i suoi occhi, ma lui gli rivolse appena un’occhiata.
«Ricordo che il mio bisnonno partecipò alla Grande guerra sotto le insegne dell’impero austroungarico, ma dubito che si tratti di lui», aggiunse per frenare l’entusiasmo sbocciato all’improvviso sulle guance di Dafne. «In famiglia non ne parlavamo granché, in tutta onestà non mi ricordo nemmeno come si chiamasse. La sola informazione certa che ho su di lui è che il suo cognome era Klammer, ed era un medico. Dopo la guerra si specializzò nel disturbo post-traumatico da stress diventando uno degli specialisti più affermati del settore, conoscenze che in parte sfruttò per cercare di curare la mia bisnonna, bosniaca, che dopo il matrimonio lo spinse a lasciare l’Austria per trasferirsi a Sarajevo.»
La mano di Dafne cercò sotto il tavolo quella di Milan in un’offerta di conforto, ma lui la rifiutò, ritraendosi.
«La tua bisnonna era molto malata?»
«Molto. Purtroppo soffriva di gravi disturbi psichici che la indussero al suicidio ancora giovanissima», tagliò corto.
Dafne batté le palpebre, le labbra schiuse in un sincero dispiacere. Milan non le aveva mai parlato delle sue origini: mai un accenno alla città di provenienza, e ora, grazie a una foto scovata in un vecchio orologio, scopriva un minuscolo tassello di una vita che lui teneva nell’ombra. «Non immaginavo fossi bosniaco; ero convinta che fossi italiano, o francese», azzardò con un sorriso.
«Sono nato e cresciuto a Sarajevo», ribatté lui. «La mia famiglia vive lì da allora, perciò escludo che sia legata in qualche modo alla tua. Non ci sono punti di contatto.»
«Fra noi ci sono, però. Se ci siamo incontrati una ragione c’è, e c’è anche se ti ho invitato a rimanere nel laboratorio di mio nonno. Forse allora non lo sapevo ancora, ma qualcosa di più grande di noi stava mettendo i tasselli al loro posto», replicò.
«Che vuoi dire?»
«Che forse il nostro incontro non è stato casuale, ma se anche rimanessi qui a spiegartelo per ore tu non mi crederesti.» Dafne afferrò la borsa e riprese l’orologio offrendosi di pagare il disturbo dell’antiquario, che rifiutò in virtù dell’amicizia con Levante. Lasciò quindi la stanza a passo spedito per tornare a respirare in strada, dove l’aria era divenuta pungente, affilata come il tagliacarte che aveva visto nello studio di Montini.
Inspirò a fondo, e poi una stretta forte, maschile, la spinse a voltarsi, a scontrarsi con un paio d’occhi che rimanevano una notte insondabile. Milan, sempre lui, e le sue maree nere. Dentro quegli occhi Dafne lesse delusione, tristezza, ma soprattutto amarezza. E rabbia. Tanta da far male.
Era successo tutto in fretta, troppo perché lui riuscisse a capire.
«Si può sapere che ti ha preso? Te ne sei andata come una furia, lasciandomi lì dentro come un idiota.»
Dafne si divincolò, calciando un sasso nel tombino accanto. Un gatto bianco acciambellato sulla Vespa parcheggiata nel vicolo accanto sollevò la testa, disturbato dall’elettricità fra i due.
«Niente, lascia stare», gli disse a testa bassa, dandogli le spalle. Non poteva spiegargli che si era sentita esclusa, messa alla porta per l’ennesima volta da un uomo cui aveva dato fiducia. Non poteva spiegare a Milan che era furiosa con sé stessa per non aver imparato la lezione, non ancora, e perché insisteva nel commettere sempre i soliti errori. Come con Ettore. “Quanto tempo hai sprecato prima di capire che era un idiota?” si rimproverò, mentre il respiro di Milan la accarezzava le spalle.
«Dafne…»
Lei alzò gli occhi verso il cielo trapunto di stelle: le nuvole che per l’intera giornata avevano torreggiato minacciose sul paese erano in viaggio verso la costa, lontano da Torralta e dalle sue campagne. «Cosa?» ribatté, esausta. Avrebbe voluto dirgli di lasciar perdere, di salire in macchina e tornare a casa senza fare domande, senza indagare su qualcosa cui non avrebbe saputo o voluto rispondere, ma si sentì mozzare il respiro quando lui le prese la mano.
«Ti va di parlare un po’?»
«Milan, io…»
«Davanti a un piatto caldo, però; non so tu ma io sto gelando e morendo di fame», aggiunse.
Una spirale di fumo bianco gli volteggiò davanti agli occhi, mentre la mano di Dafne sino ad allora rigida nella sua si scioglieva a poco a poco nel calore del palmo. Lei detestava il proprio modo di fare, il dover sempre esasperare tutto prima di cedere, di capire che il comportamento di Milan la feriva; eppure quando lo guardava negli occhi, quando vedeva le fossette ai lati della bocca schiudersi in un sorriso, in cerca del suo perdono, lei sentiva crescere dentro di sé la certezza che ne valeva la pena, e che in fondo lui era solo un’anima in viaggio come tante, con mille difetti e qualche pregio.
Tornarono a Torralta e cenarono alla trattoria Foresi con una doppia porzione di polenta e una millefoglie scomposta al cioccolato da condividere, e dopo l’amaro offerto loro dal padre di Ginevra si concessero una passeggiata nel parco attraversato dal fiume, che scorreva veloce rinvigorito dalle ultime nevicate.
Presto sarebbe nevicato anche a Torralta, il telegiornale aveva annunciato una perturbazione siberiana in arrivo, ma Dafne sperava che per quella volta, solo una, un’improvvisa virata delle correnti in quota smentisse gli esperti. Aveva ancora bisogno dei colori vibranti dell’autunno: non potevano spegnersi nel bianco accecante della neve, non lo poteva accettare; i suoi occhi si nutrivano dei riflessi ambrati delle vigne ormai spoglie. Per affrontare le ore del mese più cupo dell’anno doveva assaporare ancora il profumo allegro del mosto che fermenta nei tini, sentire sulle guance la luce gentile del mattino e passeggiare, mano nella mano, al fianco di Milan.
«Pensi ancora che sia un caso che gli orologi ci abbiano trovato?» gli chiese indicandogli una panchina. Si lasciò cadere sul legno bagnato, e lui fece lo stesso, con lo sguardo perso nella sconfinata tela blu di Prussia popolata di stelle. Una folata di vento serpeggiò fra i rami spogli degli alberi, da cui cadde una pioggia dorata e crepitante di foglie.
«Difficile stabilirlo, ma forse sarebbe meglio se fosse tutto un caso, non credi?»
«Perché?»
Milan sollevò il bavero della giacca. «Perché se le nostre famiglie fossero legate nel modo che tu credi, e cioè da una storia romantica, rischieremmo di scoprire solo un grande dolore, o peggio.»
Dafne starnutì, tuffando il volto in un fazzoletto immacolato. «Un amore finito male?» azzardò.
«Un amore finito mi sembra già abbastanza, ma con una guerra di mezzo potrebbe essere stato tutto persino più penoso.» Si chinò in avanti, mentre dal bagliore opaco del viale illuminato da un lampione emergeva una figura minuta. Una donna, con indosso un cappotto porpora con grandi margherite cucite a rilievo, avanzava a passo svelto tra le pozze d’acqua disseminate lungo il sentiero sconnesso poco distante da loro.
Dafne intercettò lo sguardo di Milan, al suo fianco eppure lontanissimo; per un istante ebbe l’impressione che non stesse parlando del fante ritratto nella foto, ma piuttosto di qualcosa che lo toccava da vicino, di una delusione che aveva cancellato ogni traccia di serenità dalle sue labbra, strette come filo spinato. Sentì nella tasca la vibrazione dello smartphone che si rimproverò di aver lasciato acceso e ripensò al suo, di amore naufragato. «Tante volte mi sono chiesta cosa significhi la fine di un amore. Nei romanzi ho letto spesso che è un dolore molto vicino a quello provocato da un lutto, come se un pezzo di te morisse con la persona che hai perso.» Lisciò il fazzoletto che teneva nella mano, arrotolandolo fra le dita mentre gli occhi vagavano vuoti negli gli spazi bui fra i tronchi. «Ho sempre pensato che fossero un mucchio di stupidaggini, che niente può superare una perdita reale, una morte, col funerale e tutto il resto. Ma ora so che non è così. La persona che se n’è andata, che ti ha lasciato o che hai lasciato, c’è e continua a esserci; la senti ancora, è dentro di te, eppure non la puoi sentire, non la puoi toccare o vedere. Ogni comunicazione è interrotta, e il tempo che per anni ha viaggiato su un unico binario all’improvviso si biforca. Da quel momento tu non sai più che ne sarà dell’altro, cosa pensa o sente. Se sente», specificò. Richiuse in un quadrato il fazzoletto mentre una sagoma scura fiancheggiava la donna nel viale, con il respiro di Milan nelle orecchie, un dondolio rassicurante. «Perciò sì, oggi posso sostenere che gli altri avevano ragione: la fine di un amore è come un lutto. Si muore, ma a poco a poco si impara a convivere con il dolore. Fa male, a volte si crede di non riuscire a superarlo, ma si va avanti. In un modo o nell’altro si continua a vivere.» Si voltò verso Milan, nella testa Ettore e le promesse tradite ma nelle parole la voglia di sopravvivere, la necessità di aprirsi, finalmente, e lasciar fluire il dolore. Milan poteva essere la persona giusta, lui con la sua indifferenza al mondo quasi felina; niente lo toccava, niente sembrava far presa sui suoi occhi impenetrabili.
«Forse è andata in questo modo anche per i proprietari degli orologi», ipotizzò, ma lui aveva smesso di ascoltarla. Tutta la sua attenzione era concentrata sulla donna e sull’uomo che camminava un passo dietro di lei, un ragazzo in jeans e felpa grigia con il cappuccio tirato sulla testa.
Bastò un attimo e quello allungò la mano verso la borsa della donna e la strattonò, facendola cadere sulla ghiaia. L’altra gridò tenendosi il braccio, ferita.
Senza dire una parola Milan scattò verso il ragazzo, che accortosi di lui agguantò la borsa e tagliò per i prati. Guadagnò solo un pugno di metri, poche manciate di secondi annientate dal salto con cui Milan gli si lanciò addosso, atterrandolo.
Dafne nel frattempo accorse dalla donna che sanguinava dal labbro, per sincerarsi delle sue condizioni. A fatica la aiutò ad alzarsi da terra, e a piccoli passi la accompagnò verso la panchina dalla quale videro entrambe qualcosa che nessuna delle due si sarebbe aspettata: il giovane scippatore tentava di divincolarsi scalciando e tirando pugni alla cieca, uno dei quali colpì Milan.
«Restituisci quello che hai preso!» urlò, ma l’altro caricò e gli sputò addosso.
«Fottiti, tu e quella troia!»
Cinque parole e la mente di Milan si offuscò.
Il pugno si chiuse mentre l’altra mano teneva il ragazzo per il collo.
«Ti prego Milan, no!» urlò Dafne aggrappata alle sue spalle per allontanarlo dal ragazzo. Ma Milan si alzò in piedi e lo sollevò per la felpa sbattendolo contro il tronco di un platano.
«Adesso ascoltami bene, ragazzino», ringhiò a un respiro da lui, immobilizzandogli il collo con il braccio, «se ti rivedo qui in giro un’altra volta ti avverto che non ti lascerò andare così. E se invece ti venisse in mente di andare a denunciarmi alla polizia sappi sin da ora che di te non rimarrà nemmeno un corpo da piangere.» Si girò di lato, per mostrargli il tatuaggio che nascondeva la cicatrice. «Lo vedi questo?»
L’altro fece sì con la testa.
«Bene, il responsabile di questa cicatrice ha fatto una brutta fine. E tu non vuoi seguirlo, giusto?»
Il ragazzo annuì.
«Per questo da oggi in poi farai il bravo, perché hai capito bene quello che ti ho detto, vero?»
L’altro voltò la testa, ma Milan serrò la presa e lo strattonò contro l’albero, che protestò con una pioggia di foglie.
«Hai capito bene quello che ti ho detto, sì o no?» urlò, e l’altro gemette. Milan sciolse la presa, guardando il ragazzo accasciarsi a terra come un sacco vuoto. Quello si raggomitolò per il tempo necessario a vedere Milan dargli le spalle, poi sgattaiolò via, lasciando refurtiva e dignità nel parco.
Dafne, a una decina di passi da lui, lo guardava atterrita; non aveva mai visto tanta rabbia repressa in una sola persona, e quando lui fece per avvicinarla indietreggiò come un animale che fiuta il pericolo. Fu un passo dettato dall’istinto, dall’immagine della mano di Milan che stringeva l’aggressore senza pietà.
«Ok», disse Milan alzando le mani. Si voltò verso la donna rimasta a guardare la scena dalla panchina, tornò a prendere la borsa che lo scippatore aveva abbandonato e la posò accanto a lei. La donna con il cappotto a fiori ora sporco di terra ed erba aveva il labbro inferiore gonfio e una profonda spaccatura violacea le rendeva difficile parlare, ma quando lui andò a inumidire il suo fazzoletto alla fontana per aiutarla a lavare via il sangue abbozzò un sorriso riconoscente.
«Grazie», sussurrò.
«Purtroppo non posso fare molto per le ferite, ma se volesse sporgere denuncia io…»
«Non credo sia necessario», lo interruppe l’altra, sollevando il braccio ancora dolorante. Afferrò il manico della borsa e si alzò, incurante del ginocchio sporco e delle calze smagliate. «Quel ragazzo ha avuto quello che meritava. Credo abbia imparato la lezione, e io non ho alcuna voglia di passare la notte fra poliziotti e medici.»
«Ma…»
«Va bene così, mi creda», ribadì la sua donna, ma nonostante il suo sorriso dolce Milan si irrigidì; la mascella era contratta, le dita premute contro il palmo.
«Lo spero, ma gente come quella torna sempre a fare del male. Forse non oggi, non domani, ma un giorno non si limiterà a una borsa. Sono fatti così, i criminali, e non c’è verso di cambiarli.»
«Io invece credo che quel ragazzo non darà più fastidio ad anima viva», intervenne Dafne al suo fianco.
«Vuole che la accompagniamo a casa?» offrì Milan.
«La prego, non si preoccupi; lei e la sua fidanzata siete stati davvero gentili, non voglio trattenervi.»
«Per noi è un piacere, mi creda», insistette, cercando la complicità di Dafne e senza tuttavia riuscire a convincere la donna, che scosse la testa, armata del suo sorriso migliore malgrado il volto ferito.
«Buonanotte, e grazie ancora», aggiunse riprendendo malferma il sentiero verso il cancello nord.
Attimi di silenzio si frapposero fra lui e Dafne, immobili l’uno accanto all’altra; le parole rimasero a galleggiare nell’aria ferma della notte, cullate dallo scrosciare del fiume a qualche metro da loro.
Lei deglutì, i piedi che puntavano verso la fine della serata, mentre la testa annaspava in cerca di una spiegazione. Quel che aveva visto superava di molto la sottile linea del buonsenso. “Che cosa sarebbe accaduto se non lo avessi fermato in tempo?” si chiese, ma temeva la risposta. Frugò invece nei pensieri muti di lui, nelle parole che si ostinava a tacerle. Era rischioso ma doveva tentare, o non se lo sarebbe mai perdonato. Inspirò a fondo, facendo appello alla bontà delle stelle affinché le venissero in aiuto. Chiuse gli occhi ed espirò le parole rimastele sottopelle.
«Perché ti sei accanito con tanta violenza sullo scippatore? Avrà avuto a malapena sedici anni, era solo un ragazzino.»
«A sedici o diciassette anni una persona conosce la differenza fra bene e male, non è un bambino. Quel tizio sapeva benissimo quello che faceva, e che fosse o meno una bravata, spero che questa serata gli sia di lezione per il futuro.»
«Sei davvero convinto che averlo trattato in quel modo gli sarà d’aiuto? Non ci credo, è assurdo!»
«Non lo è, invece», ribatté lui, fissando il cielo con le braccia conserte. «Lo aiuterà a capire che il male attira il male, e che presto o tardi incontrerai qualcuno sulla tua strada con più forza o rabbia di te. È solo una questione di tempo.»
Dafne incrociò le braccia sotto il seno, scuotendo la testa. «Perciò è questo che sei? Il più cattivo di tutti?»
«No», rispose lui guardandola dritto negli occhi. Sulle labbra aveva ancora una macchia di sangue ormai rappreso, mentre nella testa si proiettavano all’infinito le immagini di un passato angosciante, salti temporali in una vita scandita da quello stesso sapore. «Io sono solo uno che di violenza ne ha vista fin troppa, e proprio per questo non intendo tollerarla, soprattutto quando viene esercitata su persone più deboli. Se si gioca lo si deve fare ad armi pari, altrimenti è codardia. E la codardia si paga.»
Si spolverò il maglione dal terriccio e superò Dafne, fermandosi a qualche passo da lei, rimasta impietrita nel parco silenzioso. Lei aveva troppa paura di quello che aveva visto, della rabbia di Milan, delle sue minacce. «Vieni con me?» le domandò, ma lei non rispose; non ne aveva la forza, i pensieri erano ancora troppo confusi. Aveva visto ira, una violenza primitiva, ma nella voce di Milan, nel modo in cui aveva protetto la donna, vi aveva scorto anche qualcos’altro. Una speranza, un fiore nero come la notte, ma pur sempre un fiore.
«Aspetta un momento», lo fermò afferrandolo per il polso, davanti a lei due spalle curve e un’espressione triste. Era buio pesto, e dopo quel che aveva visto, nonostante quel che aveva visto, non riusciva a lasciarlo andare. Non se gli occhi di Milan le raccontavano una storia diversa da quella di pugni e violenza, non se sul suo viso leggeva un dolore sfuggito per lo spazio di una mezz’ora alla prigione dove era stato confinato, lasciando al suo passaggio uno strascico di vergogna e rabbia. Il tono cupo lo tradiva, le mani nascoste nelle tasche la prova di un’umanità che era ancora possibile salvare. Gli prese la mano nella sua, accarezzandola con dolcezza. «Vieni da me, alla Limonaia. Non tornare alla mansarda, non voglio che tu stia da solo. Non stanotte.»
«Perché?»
Dafne aprì le braccia, gli occhi che riflettevano la fredda luce lunare. Spiegarsi era complicato, così come trovare le parole per dirgli che non si fidava di lasciarlo solo, che temeva che andasse a cercare il borseggiatore, che facesse altre sciocchezze. Avrebbe voluto confessargli che desiderava proteggerlo da quello che aveva appena visto, dall’altro sé stesso, il Milan violento, ma le parole sarebbero corse sul filo sottile del fraintendimento, con il rischio di cadere da troppo in alto.
«Hai bisogno di cure», rispose di getto. «E di avere qualcuno con te, perché quando si è in compagnia di sé stessi si prendono tante di quelle decisioni sbagliate che poi è impossibile fare marcia indietro. Ho la macchina proprio qui fuori, ci vorrà un attimo.»
Lui sorrise, ma sotto l’arco teso delle labbra si scorgeva un’ombra diffidente. «Vai pure, io torno alla mansarda.»
«Milan, no. Vieni con me. Ascoltami, per una volta», insistette mentre lui si dibatteva, nel silenzio aspro di pensieri soffocati.
«Dafne, davvero, lascia stare. Ci vediamo domani.»
«Insisto.»
Lui sollevò le mani e le sfregò sui jeans, prima di congiungerle davanti al viso. «Senti, io apprezzo molto il tuo interessamento, ma non verrò a casa con te. Non sarai la mia infermiera né il mio controllore o il mio psichiatra. Non sono un cucciolo che hai trovato sul ciglio della strada; me la so cavare da solo, non devi farlo tu per me.»
«So benissimo che non sei un cucciolo indifeso, stasera lo hai ampiamente dimostrato», rispose Dafne piccata.
«E allora cosa sono per te, si può sapere?» sbottò. «Una specie di missione, il poveraccio da aiutare per farti sentire meglio?» rilanciò, fuori controllo, ma Dafne non gli permise di finire la frase che sollevò la mano e lo colpì sul viso.
Uno schiaffo, uno schiocco deciso di pelle contro pelle.
«Se è questo quello che pensi di me, allora non hai capito proprio niente. Niente!» esclamò afferrando la sua borsa dalla panchina e marciando verso la Giulietta parcheggiata fuori dal parco. A ogni passo le dita si stringevano più forte intorno alle chiavi dell’auto, lasciandosi alle spalle una scia di veleno e rammarico per non essere stata capita, per essere stata di nuovo respinta.
Ettore non aveva capito, e Milan sembrava seguire le impronte del maestro.
Un labirinto dal quale non vedeva via d’uscita.
«Un labirinto, nonna», riferì a Clelia quando terminò il racconto di quella serata, di fronte a una tisana al limone e zenzero.
Clelia si sistemò lo scialle di lana sulle spalle, le mani curate a sfiorare le venature del fratino. «Non so, tesoro, ma non penso che Milan sia un cattivo ragazzo. Ha reagito in modo esagerato, violento, ma questo non fa di lui una persona malvagia», tentò di spiegare nonostante l’occhiataccia scoccatale dalla nipote. «Dopotutto hai ammesso tu stessa che è intervenuto solo perché ha visto una donna in difficoltà, non perché fosse annoiato o ubriaco; ha agito per proteggere, non per fare del male fine a sé stesso.»
«Va bene, ma la violenza non è mai una risposta, me l’hai insegnato tu stessa, perciò non vedo perché ora dovrebbe essere diverso.»
«Non lo è, infatti, ma devi renderti conto che Milan è una persona molto fragile.»
Dafne soffiò una risata sulla tisana, appollaiata sulla sedia. «Fragile?»
Clelia annuì. «Precisamente.» Tuffò il cucchiaino nel barattolo di miele, e fece colare un corposo filo dorato nella sua camomilla. «Quel ragazzo si porta dentro qualcosa di irrisolto, l’ho capito dalla prima volta in cui l’ho visto. C’è qualcosa di strano nel suo sguardo; una solitudine che gela il sangue, una sofferenza profonda.»
«Tu come fai a saperlo?»
«Perché è la stessa che si portano dentro tutte le persone che hanno vissuto la guerra. Sono gli stessi occhi, tesoro, lo stesso sguardo stravolto, piegato da un grande dolore. Un baratro che ti auguro di non conoscere mai.»
«D’accordo, ma questo non giustifica il suo comportamento.»
Clelia posò la mano su quella della nipote. «Sei ancora molto giovane, tesoro, perché tu possa capire.»
Dafne bevve un sorso di tisana, che vellutata scivolò lungo il palato. Un leggero pizzicore la sorprese in fondo alla gola, addolcito dalla nota del miele d’acacia. «Ridurre tutto a una questione anagrafica mi sembra una soluzione frettolosa; Milan ha sbagliato, conciando quel ragazzino in quel modo, e ha sbagliato a trattarmi come se io lo usassi per ripulirmi la coscienza, come una specie di buona azione annuale da spendere con Babbo Natale per i regali di fine anno. È stato offensivo.»
Clelia ritirò la mano, che tornò a scaldarsi intorno alla sua camomilla. Il paesaggio oltre la finestra era poco più di un rettangolo nero; solo la luce di qualche fattoria vicina osava sfidare le tenebre. Tutto intorno era buio e silenzio. «Fidati di me; concedigli un po’ di tempo, non essere troppo rigida. Non sai cosa ha passato, e non dimenticarti il modo in cui vi siete incontrati; un uomo che si riduce a cercare un posto per dormire vagando in piena notte per le strade di un paese che non conosce deve averne passate più di quante riesca a raccontarne, perciò sii paziente con lui oppure mandalo via, ma sappi che qualunque decisione tu prenda nessuno potrà giudicarti.»
Dafne annuì e si nascose oltre il bordo della tazza. Era furiosa, ma cacciare Milan era fuori discussione. C’era qualcosa di irrisolto fra loro che li legava l’uno all’altra, c’erano gli orologi e la loro storia, e poi c’era lei, che non riusciva a immaginare di andare al laboratorio e non trovarlo lì ad aspettarla.
“Che diamine ti sta succedendo, Dafne?” si rimproverò, annegando i suoi pensieri nell’infuso bollente.