13.
Dafne camminava lungo un sentiero, nella notte
di un giorno qualsiasi; intorno a lei alte betulle dai tronchi
chiari, a coprirne le radici una nuvola di felci ramate. La terra
sotto le scarpe era morbida, impregnata dell’umidità che risaliva
dal fiume poco distante, sul quale galleggiava un serpente di
nebbia. Gli ululati dei lupi che popolavano i boschi si
rincorrevano nel silenzio, interrotti dal richiamo dei gufi a
caccia di prede. Una civetta bianca la osservava da un ramo
spoglio, gli occhi d’ambra fissi su di lei che aveva il fiato
corto. Si era persa, le stelle si vedevano appena, nascoste dai
rami intrecciati sulla sua testa. Nessun nord da cercare, nessuna
stella polare o cometa da seguire per ritrovare la via di casa, nel
cuore sempre più lontana. Continuò a camminare nel buio sino a
quando non inciampò nella radice sollevata di un albero. Si
aggrappò a un ramo per scongiurare la caduta. La mano scivolò sulle
foglie, un sentore umido le disegnò una striscia bagnata lungo il
braccio.
Si guardò inorridita la pelle sporca, e quando
abbassò lo sguardo si accorse di non essere inciampata in una
radice, ma in un corpo umano. Anzi, non uno: due corpi, abbracciati
esattamente come la coppia di amanti degli orologi. Accanto a loro
di nuovo la bambina con le trecce e il basco rosso che osservava la
coppia trattenendo fra le labbra i singhiozzi, prima di posare lo
sguardo su di lei fissandola con gli occhi gonfi di lacrime. Nei
piccoli palmi gli orologi con le crepe gemelle, fissi in un tempo
immobile. Dafne si premette le mani sulla bocca, mentre un
ticchettio le montava nella testa forte come la marea; ogni secondo
era più forte, fuso al martellare del cuore che le vibrava
sottopelle.
Poi un trillo, lo sbattere di un minuscolo
martelletto fra due piattini di metallo strappò il silenzio della
stanza.
«No!» urlò scalciando nel letto, il pugno
chiuso premuto contro lo sterno. Scattò a sedere, la maglietta
incollata alla pelle e la mano aggrappata alle lenzuola. Il cuore
correva veloce, mentre gli occhi ancora sbarrati cercavano di
scongiurare la visione avuta in sogno.
Un ciabattare rapido riempì il corridoio, dal
quale si affacciò una Clelia trafelata.
«Tesoro, stai bene? Ho sentito un urlo
tremendo», disse cercando di domare l’ansito che le sollevava il
petto sotto la camicia da notte.
Dafne si passò una mano sulla fronte, le
ginocchia raccolte contro il torace. Straniamento. Si guardò
intorno, ma non riconosceva nulla di quel che la circondava: non la
tendina a schermare la luce, non le pareti della sua camera. Dentro
aveva solo l’eco angosciosa del sogno. Si sfregò il viso, e di
colpo tutto tornò riconoscibile: gli oggetti, gli odori, la
vestaglia di sua nonna. Tutto le era tornato familiare in un
battito di ciglia. Sospirò, il cuore che rallentava. Era finalmente
al sicuro, in salvo da qualcosa che tuttavia non capiva e che
l’aveva terrorizzata per la sua violenza. Si guardò le mani che in
sogno erano sporche di sangue, e con i pugni chiusi azzardò un
sorriso alla nonna. «Va tutto bene, era solo un brutto
sogno.»
Clelia superò lo stipite della porta e si
sedette sulla trapunta, cercando la mano della nipote tra i
minuscoli fiori bianchi sbocciati sulla stoffa imbottita. «Ti va di
parlarne?»
«Nonna…» mugolò azzardando una flebile
obiezione, mentre negli occhi vibravano ancora i contorni incerti
del sogno, i due amanti, la bambina e gli orologi, di cui uno
distava da lei appena una manciata di respiri. Troppo pochi per gli
occhi curiosi di Clelia, per il segreto che Dafne sentiva di dover
proteggere, per il senso di colpa corrosivo causato da tutte le
bugie che le raccontava.
“Da quando sono diventata così?” si rimproverò
specchiandosi negli occhi puri di Clelia, opachi di sonno,
mordendosi le labbra quando sentì la stretta rassicurante della
nonna scaldarle le mani. Lei l’aveva amata come nessuno aveva mai
fatto prima, ma in cambio aveva ottenuto solo un castello di
bugie.
Soffocò il rigurgito acido che le raschiò la
gola, mentre nella testa le immagini si confondevano con le parole
di Montini e l’espressione seria del ragazzo in uniforme, la cui
foto era rimasta per decenni nascosta fra gli oggetti preziosi
della sua famiglia.
Non poteva funzionare, non se sua nonna
continuava ad accarezzarle le mani, a canticchiare la canzone con
cui l’aiutava a riaddormentarsi quando da bambina la svegliavano
gli incubi.
Scosse la testa, nei polmoni segreti
impolverati in cerca di aria nuova.
«Ok», cedette, la mano a cercare il cassetto
accanto al letto; tirò fuori il sacchetto rosso e ne rovesciò il
contenuto sulla trapunta per mostrarlo a Clelia. Ne aveva
abbastanza dei segreti, e aveva intenzione di rompere con quella
tradizione. «Nonna, tu sai qualcosa di questo orologio?» le domandò
porgendoglielo. L’orologio scintillava in tutta la sua lucentezza,
rifrangendo i raggi del primo sole domenicale che dal suo giaciglio
di foglie sollevava il capo dall’orizzonte. Strisce di luce
illuminarono il pavimento, risalendo silenziose lungo la parete e
lungo il volto di Dafne, sul quale si affacciò un baffo di
sole.
Clelia riunì le mani in grembo, ogni cellula
del suo corpo assorbita dal piccolo oggetto d’argento. Fece per
accarezzarlo, ma ritrasse la mano prima ancora di toccarlo. «Dove
lo hai preso?»
«È importante?»
Clelia si portò le mani alle labbra, gli occhi
segnati da piccole venuzze scarlatte, le labbra scolorite in un
rosa pallido. Un respiro impercettibile scosse il suo petto alla
vista del quadrante sbeccato. «Sapevo che lo avresti trovato. L’ho
capito dalla sera in cui mi parlasti della zingara, delle visioni
che hai ricominciato ad avere. Era solo questione di tempo.»
Dafne incrociò le gambe sul letto, china verso
di lei; non capiva il senso delle sue parole, dell’apprensione
palpabile che scavava rughe profonde nel suo sorriso. «Che vuoi
dire, nonna? Che c’entra l’orologio con le visioni?»
Clelia intrecciò le dita sottili,
appoggiandovi il mento. «Ho sperato che questo giorno non arrivasse
mai, ma non si può fermare il tempo. La verità trova sempre il modo
per tornare, anche e soprattutto quando vorresti soltanto
dimenticare tutto e andare avanti.»
Dafne si guardò intorno, spaesata.
«Cos’è che non mi hai detto, nonna?»
sussurrò.
«La verità.»
Dafne deglutì, il cuore un bisbiglio. A quanto
pareva in quella stanza non era l’unica bugiarda. Era stata
ingannata, manipolata, ma era lucida abbastanza per capire che
quello non era il tempo della rabbia.
Si avvolse nelle coperte per contrastare i
brividi improvvisi. «Nonna, mi stai spaventando: cos’è questa
storia? Cos’è che non mi hai detto?»
«Il dono che hai, Dafne», rispose Clelia
torcendosi le mani. Serrò le palpebre, le labbra strette e le dita
annodate ad assicurare la tenuta di un’emozione troppo intensa per
il suo cuore stanco, che la vita aveva messo con le spalle al muro.
Inspirò a fondo, ma una volta riaperti gli occhi ebbe la certezza
di non poter più tacere; non davanti alle guance arrossate della
nipote, se dal suo sguardo liquido Dafne la implorava di
raccontarle una verità dalla quale si era ripromessa di tenerla
lontana. «Le visioni che hai avuto a nove anni, e che hai ancora,
non vengono dal nulla. È una particolarità di famiglia, un
dono.»
«Cosa?» Dafne scoppiò a ridere, la voce acuta,
nervosa. «Davvero vuoi farmi credere che adesso consideri la storia
delle visioni addirittura un dono?»
«Lo è sempre stato, tesoro. Io non l’ho mai
avuto, ma molte donne nella nostra famiglia lo avevano. Tua madre,
ad esempio.»
«Non è quello che mi hai fatto credere»,
ribatté piantando il dito nel materasso. «Lo hai sempre considerato
come un peso, piuttosto. Ricordo bene il modo in cui reagisti,
quando te ne parlai la prima volta: rimanesti impietrita in mezzo
alla cucina con il coltello in mano, terrorizzata. La stessa
espressione che avevi quando ti ho raccontato della zingara, e ogni
volta che le persone di Torralta e dintorni bussano alla porta in
cerca di aiuto. Come fa a essere un dono, se ne hai tanta
paura?»
«Spesso temiamo quello di cui non abbiamo il
controllo, tesoro. Anche se si tratta di un regalo.»
Dafne allargò le braccia, guardandosi intorno;
riconosceva a stento la propria stanza, dopo la confessione di
Clelia. Era nata fra quelle mura, lì aveva imparato a camminare e
lì si era poi rinchiusa ad ascoltare la musica ad alto volume
quando l’adolescenza aveva stravolto le linee del suo corpo. Ma
all’improvviso tutto quello che aveva vissuto lì dentro le sembrò
il frutto di un inganno. Le avevano mentito, tutti quanti, e quella
mattina, seduta fra coperte che non erano più sue, si sentiva alla
stregua di una barca alla deriva, senza una bandiera che le
assicurasse un attracco in porto; le cime erano state recise, i
remi gettati in acqua. Si grattò la fronte in cerca di una
spiegazione, finché Clelia non le prese le mani stringendole forte
nelle sue, per poi lasciarle andare, ninfee sul mare del
tempo.
«Allora avevo ragione ad avere paura, e oggi
ne ho ancora di più», insistette. Scattò in piedi, camminando
avanti e indietro per la stanza di colpo minuscola, sorda alle
proteste delle assi del pavimento che scricchiolavano
rumorosamente. «Quelle visioni, come le chiami tu», continuò con la
voce spuntata dall’ansia, mentre la pelle si colorava di una
pioggia di macchie rosse, «hanno sterminato tutta la nostra
famiglia.»
«Nonna, io non capisco…» farfugliò Dafne
tirandosi le coperte sulle gambe all’improvviso gelate, mentre
Clelia riprendeva il suo posto accanto a lei. Una valanga stava per
abbattersi su di lei, ne intravedeva il letale profilo bianco
all’orizzonte, e tuttavia non riusciva a muoversi, a pensare,
mentre le mani di sua nonna tornavano ancora da lei. Negli occhi
della donna il riflesso di una paura lontana, annidata nell’anima
di una ragazzina troppo piccola per confrontarsi con l’enormità
della vita.
«Dafne, io…» mormorò, e allora lei strinse più
forte le mani della nonna. Clelia sapeva, aveva le risposte, le
aveva sempre avute; erano scolpite nella pelle segnata da molti
inverni, nella voce velata di ruggine al ricordo di giorni che
aveva chiuso in una stanza molti anni prima, e che a distanza di
decenni lei le chiedeva di riaprire. «Io non posso, non posso…»
bisbigliò incassando la testa nelle spalle, ma lei non le lasciò
scampo. Le sollevò il mento, obbligandola a specchiarsi in
lei.
«Ho bisogno di sapere, nonna. Per favore», la
implorò.
Una richiesta cui Clelia non seppe
sottrarsi.
Prese un lungo e profondo respiro, mentre il
sole spargeva sulle colline che avvolgevano Torralta coriandoli di
luce dorata. «Ero solo una ragazzina quando vidi per la prima volta
quell’orologio», iniziò, sforzandosi di domare il respiro.
«Apparteneva a mia madre, la tua bisnonna, Maria Elena. Non capivo
perché ogni volta lo lucidasse con tanta cura, dato che finiva
puntualmente nel cassetto, ma il giorno in cui seppellimmo mio
padre, di ritorno dal cimitero, la sorpresi a guardarlo in lacrime.
Mi avvicinai a lei e le misi una mano sulla spalla per farle
sentire la mia presenza, per farle capire che poteva condividere il
suo dolore con me, e fu allora che mi raccontò tutta la verità.
Rischiò molto, avrebbe potuto perdere il mio affetto, ma lei non
era il tipo che indietreggiava di fronte alle sfide. Un po’ come
te, sai?» s’interruppe mentre un sorriso benevolo le scaldava le
guance. «Tu hai molto di lei, ora che ci penso.»
Le sorrideva, eppure Dafne sentiva il suo
dolore, la paura nella voce che raschiava sotto la vernice delle
parole, della mano tesa a offrirle una carezza.
«L’orologio le era stato regalato dal suo
primo amore, incontrato durante un soggiorno alle terme di Merano.
Lei era in villeggiatura con il padre, un antiquario di fama
internazionale, lui un semplice facchino dell’albergo in cui
soggiornavano. Fu un amore unico, nato per caso eppure di una forza
sovrannaturale. Ogni volta che parlava di lui il viso di mia madre
si accendeva, regalandole una luce che non avevo mai visto prima,
una forza dettatale da un sentimento inossidabile. C’era amore
nelle sue parole; avrei potuto toccarlo, se avessi voluto.» Rivolse
alla nipote un’occhiata veloce. «Fu quel tipo di amore che ti
capita una sola volta nella vita. Ma la vita, lo sappiamo bene
entrambe, non sempre ci mostra il suo lato migliore; spesso è
maligna, a volte spietata.»
Dafne si schiarì la voce, le braccia strette
intorno alle ginocchia. «Con lei fu spietata, suppongo.»
«Purtroppo», le confermò la nonna. «Aveva solo
suo padre al mondo, e lui ostacolò l’amore per quel ragazzo con
tutte le forze che aveva, sino a quando la guerra non inferse il
colpo letale alla loro storia. Lei e il suo giovane amore avevano
resistito come meglio avevano potuto alle pressioni di mio nonno,
ma la chiamata alle armi sconvolse ogni equilibrio; lui si arruolò
in fanteria, e a lei non rimase che aspettare. Continuarono a
scriversi lettere clandestine per mesi, e lei arrivò persino a
scappare di casa, pur di andare alla stazione a salutare l’amato in
partenza per il fronte. Fu in quell’occasione che lui le consegnò
l’orologio, tenendo il gemello per sé. All’interno di quello di
Maria Elena aveva nascosto una foto, una di quelle che si facevano
allora dal fotografo, col fondale e tutto il resto, ma quella
fotografia mia madre la trovò solo tempo dopo. Fu proprio il tempo
a ingannarli, e la guerra a stravolgere tutto», aggiunse.
Dafne ascoltava assorta il racconto di Clelia,
l’orologio a metà strada fra due generazioni. Era lì anche Maria
Elena, la sua bisnonna, gemma di luce riflessa dal quadrante sul
soffitto chiaro della stanza; vegliava su di loro, sulla storia di
un amore spezzato dal tempo, il suo.
«Che cosa successe, durante la guerra?»
domandò alla nonna zittita dal canto acuto del gallo che annunciava
a Torralta l’inizio del giorno di festa, scandito dalla musica
della prima messa della domenica, mentre una massa silenziosa si
dirigeva nei campi per un’altra intensa giornata di lavoro
indifferente alle date in rosso sul calendario.
Clelia inspirò appieno la quiete del paese,
delle campagne che generose offrivano a chi amava la terra buone
ragioni per non pensare, lei che avrebbe barattato tutti i suoi
averi per qualche ora di leggerezza. «Successe ciò che era
prevedibile accadesse: si persero di vista. Si scrissero a lungo,
fiumi di lettere, ma quando il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò
guerra al suo vecchio alleato, le comunicazioni fra i due stati si
interruppero e la posta smise di essere recapitata. Un vero
peccato, dato che nove mesi dopo il loro ultimo incontro nacque
Ines, mia sorella. Una bambina sfortunata: morì per una
complicazione a pochi giorni dal parto. Un dolore dal quale mia
madre non si riprese.»
«Deve essere stato devastante, per lei»,
sussurrò Dafne, fissando l’orologio della bisnonna.
«Sì. Un dolore che non l’ha mai abbandonata, e
che è stata costretta a vivere in solitudine.»
Dafne si guardò intorno, disorientata. Fra
quelle pareti batteva ancora caldo il cuore di un amore nascosto in
un vecchio orologio rotto. «Lui non sapeva della bambina, è
così?»
«No, purtroppo.»
«Eppure è strano; dopo la guerra avrebbero
potuto cercarsi, ritrovarsi, no?»
Clelia sorrise e batté con dolcezza la mano
sulla sua. «Sei troppo giovane per capire certe cose, te l’ho
detto.»
«Perciò cosa successe?»
«Mia madre conobbe un uomo rispettabile, il
farmacista di Torralta, che si innamorò follemente di lei il giorno
stesso che la vide per la prima volta. Allora lei e il padre
alloggiavano nello stesso albergo di Roma, erano andati lì per
vendere un baule a un rigattiere amico di mio nonno, uno di quelli
del centro. Mi sembra si chiamasse Turati… sì, proprio Turati, da
qualche parte dovrei avere l’indirizzo. Quando mio nonno accusò
delle coliche renali, il farmacista lo soccorse. Credo si trattò di
un vero e proprio colpo di fulmine, per lui; da allora corteggiò
mia madre per mesi, e quando anche il nonno benedisse il loro amore
e staccò un assegno in bianco offrendosi di pagare l’intero
matrimonio, impiegarono poche settimane a diventare marito e
moglie.»
Dafne sgranò gli occhi. «Vorresti dire che la
bisnonna ha accettato di sposare un uomo che non amava,
praticamente un ripiego, solo per avere un marito e un cognome
rispettabile?»
«E tutto quell’amore di cui aveva
disperatamente bisogno per superare la morte di Ines», la corresse
Clelia, piccata dall’analisi spietata della nipote. «Ma non fu solo
questo. Erano altri tempi, il femminismo che conosciamo ora era
lontano anni luce. Una donna aveva bisogno di un uomo, e a modo suo
lei amava davvero mio padre. Il loro era un sentimento diverso,
meno irruento del primo, ma autentico. Dalla loro unione nacqui io,
e ricordo perfettamente i miei genitori come una coppia
felice.»
«Almeno fino a quando non vedesti la bisnonna
con l’orologio», intervenne Dafne.
«Non proprio. Tutto era cominciato qualche
tempo prima», la smentì Clelia. Soffocò un colpo di tosse nella
mano, mentre con la punta delle dita accarezzava il vetro incrinato
dell’orologio. «Alla fine della guerra Maria Elena scoprì il
proprio dono. Credo che una parte di lei lo avesse sempre saputo,
di essere in grado di mettersi in comunicazione con i defunti
attraverso le loro lettere. Le bastava tenerne una fra le mani
perché la persona in questione le parlasse, e lei potesse riferire
ai suoi cari quanto aveva loro da dire.»
Dafne si inumidì le labbra, sforzandosi di
dare forma e colori al racconto della nonna. Vide file di donne con
i loro bagagli d’inchiostro e speranze davanti alla porta, le mani
di Maria Elena tese a offrire un conforto tardivo, e poi lacrime,
piogge torrenziali di una sofferenza rinnovata a ogni incontro, nel
film di una guerra senza fine. «Immagino che non appena si è sparsa
la voce la gente l’abbia subissata di richieste. La Grande guerra
del resto è passata alla storia come una carneficina senza
precedenti.»
«È stato un inferno, credimi», convenne Clelia
inorridita. «Ma capii solo più tardi chi erano quei poveri diavoli
con gli occhi arrossati dal pianto che bussavano ogni giorno alla
nostra porta, tutti i giorni.»
«Mi chiedo come abbia fatto la bisnonna a
sopportare un tale peso, per non parlare di tutte le accuse che
immagino le siano state mosse: di ciarlatani che speculano sul
dolore altrui è pieno il mondo, immagino sia stato un periodo molto
difficile, per lei.»
«Lo è stato per tutti, ma non le è mai venuto
meno il supporto della sua famiglia. Mia madre viveva questo dono
come una maledizione, si tormentava, non mangiava e non dormiva, ma
tutti questi aspetti negativi svanivano ogni volta che una persona
si congedava da lei in pace. Era molto toccante, qualcosa che non
saprei spiegarti», le raccontò con il sorriso sulle labbra per la
prima volta dall’inizio del suo racconto, ma Dafne sentiva che le
parole della nonna si erano allontanate molto dagli orologi, dai
loro segreti e dall’incubo che l’aveva strappata al sonno.
«La bisnonna non ha mai usato il suo dono per
mettersi in contatto con il suo primo amore?» le domandò. Fu una
richiesta a bruciapelo, parole scagliate come grandine piovuta
direttamente dal secolo scorso.
Clelia tornò a cercare il conforto di un
approdo sicuro, le gambe incrociate e la testa bassa; camminare fra
i ricordi era insidioso, perché sentiva sempre più forte il fulcro
della storia attirarla verso il suo cuore malato, avvolgendola in
spirali di angoscia. «Vorrei tanto poterti rispondere che sì, lo ha
fatto, ma purtroppo non ne ebbe il tempo; mia madre riuscì ad
aiutare tantissime persone, anche se sempre meno di quelle che
avrebbe voluto, ma non sé stessa.»
«Perché?»
Lo sguardo di Clelia si appannò, le mani
iniziarono a tremare. Distolse lo sguardo dall’orologio, ma la
vista della trapunta sgualcita non le offrì alcun conforto. Nessun
rifugio per il suo cuore affaticato dal dolore, nessuno, poiché
niente era come gli occhi di Dafne, specchio di quelli di sua
madre, così grandi e veri.
«Fu assassinata», rispose secca. «Una domenica
mattina una donna bussò alla nostra porta; papà era già morto e la
cameriera aveva il giorno libero, e dato che io avevo la febbre lei
rimase con me. Per accudirmi, come sempre.» Il ricordo di quei
momenti risalì in superficie, macchie di olio che si rincorrevano
sull’acqua scura della nostalgia. Tutto era confuso, nella mente di
Clelia, frammenti di orrore in ordine sparso a fare da collante ai
quali erano rimasti solo il sangue e l’eco di uno sparo. Si toccò
la gola, rovente, mentre calde lacrime le solcavano le guance. «Ci
guardammo, sorprese, ma io insistetti per seguirla. Non volevo
rimanere da sola nella mia stanza, rinchiusa come un uccellino in
gabbia, perciò pur di farmi star buona lei mi prese in braccio e
aprì la porta. Fu allora, in quel preciso e maledetto istante, che
me la ritrovai puntata addosso: la canna scura e lucida di una
pistola, e la sagoma sfocata del volto di una donna dietro di lei»,
raccontò con la mano premuta sul cuore, lì dov’era l’impronta dello
sparo. «Mia madre non ebbe il tempo di dire o fare niente, se non
mettermi a terra e spingermi via. Non fece nemmeno in tempo a
urlarmi di scappare che uno scoppio trafisse l’aria. Si piegò in
avanti assorbendo il colpo e poi subito indietro, prima di cadere
di schiena sul pavimento, già senza vita. Ricordo come se ce li
avessi davanti ora i suoi occhi spalancati, lo stupore sulle labbra
schiuse mentre una chiazza rossa si allargava intorno al corpo
ancora caldo. Credo e prego ogni notte che non abbia sofferto.»
Sfilò dalla manica della camicia da notte un fazzoletto in cui
sfogò il dolore per un lutto mai superato, mentre le braccia di
Dafne la avvolgevano in un abbraccio. Clelia era tornata a essere
una bambina, nel racconto dei primi istanti della sua vita da
orfana, di una domenica che avrebbe potuto essere come tante e che
invece aveva scelto per lei un’eccezionalità macabra.
«Mi dispiace tanto, nonna», sussurrò
baciandole la testa, la pelle premuta forte contro la sua, ma
nessun singhiozzo, nessun lamento sfuggì dalle labbra di Clelia;
sua nonna sapeva essere composta anche nella sofferenza, una
qualità che aveva appreso in anni lontani, anni in cui il dolore
era un sentimento privato, scevro di ogni protagonismo. Dafne
invece aveva bisogno di parlare, di analizzare, di aggiungere
parole con cui anestetizzare il dolore che l’aveva costretta a
rivivere, ma quando i suoi occhi sfiorarono l’orologio nascosto dal
loro abbraccio sentì un brivido risalire lungo la schiena.
Lei aveva visto quella scena, aveva visto la
canna della pistola la prima volta che lo aveva stretto. La sua
visione aveva squarciato il tempo, mostrandole gli ultimi istanti
di vita della sua bisnonna, la donna che prima di lei era entrata
in contatto con l’aldilà. Non riuscì a parlarne a Clelia: non
allora, quando i suoi occhi stanchi urlavano ancora il nome della
madre assassinata quando era solo una bambina. «La polizia scoprì
chi era quella donna?»
Clelia sorrise. «La polizia non ha mai
indagato sulla morte di mia madre. Archiviarono il fatto come un
tentativo di furto finito in tragedia, un comportamento vergognoso,
ma io so che la verità è altrove. L’ho sempre saputo, ma so anche
che scoprire la verità ora non avrebbe alcun senso. Mia madre è
morta, ormai. La sentenza di un tribunale non potrà
restituirmela.»
«Questo è vero, ma che mi dici dell’assassina?
È assurdo che quella donna l’abbia passata liscia!» protestò.
«Probabilmente sarà morta anche lei, è passato
tanto di quel tempo!»
Dafne incrociò le braccia, sul piede di
guerra. «Quindi ti sei arresa?»
Clelia le mostrò i palmi vuoti, arrabbiata e
ferita. «Che altro avrei dovuto fare? Ero solo una bambina, e
quando raggiunsi l’età della ragione era già troppo tardi.
Qualsiasi prova era andata distrutta, e io stessa volevo solo
dimenticare. Per non parlare del fatto che presto mi ritrovai a
prendermi cura di tua madre, Selvaggia. Anche lei aveva il dono e,
Dio mi è testimone, ho tentato in ogni modo di proteggerla, eppure
non ci sono riuscita. Non ci sono riuscita», ripeté agitando i
pugni stretti nel dolore composto.
Era davanti a lei, ora Dafne la vedeva; era in
quei piccoli pugni la ragione per cui Clelia aveva tanta paura
delle sue visioni, per cui aveva sempre cercato di proteggerla. Era
terrorizzata dalle visioni, perché erano state proprio loro, benché
nessuna relazione della polizia lo avesse mai confermato, a
uccidere sua madre.
Dafne era distante da Maria Elena, vissuta
troppi anni prima perché fra loro si stabilisse un vero contatto,
ma quella donna le stava chiedendo aiuto, e questo lei non poteva e
non voleva ignorarlo. Spingendola verso l’orologio, la sua bisnonna
l’aveva invitata a ripercorrere le tracce della sua vita, a
rimettere insieme i pezzi di un puzzle così da trovare una
risposta, almeno una.
«Ok», disse roca. Le lunghe gambe nude
scattarono sotto la camicia da notte con le spalline strette e una
fantasia di piccole rose sul fondo avorio, e annodò la vestaglia in
vita. «La bisnonna ha subito una grave ingiustizia; la persona che
l’ha uccisa è molto probabilmente morta impunita e lei non è
riuscita a ritrovare l’uomo da cui la guerra e suo padre l’avevano
divisa anni prima», riassunse. «Il tempo ha giocato contro di lei,
impedendole di ricongiungersi al suo amore, e io sono convinta che
sia esattamente questa la ragione per cui ho trovato l’orologio,
per cui ora è sul mio letto.» Lo indicò, una piccola gemma
d’argento sul giaciglio offertole dalla trapunta. «Lei ha bisogno
di noi, nonna. Tua madre ha bisogno di rimettersi in pari col suo
tempo ed essere finalmente libera. E in pace.»
Le mani di Clelia vagarono nell’aria, lo
sguardo smarrito nelle nebbie di un passato che faceva sanguinare
il cuore. «Non lo so, Dafne, non ne sono sicura. Fa così male»,
sussurrò.
«Me ne rendo conto, ma se ci pensi questa è la
sola spiegazione plausibile. Anche le visioni, la zingara e tutto
il resto. Per non parlare dell’orologio di Milan», aggiunse dopo
una pausa. «Non è un caso se lui e io ci siamo incontrati e abbiamo
trovato gli orologi gemelli, non ti pare?»
Clelia si alzò in piedi, lisciandosi la maglia
di lana. «Ora stai esagerando, Dafne; vedi ovunque segni di un
destino che non esiste», la rimproverò. «Per quel che ne sappiamo
Milan potrebbe aver rubato quell’orologio, o magari ha mentito e
non è affatto un ricordo di famiglia. La sua famiglia», precisò,
divincolandosi dallo sguardo della nipote che continuava a
fissarla. «Come possiamo fidarci di un uomo che si è accampato in
negozio senza chiedere il permesso, come un delinquente
qualsiasi?»
«Hai detto tu che Milan è una persona che ha
sofferto ma che non è malvagio, perciò non puoi ritrattare tutto
solo perché ti fa comodo», ribatté disorientata dal repentino
cambio d’opinione su di lui, che temeva essere dettato più dal
bisogno di allontanare da sé la verità piuttosto che affrontarla,
per quanto spiacevole.
Clelia però era inarrestabile. «Pensala come
vuoi ma io non mi fido, e comunque togliti dalla testa qualsiasi
fantasia sull’argomento: non è Milan il bisnipote dell’uomo della
foto, altrimenti lo avrebbe riconosciuto o te ne avrebbe parlato.
Non metterti in testa cose che non esistono, per favore.»
«Ma nonna…»
«Niente ma!» la minacciò con l’indice teso,
piccolo e tremante, mentre lei vedeva le pareti intorno a loro
rimpicciolirsi e nelle orecchie l’eco assordante dello sparo che
aveva ridisegnato la sua vita.
«Puoi almeno darmi una foto della
bisnonna?»
«Non ci sono più foto della tua bisnonna; le
ho gettate tutte quando ho scoperto che Selvaggia entrava in
contatto con i defunti attraverso le foto. A quanto pare la
maledizione che grava sulle donne della nostra famiglia ha imparato
a nascondersi, a cambiare pelle, per sopravvivere; mia madre
parlava con i defunti attraverso le lettere, tu con gli oggetti e
mia figlia attraverso le fotografie.»
«Cosa? Mia madre?»
«Sì, ed era ossessionata dal ricordo dei
nonni. Per un periodo ho dovuto persino mandarla in una clinica,
era quasi impazzita, e poi… poi sappiamo tutti com’è finita.»
Dafne deglutì. Quella era una parte della
storia che conosceva bene. «L’incidente e la mia nascita prematura,
lo so.»
Clelia annuì. «Già. La notte peggiore del
mondo, se non fosse stato per la tua nascita. Levante diceva sempre
che tu e lei vi siete salutate sulla porta: lei andava e tu
arrivavi nel mondo.» Alzò gli occhi opachi verso il soffitto,
mentre Dafne continuava a guardare dritto davanti a sé, senza
vedere nient’altro che parole, decine di ricordi che l’avevano
investita con tutta la potenza del passato.
Capiva le paure di Clelia, ma non sarebbero
bastate a fermarla.
Né il tempo né sua nonna l’avrebbero fermata.
Le lancette erano in movimento, e lei sulle tracce del tempo di
Maria Elena. Avrebbe trovato la verità, a qualunque costo. A
qualunque prezzo.