capitolo trentuno
«Ai vostri posti!», sbraitò Macrone, balzando in piedi. «Preparatevi a ricevere il nemico!».
Gli uomini intorno al fuoco fecero cadere il cibo e gli otri di vino e raccolsero le armi e gli scudi per raggiungere in tutta fretta le loro posizioni. Il centurione e i suoi legionari presero posto dietro le rocce della barricata. Quintato estrasse la spada con l’elsa in avorio dal fodero d’argento e si fece largo a colpi di spallate per arrivare accanto a Macrone, il quale lo guardò accigliato, facendo ridacchiare il legato.
«Non preoccuparti, Macrone. Questa è una battaglia da centurioni, non da legati. Gli uomini sono sotto il tuo comando e io seguirò i tuoi ordini».
Nel frattempo i Corvi Sanguinari si divisero in due gruppi e si precipitarono verso le due rupi. Catone andò a destra e si unì agli uomini che avanzavano a fatica nella neve, sentendo ben presto un bruciore lancinante ai polmoni e ai muscoli che non riuscivano a sopportare lo sforzo di un esercizio così violento, ora che erano debilitati dalla fatica e dalla fame. Quando raggiunse la stessa cima dalla superficie irregolare che aveva scalato solo qualche settimana prima, il cuore gli rimbombava nelle orecchie e respirava a fatica. Si mosse verso il lato che dominava l’accesso alla gola. La sentinella che aveva lanciato l’allarme era illuminata dal fuoco scoppiettante, che faceva risaltare anche la catasta di giavellotti, archi e frecce lì vicino.
«Dove sono?», rantolò Catone.
Il tracio indicò il fondovalle e anche grazie alla sola luce delle stelle il prefetto riuscì a vedere una marea densa e scura che scivolava lungo il crinale a un miglio di distanza. Uno schieramento di cavalleria precedeva l’esercito nemico di mezzo miglio. Man mano che i Corvi Sanguinari raggiungevano la cima, cominciarono a udirsi dei bisbigli infausti.
«Silenzio!», gridò Catone. «Risparmiate il fiato per la battaglia».
Osservò il declivio che dava sulla valle. I pendii scoscesi facevano in modo che il terreno effettivamente calpestabile si riducesse all’ampiezza della gola e ai due sentieri che portavano alle loro posizioni sopraelevate. Il vantaggio spettava quindi ai difensori, come aveva previsto il prefetto. Inoltre, Macrone nel poco tempo a sua disposizione aveva ultimato i preparativi con quanta più perizia possibile e le due salite erano costellate di sassi e pali acuminati. Vicino al bordo erano stati posti dei massi di dimensioni minori, pronti per essere lanciati sugli indigeni. Ciò non avrebbe certo cambiato le sorti della battaglia tra le due forze estremamente impari, ma Catone era certo di poter infliggere delle gravi perdite al nemico prima che questi riuscisse a fare breccia nella gola e annientare i difensori. Sebbene non vi fosse la luna in cielo, la fioca luce delle stelle sulla neve rivelava chiaramente le file dei barbari. Non sarebbero riusciti a sorprendere la retroguardia con dei prudenti tentativi di aggirare la loro posizione.
I Traci continuarono a osservare la scena in silenzio mentre l’esercito si riversava lentamente lungo la collina, avvicinandosi alla gola. Per la prima volta il prefetto ebbe l’opportunità di apprezzare a pieno la portata delle forze nemiche che si erano riunite per sconfiggere l’invasore colpevole di aver tentato di umiliare i Druidi. Fu allora che capì: le ambizioni di Quintato non si sarebbero mai potute realizzare contro quella massa sterminata. La campagna era destinata a fallire sin dal principio, sotto ogni punto di vista.
La cavalleria indigena si fermò a un quarto di miglio dall’imboccatura della gola, fuori dalla portata di una balista, notò con ironia il prefetto. Evidentemente le esperienze precedenti con quelle armi avevano infuso in loro un grande rispetto per il marchingegno romano e non intendevano correre alcun rischio, nel caso in cui i nemici possedessero ancora qualche pezzo di quella formidabile artiglieria. Gli uomini a cavallo si fecero da parte e la fanteria gli si parò davanti. Un attimo dopo un gruppo di cavalieri avanzò, spronando le bestie al trotto. Volevano rendersi conto di quanti fossero i loro avversari, pensò Catone. Non aveva alcuna intenzione di lasciarli fare e si girò verso i Traci.
«Primo squadrone! Estrarre gli archi e approntare le frecce infuocate».
I soldati posarono scudi e lance e presero gli archi, appoggiando un piede a un’estremità e sbuffando per la fatica di piegare il legno e tendere il cappio della corda fino all’altra. Si misero poi a fasciare le punte degli strali con del lino prima di immergerle nell’olio. Quando ebbero finito, il nemico era arrivato a meno di cinquanta passi dalla gola. Da lì avrebbero visto il profilo della barricata e gli uomini di Macrone stagliarsi tra le fiamme che bruciavano dall’altro lato del passaggio, ma non avrebbero potuto capire le dimensioni delle forze romane. Era arrivato il momento di dar loro un bello scossone.
Catone fece una smorfia glaciale. «Accendere le frecce e prepararsi a scoccare!».
I Traci avvicinarono le frecce alle fiamme finché gli stracci non si accesero e poi le incoccarono sulla corda.
«Puntare!».
Gli archi scricchiolarono leggermente e gli uomini tirarono indietro lo strale mentre le fiamme lambivano il legno.
«Scoccare!»
Le frecce si innalzarono in un magnifico arco, brillando nella notte scura, e si tuffarono verso i cavalieri. Gran parte della prima raffica andò a finire nella neve, spegnendosi subito o rifulgendo come delle stelle che creavano piccole pozze di luce tutt’intorno. Due colpi, però, andarono a segno. Il primo trafisse la groppa di un cavallo e il dolore dell’impatto e del tessuto fiammeggiante lo fecero scalciare e dimenarsi. La bestia scagliò al suolo il suo cavaliere prima di emettere un nitrito stridente e correre via nelle tenebre. La luce della freccia rimase visibile per un bel pezzo mentre la cavalcatura scappava lungo il fianco nemico e giù per la valle. Il secondo dardo colpì un uomo al collo e questi annaspò, tentando di spegnere le fiamme, non curandosi del sangue che stava perdendo. Cadde dalla sella e si contorse debolmente al suolo.
«Scoccare senza sosta!», esortò Catone, e i suoi accesero altre frecce e le fecero piombare sul nemico finché i cavalieri non si portarono fuori tiro, lasciandosi dietro alcuni compagni caduti.
«Cessare il fuoco!».
I soldati scagliarono le ultime frecce e il prefetto si girò verso i Traci con il pollice all’insù. «Bel lavoro, ragazzi. Adesso saranno un po’ più nervosi. Il prossimo attacco sarà più cauto».
I difensori non dovettero attendere a lungo. Una schiera di uomini a piedi si staccò dal grosso dell’esercito e avanzò verso la loro posizione. Poco dopo si aprirono a raggiera, con due cunei diretti verso le salite che portavano alle rupi e uno, quello centrale, verso la gola stessa. Ancora una volta le frecce infuocate solcarono l’aria, raddoppiate dal secondo gruppo di Corvi Sanguinari, e Catone si immaginò molto bene l’effetto demoralizzante che i proiettili ardenti dovevano avere sul nemico intento ad arrancare nella neve.
A breve distanza dall’imboccatura della gola, i guerrieri celti si sfogarono con un grido poderoso e partirono alla carica. Macrone sollevò lo scudo e vi appoggiò la spada lungo il bordo.
«Preparate i giavellotti!».
Dietro la barricata c’era un piccolo spazio tra la prima linea di difensori e il resto dei legionari. I soldati in testa alle riserve cambiarono la presa sui giavellotti, stesero le braccia e attesero l’ordine. Il centurione lasciò che i nemici entrassero nella gola e si avvicinassero di una ventina di passi prima di gridare: «Lanciare!».
Quasi non si rese conto del velo di aste scure che sfrecciò sopra di lui e si andò a scontrare con gli indigeni in corsa, infilzandone i corpi in ombra e scagliandoli al suolo. Furono lanciati altri giavellotti, aumentando il numero dei caduti, prima che il nemico raggiungesse i pali e i triboli piantati a terra in tutta fretta, perdendo altri uomini, trafitti dagli spuntoni di ferro o spinti sulle punte acuminate dei legni da quanti sopraggiungevano. Nonostante tutti quei morti, i nativi continuarono la carica fino ad arrivare sulla barricata, dove presero subito a colpire i Romani.
«Tenere alti gli scudi!».
Macrone intravide la sagoma irsuta di un guerriero che stava cercando di scalare le rocce davanti a lui e affondò la spada, prendendolo alla gola e agitando l’arma a destra e a sinistra prima di ritrarla. L’uomo cadde all’indietro e un altro prese subito il suo posto, cercando di raggiungere il volto del centurione con una lancia. Parò il colpo con lo scudo, assorbendone l’urto violentissimo e il nemico continuò ad accanirsi su di lui. A un certo punto cambiò l’inclinazione della sua protezione e l’arma rimbalzò verso l’alto. Il guerriero aveva una presa salda sulla lancia e la seguì in avanti, arrivando a portata di Macrone, il quale lo colpì al petto. Fu un fendente più superficiale che profondo e il britanno cadde all’indietro cercando di riprendere fiato e tamponare il sangue che sgorgava dalla sua carne squarciata.
Per un breve momento nessuno si oppose a Macrone, che azzardò una rapida occhiata lungo i lati della linea difensiva. A sinistra il legato Quintato gridava trionfante dopo aver spaccato il cranio di un indigeno con la sua spada ben affilata. Dietro di lui uno dei soldati del centurione venne abbattuto da uno dei giavellotti che avevano scagliato contro il nemico e che ora era tornato dal loro lato della barricata, prendendo l’uomo dritto in faccia e sfondandogli zigomo e cranio. Quando cadde al suolo, senza vita, un altro legionario salì sulla barricata per rimpiazzarlo.
Un movimento rapido riportò l’attenzione di Macrone oltre la barricata: stava arrivando un altro nemico. Indossava un elmo gallico, una cotta di maglia e uno scudo, rivelando le proprie origini aristocratiche. Come tutti quelli della sua casta, sapeva bene come combattere. Parò con facilità il primo colpo del centurione e rispose con una serie di affondi che costrinsero il romano a indietreggiare. Sfruttando lo spazio apertosi dietro la barricata, il guerriero vi salì sopra e spinse il proprio scudo contro quello di Macrone, il quale perse l’equilibrio e tentò di rimanere in piedi. Per un breve istante si portò lo scudo da un lato per evitare di cadere ed espose il corpo all’avversario.
Il nobile sibilò e caricò il colpo fatale. Fu allora che la punta della spada del legato sferragliò contro il suo elmo, facendogli scattare brutalmente la testa di lato e stordendolo. Prima che potesse riprendersi, Macrone lo caricò di peso con lo scudo, facendolo volare dall’altro lato della barricata, dove un gruppo di guerrieri nemici stava aspettando con impazienza il proprio turno per combattere gli odiati Romani e prendere le loro teste come trofei. Davanti alle difese giacevano diversi corpi nemici e anche tra le file dei legionari c’erano state delle perdite. La battaglia proseguì nell’oscurità, illuminata soltanto dal fuoco alle spalle dei Romani e dal chiarore della neve.
L’avanzata nemica per raggiungere la cima delle rupi era tanto faticosa quanto lo era stata per i Corvi Sanguinari che le avevano conquistate qualche settimana prima. Nel frattempo, però, i nativi dovevano anche sopportare uno sbarramento costante di frecce e sassi scagliati dall’alto. Catone notò con piacere che il numero dei corpi riversi nella neve aumentava sempre più mentre i guerrieri cercavano di raggiungere i loro avversari. Arrivarono al primo dei vari ostacoli disposti sul loro cammino e dovettero fermarsi un attimo per sradicare i pali e scostare i massi, sempre sotto una fitta pioggia di strali e pietre. Altri caddero prima che la strada venisse sgombrata e poi quelli ancora in vita si inerpicarono lungo l’ultimo tratto di pendio prima della cima.
«Qui! Con me!», gridò il prefetto, correndo verso i grossi massi posati sul ciglio delle rocce che sormontavano i nemici. Piantò i piedi al suolo e cercò di smuoverne uno. Cominciò a cedere e poi uno dei suoi uomini si unì allo sforzo e il masso rotolò facilmente. Bastò un’altra spinta per farlo cadere, scagliando il primo guerriero da un lato prima di schiacciare quello successivo e rispedirlo gambe all’aria verso la base del declivio, colpendo altri nativi durante la sua discesa e costringendo i più a saltare per salvarsi. Catone e i suoi spinsero altri massi e spezzarono l’attacco dei Celti, approntando poi gli scudi e le lance per ricevere quei pochi che fossero riusciti a raggiungere la cima. La difficile scalata li aveva spossati e si scagliarono sulla fila di Traci con disperazione. A dozzine caddero sulle lance dei Corvi Sanguinari e i loro cadaveri si andarono ad aggiungere agli ostacoli che i loro compagni avrebbero dovuto superare.
Il prefetto si fece da parte e notò che i nemici si erano fermati poco più in basso e avevano smesso di fare rumore. Il loro coraggio e la determinazione di sconfiggere i Romani avevano iniziato a vacillare. Era il momento giusto per colpire. Estraendo la spada, sollevò lo scudo, si aprì un varco tra i suoi uomini per arrivare in prima fila e ordinò: «Corvi Sanguinari, con me! Avanzare!».
Scese con lo scudo alto e la spada puntata in avanti, affiancato dai soldati. Avevano il vantaggio della posizione sopraelevata e della portata delle loro lance, per non parlare del fatto che erano molto più riposati del nemico. Li respinsero facilmente. Alcuni morirono in punta di lancia, altri caddero sui proprio compagni e lì rimasero, incapaci di evitare le lame insanguinate che li trafiggevano a turno. I Corvi Sanguinari si fecero strada lungo la discesa respingendo senza interruzioni l’attacco nemico finché la risolutezza dei guerrieri non si incrinò e cominciarono a correre via, cercando disperatamente di sfuggire a quei Traci spietati. Catone li inseguì per un po’ prima di dare l’ordine di fermarsi e di tornare in cima alle rupi. Nello stesso momento, vide ritirarsi i primi nemici che erano entrati nella gola, e portarsi a una distanza di sicurezza dai legionari che tenevano la barricata.
«Il primo giro è nostro, ragazzi!», disse ai suoi. Questi lanciarono un grido di gioia che fu subito ripetuto dagli uomini sull’altra rupe e, un attimo dopo, anche dai soldati nella gola, mentre il nemico intraprendeva la prima ritirata in un silenzio pieno di timore.
Gli indigeni attaccarono altre due volte durante la notte e vennero respinti ogni volta con gravi perdite. Il secondo assalto diede fondo alle frecce infuocate e ai giavellotti e i Romani persero molti uomini mentre il nemico continuava a inviare truppe sempre fresche. Avendo fallito anche dopo il terzo tentativo, i guerrieri si ritirarono in attesa che facesse giorno. Catone sfruttò l’occasione per scendere dalla rupe e vedere come stavano andando le cose alla Quarta Coorte. Macrone lo ricevette accanto ai bracieri di uno dei fuochi che riscaldavano i feriti. I morti erano stati disposti poco oltre.
«Come sta andando lassù?»
«Abbiamo retto bene», rispose il prefetto, «ma mi sono rimasti solo dieci uomini. Quando le prime luci dell’alba mostreranno i pochi Corvi Sanguinari sulle rupi, i nostri amici non esiteranno ad attaccarci e questa volta non riusciremo a respingerli. Se ciò dovesse accadere, avranno il vantaggio della posizione e vi costringeranno ad abbandonare la gola. Non appena saremo in campo aperto, ognuno dovrà pensare a salvare se stesso. Come sta la Quarta?».
Macrone si stiracchiò e fece scrocchiare le dita. «Stavamo benissimo prima dell’ultimo attacco, poi i ragazzi si sono presi una gran bella batosta. Ho meno di sessanta uomini ancora in piedi e la maggior parte è ferita, per non dire che sono tutti sul punto di stramazzare al suolo. Temo proprio che il prossimo giro sarà anche l’ultimo».
Catone emise una specie di grugnito. «E il legato?»
«Si è beccato una lancia nella coscia. Gliel’hanno fasciata, ma per ora non potrà correre. A quanto pare non avrà modo di tenere fede alla sua decisione di opporre un’ultima resistenza, ma c’è da dire che è una carogna davvero impavida. Mi ha salvato l’osso del collo in un’occasione e ha fatto strage di bastardi. Se avessi avuto del tempo, l’avrei fatto diventare un legionario coi fiocchi».
«È un peccato che sia un legato e non un legionario, allora. Ci avrebbe evitato un sacco di problemi».
«Vero, ma ha le palle davvero quadrate. Più di molti uomini del suo ceto».
Il prefetto osservò i feriti distesi sulla neve. Alcuni gemevano pietosamente e altri giacevano in silenzio, guardando le stelle o stringendo le palpebre per sopportare meglio il dolore. Vide Pausino, il chirurgo della coorte, accanto a un uomo tutto tremante e con la mascella quasi staccata, appesa al resto del corpo solamente da qualche brandello di carne. Pausino aveva un bisturi in mano e, sotto gli occhi del prefetto, fece una piccola incisione sul collo dell’uomo ferito, lasciando fuoriuscire il sangue dalla ferita. Il legionario cominciò ad agitarsi e il chirurgo dovette tenerlo fermo finché non smise di combattere, poi si alzò in piedi e andò dall’uomo seguente.
Macrone aveva notato che l’amico stava guardando e disse: «Gli ho ordinato di porre fine ai tormenti dei casi più tragici. Crede di poterlo fare con il minor dolore possibile e, soprattutto, in fretta. Meglio questo che cadere nelle mani dei Druidi. I pochi in grado di brandire una spada o un pugnale sono stati armati e ho detto loro di combattere da terra o di togliersi la vita quando il nemico oltrepasserà la barricata. Sanno come stanno le cose».
«Mi sembra giusto. È la cosa migliore».
I due amici rimasero a osservare la scena ancora per un po’ prima che Macrone si rivolgesse di nuovo a Catone. «Credi che abbiamo fatto guadagnare un po’ di tempo al resto della colonna?»
«Direi proprio di sì. Il nemico ha dovuto aspettare fino al mattino e hanno trascorso tutti una notte al freddo. Per non parlare dei feriti. Oramai anche le loro razioni saranno quasi terminate. Dubito che avranno voglia di continuare, dopo essersi sbarazzati di quello che rimane dei nostri ragazzi, senza aver prima riposato. E poi, ci hanno sconfitti e ci hanno costretti a fuggire dalle loro terre. Sarebbe da pazzi condurre degli uomini stanchi e affamati troppo lontano da qualsiasi tipo di rifornimento, come abbiamo imparato noi nel modo peggiore». La mente sfinita del prefetto faticò a raccogliere i pensieri. «Abbiamo fatto guadagnare un giorno in più alla colonna. Quanto gli basta per uscire dalle montagne e raggiungere Mediolanum in tutta sicurezza».
«Buon per loro. Anche se ciò non ci aiuta più di tanto».
«Macrone, amico mio, non possiamo essere aiutati da nessuno. Non l’hai ancora capito?»
«Certo che l’ho capito! Non sono un dannato idiota».
Catone scoppiò a ridere. «Non l’ho mai pensato. Quindi, questo è quanto. La fine». Rimase in silenzio, imbarazzato. Non sapeva come congedarsi dal suo compagno più caro.
«Non è la fine finché non è davvero finita, ragazzo», rispose Macrone con fermezza, sbarazzandosi del suo commento in un batter d’occhio. «Affronterò quei bastardi con i denti, se proprio devo. Quando me ne andrò da questo mondo, lo farò combattendo fino all’ultimo».
«Non mi aspettavo niente di diverso».
Si scambiarono un’occhiata carica di tristezza, poi Catone strinse la mano dell’amico. «Allora addio, centurione Macrone».
«Addio, signore».
Il prefetto alzò i tacchi e tornò verso la cima delle rupi. Scalò lentamente, risparmiando le forze, e mentre saliva notò che il cielo si stava facendo più chiaro, annunciando una giornata limpida. Un peccato, pensò. Quel clima sarebbe stato di grande aiuto per i Romani molti giorni prima. A volte la sorte aveva un senso dell’umorismo davvero stupefacente. Raggiunse la cima e si diresse lì dove quel che rimaneva dei due squadroni lo aspettava sull’attenti. Mirone era ancora con loro, sanguinante ma con uno sguardo risoluto.
«Riposo. Risparmiate le forze per il nemico, che ne dite?».
Concesse loro un sorriso e poi andò nello stesso punto privilegiato da cui aveva osservato i barbari durante la notte. Ora aveva una visuale migliore. Centinaia di corpi giacevano sparpagliati sulla neve davanti all’imboccatura e si ammassavano sui sentieri che portavano alle rupi. Il nemico aveva subito molte più perdite di quanto immaginasse e, sebbene provasse un certo orgoglio per la prestazione della retroguardia, sapeva bene che i Druidi avrebbero cercato di vendicarsi dei caduti nel modo più spietato possibile.
La luce si fece sempre più forte, così come il bagliore all’orizzonte. Poi, proprio quando i primi raggi del sole spuntavano da dietro un lontano crinale, si udì il suono di un corno da guerra, seguito subito da altri, e il nemico cominciò ad avanzare immediatamente, aumentando il passo a poco a poco. Lanciarono un grido e cominciarono a correre verso la gola e le due salite.
Questa volta, avevano solo qualche roccia da tirare sui nemici e riuscirono a usarne ben poche prima che questi raggiungessero la cima. I Corvi Sanguinari avevano ancora il vantaggio di non essere a corto di fiato e di essere in alto, ma Catone capì subito che non sarebbero riusciti a respingere il nemico. Estrasse la spada e prese posto al centro della linea mentre i Traci, stanchi e dai volti mesti, abbassarono le lance e si prepararono allo scontro. Non ci fu il solito fragore di scudi, come accadeva invece sui terreni pianeggianti, ma solamente l’arrivo di un guerriero dopo l’altro che, mettendosi davanti a un romano, dava inizio a un duello.
Catone venne sfidato da un uomo incappucciato e con il fiato pesante, armato di ascia e scudo triangolare. Quando questi sollevò l’arma, il prefetto scattò in avanti, scudo contro scudo, e lo fece indietreggiare, infilandogli la spada sotto l’ascella e perforando la pelle fino ad arrivare al cuore. Una torsione brutale della lama e uno strattone liberò l’arma, facendo schizzare nell’aria del mattino un intenso spruzzo di sangue. Catone fece un passo indietro e si preparò per il prossimo avversario. Al suo fianco i Corvi Sanguinari bloccavano i colpi con lo scudo e affondavano le lance nei loro nemici. Come la sera precedente, ci furono più vittime tra le file barbare che tra i Traci, ma questa volta non avevano altri soldati per riempire i vuoti e dovettero serrare i ranghi per mantenere la posizione.
Poi avvenne l’inevitabile. Due guerrieri riuscirono a raggiungere la cima della rupe e ad aggirare la linea difensiva dei Romani, scagliandosi su un Corvo Sanguinario intento a battersi con un altro avversario. Preso da entrambi i lati, questi esitò un attimo prima di girarsi verso i nuovi arrivati. L’indigeno che lo aveva tenuto occupato fino a quel momento caricò con lo scudo teso e lo buttò al suolo. I due guerrieri gli piombarono addosso e lo colpirono con ferocia. L’uomo cercò di rialzarsi ma lo ferirono alle braccia e al collo e ricadde a terra, impotente.
Catone aveva seguito tutto con la coda dell’occhio e sapeva che i suoi dovevano assolutamente indietreggiare e cercare di riunirsi con i legionari, per poter dare una prova migliore di sé prima della fine.
«Corvi Sanguinari! Ritirata! Seguitemi!».
Vibrò la spada e squarciò la spalla di un guerriero, poi si girò e cominciò a correre lungo la rupe per raggiungere il passaggio che portava alla base della gola. I suoi uomini seguirono il suo esempio, tallonati a loro volta dagli indigeni che stavano ancora cercando di riprendersi dall’ardua scalata. Arrivarono alla discesa e cominciarono a scendere e scivolare verso il basso mentre i nemici presero a esultare non appena videro che i Romani si davano alla fuga.
Poco prima di arrivare sul fondo della vallata, Catone notò che alcuni legionari stavano uscendo dalla gola e sentì altre grida di giubilo dalla rupe opposta. Provò una fitta di ansia e si rese conto che con ogni probabilità il nemico aveva sfondato la barricata. Poi vide Macrone che batteva in ritirata sostenendo il legato, circondato da un gruppetto di legionari che tenevano alto lo stendardo della Quarta Coorte, e si rese conto che era tutto finito. Appena finì la discesa, si girò verso i suoi uomini e disse: «D’ora in poi ognuno pensi a se stesso. Buona fortuna, ragazzi!».
Si precipitò verso Macrone, determinato a unirsi al suo amico per combattere al suo fianco un’ultima volta. Alcuni legionari stavano cercando di raggiungere i cavalli, disposti a tutto pur di scappare al massacro imminente, e il prefetto non poté biasimarli. Percepì lateralmente l’arrivo di una persona e fece appena in tempo a riprendere il controllo di sé e a girarsi prima che il guerriero lo travolgesse e lo scagliasse al suolo, togliendogli il fiato. Lasciò andare lo scudo e si risollevò subito, alzando la spada per bloccare la lama che stava calando su di lui. Udì il clangore e lo sferragliare dei due metalli e quando vide le scintille si rese subito conto che era riuscito solamente a deviare il colpo. Sentì una fitta alla fronte, come se fosse stato centrato in pieno da una spranga incandescente. Il sangue fuoriuscì immediatamente dal taglio e gli finì negli occhi, accecandolo.
«No, brutto bastardo!», gridò Mirone, seguito da un grugnito profondo e dal suono di qualcuno che cadeva accanto a Catone. Una mano lo mise in piedi.
«Vieni, signore. Da questa parte!».
Il prefetto era stordito e barcollò in avanti, guidato dal tracio. Si pulì il sangue dagli occhi e intravide lo spettacolo caotico del nemico che usciva dalla gola e si avventava sui Romani rimasti. Venne portato tra un gruppo di legionari e lì vi trovò Macrone, il quale lo guardò nervosamente. «Catone, mio povero ragazzo».
«Sto bene». La voce del giovane ufficiale era impastata e confusa. «Ho perso la mia spada. Dammene un’altra».
Vide anche Quintato, il suo volto contratto in una smorfia per via della ferita alla coscia. Fissò Catone. «Portalo via da qui, Macrone», ordinò. «Non ci serve così. Voi due avete fatto abbastanza. Roma avrà ancora bisogno di voi».
Il centurione fece per protestare ma il legato indicò i cavalli e gridò: «Andate! Andatevene immediatamente, cazzo!».
Il prefetto scosse la testa. «No… combatterò…».
Macrone ringuainò la spada, mollò lo scudo e prese il braccio del suo superiore. «Mi dispiace, amico. Hai sentito il legato. Mirone, dammi una mano».
«No!», gridò Catone, cercando di liberarsi e ritrovandosi con ancor più sangue sugli occhi. Sentì la voce di Macrone vicino all’orecchio.
«Scusa».
Gli arrivò un colpo alla testa e tutto si fece nero.
«Mirone! Con me». Macrone ripose nuovamente la spada e si chinò per arrivare sotto la cintola di Catone e portarlo in spalla. Fece un passo avanti, uscendo dal cerchio di legionari, e camminò rapidamente verso i pochi cavalli rimasti mentre l’ex decurione gli stava accanto, pronto a respingere qualsiasi attacco. Non appena arrivarono dagli animali, Catone riprese a muoversi, mormorando parole senza senso e perdendo altro sangue, che dalla fronte andava a finire sulle guance. Il centurione lo mise senza troppa gentilezza su una sella e gli portò le mani sui due pomi.
«Reggiti, Catone».
Fu lieto di sentire i piedi dell’amico stringersi intorno ai sostegni coperti di pelle che aiutavano i cavalieri a rimanere seduti. Cercò una cavalcatura per sé, si mise in sella e afferrò le redini, prendendo anche quelle di Catone, poi si girò verso Mirone.
«Sbrigati! Non startene lì impalato. Monta!».
Mirone si avvicinò al cavallo più vicino, poi si fermò. Guardando il centurione, fece di no con la testa. «Rimango qui. Vai, signore. Salva il prefetto».
«Non fare l’idiota!», gridò Macrone. «In tre avremo più possibilità di salvarci».
«Mi dispiace, signore… Lo faccio per Trasso». Il soldato sollevò lo scudo e la spada e si diresse rapidamente verso la baraonda che imperversava intorno alla gola, prima di mettersi a correre e urlare: «Corvi Sanguinari! Corvi Sanguinari!».
Il centurione strinse le redini di Catone nella mano sinistra e spronò il suo cavallo in avanti, trottando dietro gli altri Romani che stavano abbandonando la valle. Incominciò ad andare al galoppo, assicurandosi che il prefetto fosse ben saldo sulla sella. Si stava riprendendo, ma il sangue incrostato sugli occhi gli impediva di vedere e dovette limitarsi a tenersi ben saldo ai pomi.
Davanti a loro il sentiero si perdeva tra gli alberi e Macrone rallentò per osservare un’ultima volta la gola. Lo stendardo della Quarta Coorte si innalzava in mezzo a un fitto gruppo di barbari. Riuscì a malapena a distinguere il bagliore di qualche elmo legionario e il cimiero piumato di Quintato, poi lo stendardo cadde e per un attimo una spada romana si librò verso il cielo. Sparì, però, subito dopo e gli indigeni lanciarono un grido selvaggio, agitando i pugni e le armi impiastrate di sangue.
Con il cuore di piombo Macrone si girò e condusse il cavallo tra gli alberi, dando le spalle alla scena. Tutto quello che rimaneva da fare ora era eseguire l’ultimo ordine del legato e salvare Catone.