capitolo ventidue
Trasso si guardò intorno e inorridì alla vista del vessillifero che si accasciava sulle fortificazioni. «Quei bastardi hanno preso lo stendardo!».
Per un breve momento i combattimenti all’interno della ridotta scemarono mentre gli uomini di entrambe le fazioni capivano fino in fondo cosa era successo. I Deceangli lanciarono un grido di trionfo e sfida e i Romani sprofondarono nella vergogna più amara. Altri quattro uomini avevano raggiunto Catone il quale, girandosi verso il tracio e il soldato accanto a lui, disse: «Voi due, con me. Gli altri mantengano la posizione».
Si scansò leggermente per permettere ai suoi sottoposti di affiancarlo. «Insegniamo a quel bastardo impertinente una lezione. Nessuno ci ruba lo stendardo e sopravvive a lungo per festeggiare. Quando vi darò l’ordine, ci muoveremo direttamente verso di lui e non ci fermeremo davanti a niente finché non l’avremo ripreso. Poi, Trasso, sarà tuo compito difenderlo. Sei pronto?».
Questi fece roteare la testa per sciogliere il collo e brontolò. «Sì signore. Mi dispiace… non avrei mai dovuto permetterlo».
«Risparmiati le scuse per dopo. Ora è il momento di riscattarci. Pronti?»
«Sì signore».
«Signorsì, signore», aggiunse l’altro ausiliario prima di sputare a terra. «Andiamo a squartare questi cazzo di bastardi, signore».
Catone annuì, fece un respiro profondo e rinsaldò la presa sulla spada, stringendola forte. «Andiamo!».
Corse lungo la discesa a passo svelto ma sempre attento a non scivolare sulla neve. I due uomini lo seguivano a distanza ravvicinata e il piccolo contingente si andò a infilare nel caotico ammasso di guerrieri al di sotto. Il prefetto fece uno scatto all’ultimo momento, scagliando il primo nemico da un lato, e colpì in faccia con la guardia della spada un altro uomo, facendolo cadere a terra. Trasso, alla sua sinistra, affondò lo scudo contro due Deceangli, rispedendoli in fondo alla discesa, mentre il Corvo Sanguinario alla sua destra fece vibrare la spada e tagliò un braccio tatuato, frantumandone anche le ossa. I tre Romani aumentarono ulteriormente il passo e raggiunsero il terreno pianeggiante dopo essersi sbarazzati degli ultimi uomini che si frapponevano tra loro e il nobile, tutto preso a guardare con gioia lo stendardo. La sua attenzione però fu richiamata alla battaglia quando qualcuno lanciò un grido d’avvertimento e questi posò lo sguardo sui tre invasori diretti verso di lui. Con un ringhio sprezzante conficcò l’asta nel suolo e ci si mise davanti, aprendo le braccia per mostrare tutto il suo disprezzo nei confronti del nemico. Quattro dei suoi, giganti in cotte di maglia ed elmi celtici armati di scudi tondi e decorati, si precipitarono verso di lui dall’altro lato della ridotta. Se non erano nobili come il loro compagno, dovevano perlomeno essere sue guardie personali, pensò Catone.
«Pensate a loro!», ordinò. «Lui è mio».
Mentre diceva quelle parole, non poté trattenere un smorfia per la propria sbruffoneria, e si rese conto che era una di quelle cose che Macrone avrebbe sicuramente detto in una situazione del genere. Gli venne da ridere. Essere un veterano voleva forse dire questo? Sentirsi completamente a proprio agio e pensare che rischiare la vita e la salute su un campo di battaglia fossero cose naturali? Il nobile indigeno lo guardò accigliato, irritato forse dal buon umore di Catone. Con arroganza gli fece cenno di avvicinarsi e sollevò la spada, raddrizzando la schiena e buttando il petto in fuori.
«E va bene, amico mio», rispose il prefetto. «Vediamo di che pasta sei fatto».
Il cozzare di due spade lo distrasse e si guardò di fianco proprio quando Trasso e l’altro ausiliario iniziarono il loro duello con i compagni pesantemente armati del nobile. Erano in minoranza e combattendo due contro quattro sarebbero riusciti a dargli poco tempo per recuperare lo stendardo dei Corvi Sanguinari. Fece sbattere la spada contro il bordo dello scudo e avanzò, raccogliendo la sfida del guerriero.
Lo sguardo del nobile si fece più intenso, i suoi occhi scuri brillavano come delle perle e cominciò a roteare l’arma per dare più vigore all’attacco. D’improvviso scattò in avanti e scaricò il colpo, mirando diagonalmente alla corona dell’elmo romano. Catone riuscì a salvarsi solo grazie ai suoi riflessi fulminei. Sollevò il braccio sinistro e ricevette il colpo nel bel mezzo dello scudo. L’impatto, però, gli scosse il braccio e la spalla e fece rimbalzare il legno contro il rinforzo orizzontale sulla parte anteriore dell’elmo, cosicché finì per mordersi la lingua.
Il dolore fu atroce e istantaneo e in bocca sentì il sapore ferroso del sangue. Non ci fu tempo per prendere fiato e la spada nemica tornò a calare, scontrandosi con lo scudo e costringendo Catone a cedere terreno. Si aprì una crepa in fondo all’unica difesa del romano e quando arrivò il terzo colpo, lo squarcio si estese. Il prefetto sapeva bene che lo scudo non avrebbe resistito ad altri impatti e che si sarebbe presto rotto. Senza di esso, sarebbe rimasto solamente con il suo corto gladio e data la lunghezza della spada avversaria, non sarebbe sopravvissuto a lungo.
La sua reazione fu istintiva e sorprese tanto lui quanto il guerriero. Non appena ricevette il colpo seguente, si scagliò in avanti e caricò con tutto il peso dietro lo scudo danneggiato. L’idea era quella di far cadere l’avversario, ma i riflessi del nobile erano pronti come quelli di Catone e riuscì a spostarsi da un lato, evitando gran parte dell’impatto. Il prefetto continuò a guardare avanti e, abbandonando lo scudo ormai inutile, corse per qualche passo fino allo stendardo e vi si fermò accanto, girandosi per affrontare il nemico che ormai sapeva bene di essere in vantaggio. Sollevò la spada in alto, come se volesse assestare un fendente selvaggio, e poi la scagliò in avanti, mollando la presa. La lama ruotò a mezz’aria sotto gli occhi sbalorditi dell’avversario, che fu colpito con violenza sulla spalla sinistra. L’arma rimbalzò di taglio dietro al nemico e cadde muta nella neve e nel ghiaccio a pochi passi di distanza.
«Ah!», fece il nobile, sorridendo con foga. Scosse la testa e si fece sotto con la spada tesa e pronta a infierire sull’ufficiale privo di difese.
Aveva solo una possibilità. Prese lo stendardo dei Corvi Sanguinari dalla neve e lo resse con entrambe le mani, puntandolo verso il nemico come se fosse una lancia con il drappo nero che pendeva dalla traversa. Fece una finta, ma l’altro rise e colpì l’asta con il piatto della spada prima di avanzare per finire Catone. Indietreggiando rapidamente, il romano vibrò un colpo con l’arma improvvisata e le pesanti pieghe del tessuto andarono a finire sul volto del guerriero, coprendogli la visuale. Questi si fermò immediatamente e le scostò con la mano libera. Ritirando l’asta a sé, Catone la abbassò, portando la punta tra i piedi dell’avversario e rigirandola in modo da avere la traversa dietro le caviglie dell’uomo. Tirò con forza e il deceanglo finì gambe all’aria, perdendo l’equilibrio e dimenando le braccia. Atterrò violentemente e per un attimo tutto il fiato che aveva in corpo abbandonò i suoi polmoni con un grugnito profondo. Il prefetto gli salì sopra e i loro occhi si incrociarono. Il nobile tentò di sollevare la spada per proteggersi.
«Buttala a terra!», intimò il romano, sollevando lo spuntone alla base dello stendardo e tenendolo sul petto dell’uomo. Per un attimo credette che l’avversario si sarebbe arreso, ma poi il nemico socchiuse gli occhi e fece per colpire Catone al fianco. Digrignando i denti, il romano tese i muscoli delle braccia e conficcò lo spuntone nell’apertura sotto al mento dell’avversario supino e premette forte, sentendo la punta ferrata che attraversava la carne e le ossa prima di uscire dal corpo, perforare la cotta di maglia e fermarsi sul terreno.
Il nobile piegò la testa all’indietro e spalancò la bocca, spruzzando gocce di sangue a ogni respiro. Il braccio che reggeva la spada si afflosciò e la lama affondò nella neve accanto a lui. Nel frattempo, Catone continuò a far girare l’asta in cerchio per causare quanto più danno possibile all’avversario. Gli mise poi un piede sul petto e la estrasse, osservando rapidamente come la base dello stendardo, piena di sangue scuro e viscoso, fumava nella fredda aria del mattino. L’uomo si contorse debolmente mentre si dissanguava, agitando i piedi nella neve e ciondolando la testa da una parte all’altra. Mormorò qualcosa tra sé e sé e il romano si domandò se fosse una preghiera o l’ultima parola per una persona cara.
Recuperata la spada, si guardò intorno per essere sicuro di non essere in pericolo immediato. Accanto a lui, Trasso sovrastava un nemico colpito, mentre l’altro Corvo Sanguinario indietreggiava con una ferita alla coscia. Il sangue fuoriusciva profusamente e si riversava sul bianco terreno ai suoi piedi. I guerrieri che erano venuti in soccorso dell’uomo sconfitto da Catone fecero un passo indietro, inorriditi dalla ferita mortale inferta al loro capo. Il loro sgomento venne rapidamente condiviso da molti altri difensori, che rimasero momentaneamente interdetti.
Non appena videro che il prefetto aveva recuperato lo stendardo, gli ausiliari sulla fortificazione esultarono e i loro commilitoni si unirono ben presto al grido. Catone capì subito che quello era un momento decisivo e sollevò in alto l’asta, richiamando i suoi uomini. «Corvi Sanguinari! Corvi Sanguinari! Alla vittoria!».
Gli ausiliari caricarono e si scagliarono sul nemico sconvolto. Nel frattempo, sempre più soldati si infilavano nelle brecce della palizzata per contribuire alla battaglia. Tuttavia, i compagni del nobile morente si ripresero in fretta e si ritirarono per cercare di radunare i propri uomini che ormai avevano abbandonato mezza fortificazione ai Romani. Avevano ancora il vantaggio numerico e, nonostante gli animi vacillanti, avrebbero potuto tener loro testa. Catone sapeva che doveva continuare ad avere l’iniziativa.
«Trasso, vieni qui!».
Il Tracio si precipitò verso di lui. «Ordini, signore?»
«Dammi il tuo scudo e prendi lo stendardo. Veloce!».
L’ausiliario eseguì l’ordine e un attimo dopo si ritrovò accanto al prefetto con in volto un sorriso spietato e soddisfatto mentre guardava lo stendardo tra le sue mani. L’ufficiale strinse la maniglia dello scudo e si preparò ad avanzare verso il nemico che si stava riorganizzando dal lato opposto della ridotta. Aveva la gola calda e secca, nonostante il freddo, e si schiarì la voce prima di rivolgersi di nuovo ai suoi uomini.
«Corvi Sanguinari! Riunirsi sotto lo stendardo!».
I soldati che non stavano combattendo si diressero velocemente al suo fianco e altri si unirono man mano che entravano nella fortificazione. Non appena ebbe una ventina di uomini vicini, Catone puntò il nemico e avanzò. «Seguitemi».
I Corvi Sanguinari avanzarono con gli scudi alti e le spade pronte a colpire. Sulla collinetta, i loro commilitoni continuavano a lottare contro i difensori, ma il prefetto sapeva che la battaglia per la ridotta sarebbe stata vinta o persa al centro del terrapieno. I nemici li attendevano a meno di quindici passi di distanza. Quella massa di guerrieri scarmigliati con tatuaggi labirintici su volti e braccia li fissò con odio e disprezzo. C’era anche della paura, notò Catone, e ritrovò un’eco di quel sentimento anche nel suo cuore, come accadeva ogni volta che scendeva in campo. Era quel desiderio innato di mettersi in salvo che da anni ormai aveva imparato a controllare.
Uno dei nobili sollevò la spada e ruggì prima di puntarla direttamente contro Catone e lanciarsi alla carica. I suoi compagni ci misero un po’ a reagire e lo seguirono a qualche passo di distanza. Il prefetto non raccolse la sfida e continuò ad avanzare a passo costante per entrare nello scontro insieme ai suoi uomini. La natura impulsiva di quei guerrieri lo fece quasi sorridere. Spesso e volentieri, infatti, quel comportamento si volgeva a vantaggio dei Romani, cosa che aveva tutte le intenzioni di dimostrare negli attimi a venire.
L’uomo in testa all’assalto si portò lo scudo davanti al corpo e sollevò la spada per caricare un colpo diretto all’elmo del romano e se possibile spaccargli il cranio. Catone si mise in ginocchio e sollevò lo scudo per attutire il colpo. Un istante più tardi, barcollò sotto l’impatto della lama prima e dello scudo poi. Non appena ricevette il secondo, fece roteare il gladio verso l’alto e sentì l’acciaio affondare nella coscia nemica. Ritirò la spada dopo averla rigirata nella ferita e l’uomo interruppe la sua avanzata gridando per la rabbia. Rialzandosi, lo colpì violentemente con lo scudo e si fece ancora più vicino per pugnalarlo di nuovo, questa volta sulla spalla, e tranciargli i muscoli. Ma il tremendo squarcio cominciò subito a sanguinare copiosamente. Un altro spintone rispedì il guerriero indietro di qualche passo e lo fece cadere contro i suoi compagni prima di farlo rovinare al suolo. Quelli più vicini a lui rallentarono e si fermarono.
«Corvi Sanguinari! Caricare!», gridò Catone, e lanciando un urlo selvaggio i suoi uomini si mossero mettendo tutto il loro peso dietro gli scudi per distruggere le file incerte dei Deceangli. Gli ausiliari traci si erano già guadagnati una certa reputazione per la ferocia con cui si battevano e adesso che si stavano aprendo strada tra la fitta massa di indigeni, avrebbero aumentato il proprio prestigio sanguinario. Li spinsero senza tregua e fecero selvaggiamente vibrare le spade, macchiando di gocce rosse la neve compatta e ghiacciata. La brutalità di quella controcarica, insieme alla perdita del loro secondo capo, ebbe presto un costo per gli indigeni. La speranza di salvare la ridotta cedette il passo a una battaglia per salvare la pelle e i guerrieri cominciarono a indietreggiare, allontanando con disperazione le spade dei Corvi Sanguinari.
I lunghi anni di addestramento diedero i loro frutti e Catone si spianò la strada con lo scudo, fermandosi soltanto per affondare la lama, prendere fiato e avanzare ancora. Oltre le teste dei membri della tribù davanti a lui, poteva vedere che le retrovie si erano girate per scappare e stavano scavalcando la palizzata per andare nello spazio al di là della prima linea di fortificazioni, dove la xiv Legione stava lottando per aprirsi un varco.
«Continuate così!», gridò Trasso dietro di lui. «Fateli a pezzi, ragazzi!».
Sebbene fossero molti di più dei Corvi Sanguinari che erano riusciti a infiltrarsi nelle loro difese, la maggior parte dei nemici era composta da semplici reclute – contadini e cacciatori ben poco avvezzi all’arte della guerra – e adesso stavano pagando un prezzo molto salato per aver scelto di opporsi all’invasore. Le vittime lasciate al suolo a sanguinare nel gelo erano già una dozzina e alcune venivano finite dagli ausiliari mentre altre erano semplicemente ignorate. Il massacro proseguì e i Corvi Sanguinari si lasciarono una scia di cadaveri alle spalle.
Quando Catone stese un uomo con la guardia della spada e alzò lo sguardo, si ritrovò alla base delle fortificazioni opposte. Il declivio era pieno di Deceangli intenti a sottrarsi all’eccidio in qualsiasi modo. Alcuni avevano buttato le armi a terra e si erano messi in ginocchio per implorare di essere salvati, ma nell’infuriare della battaglia la pietà scarseggiava. Un uomo anziano e smilzo si mise a piangere, chiedendo a un ausiliario di aver salva la vita. La risposta fu rapida e fatale. Il Tracio gli spaccò il cranio con il taglio della lama e il suono dell’osso frantumato raggiunse chiaramente le orecchie di Catone, mentre il sangue e il cervello fuoriuscivano dallo squarcio. Quella vista e quel rumore ridestarono una parvenza di razionalità in Catone, il quale si fermò improvvisamente.
«Corvi Sanguinari! Mantenete la posizione! Lasciateli andare!».
A uno a uno i suoi uomini cessarono di avanzare e rimasero fermi ad ansimare con gli scudi e le spade insanguinati, osservando il nemico in fuga.
Ormai nemmeno il guerriero più convinto aveva la grinta necessaria per combattere e si arrampicarono tutti oltre le palizzate prima di sparire. Quando anche l’ultimo abbandonò la ridotta, Catone abbassò lo scudo di Trasso e si guardò intorno respirando con affanno ed emettendo nuvolette di vapore nella fredda aria del mattino. Corpi, molti dei quali ancora vivi, ricoprivano il terreno e, con grande soddisfazione, vide che i Romani caduti erano ben pochi. In quel momento, il decurione Mirone entrò da una delle brecce nella palizzata e il prefetto lo chiamò a sé.
«Di’ a dieci dei tuoi uomini di portare i feriti nell’ospedale da campo». Si girò verso la piccola porta in fondo alla ridotta e osservò la trave di bloccaggio, ancora in posizione. «Voglio che tutti gli altri si radunino laggiù immediatamente. Va’».
«Sì, signore». Mirone salutò e corse via per eseguire i suoi ordini. Catone lo guardò per un momento e si domandò come mai ci avesse messo così tanto tempo a entrare nella fortificazione, visto che sarebbe dovuto essere a capo dei suoi durante l’attacco. Poi si arrampicò sulla fortificazione e si sporse con cautela dalla palizzata per osservare la situazione.
Lungo la linea difensiva infuriava una battaglia cruenta. La breccia aperta verso la metà della palizzata era teatro dello scontro più feroce. Qui, parecchi guerrieri nemici stavano tenendo testa ai legionari. Subito dietro, Catone vide gli indigeni che avevano abbandonato il forte. Si stavano dirigendo verso la battigia, dove si trovava un piccolo gruppo di imbarcazioni a chiglia piatta. Un manipolo di uomini cercò inutilmente di fermarli, ma questi cominciarono a trascinare le barche più vicine nel canale. Poco più in là, il prefetto notò un gruppetto di cavalieri intabarrati riuniti intorno a un uomo con le vesti scure dei Druidi. Avevano osservato la fuga dei loro sottoposti e il druido si era subito messo a sbraitare ordini. Non c’era tempo da perdere. Dovevano sfruttare l’occasione che gli si era presentata con la rapida caduta della ridotta.
L’ufficiale si voltò e vide che gran parte della sua coorte aveva preso posto in fondo alla discesa mentre gli altri si stavano ancora arrampicando attraverso le brecce. I primi feriti, quelli che potevano camminare, dovettero farsi di lato mentre i loro commilitoni correvano per raggiungere il gruppo di uomini in procinto di intraprendere la mossa successiva. Scendendo dalla fortificazione, Catone indicò la porta e chiamò Mirone. «Apritela!».
Mentre il decurione si portava dietro un manipolo di uomini per sollevare la sbarra, Catone si rivolse ai suoi. «Finora abbiamo fatto un ottimo lavoro, ragazzi. Quanto basta per aggiungere un’altra medaglia allo stendardo», disse, indicando i dischi dorati sull’asta retta da Trasso. «Vediamo di chiudere la giornata con uno di quegli assalti che solo i Corvi Sanguinari sanno fare. Là fuori ci sono migliaia di bastardi che non aspettano altro, ma al momento sono un po’ distratti dalla xiv Legione. I ragazzi del legato Valente ce la stanno mettendo tutta ed è compito nostro dargli una mano».
«Maledetti legionari!», gridò una voce tra i ranghi. «Se vuoi che il lavoro sia fatto bene, devi chiamare i Corvi Sanguinari!».
Gli uomini esultarono energicamente prima che Catone riuscisse a identificare la canaglia che aveva lanciato quel grido. Decise di assecondare la loro arroganza e sorrise a trentadue denti. «Proprio così! Adesso tocca a noi. Non appena vi darò l’ordine, voglio che la coorte esca dalla porta e faccia una curva, formando una linea sul fianco nemico. Quando attaccheremo, lo faremo in modo rapido e brutale. Lo squadrone di Mirone si occuperà di ripulire le fortificazioni mentre noi altri ci concentreremo sul terreno antistante. Tenete la posizione e non fermatevi davanti a nessuno. Ci siamo capiti?».
Gli uomini eccitati gridarono il loro assenso e sollevarono le spade al cielo. Il sangue gli ribolliva nelle vene e il prefetto sapeva di poter contare su di loro per portare a termine il lavoro assegnatogli da Quintato. Si voltò verso la porta e sollevò lo scudo. Vide che del sangue era colato lungo la lama della spada, fermandosi sulla guardia, e si chinò per pulirla sull’orlo della tunica di un uomo morto prima di rialzarsi, pronto a fare il proprio dovere.
«Corvi Sanguinari, avanzare a passo sostenuto».
Mosse le gambe e cominciò a fare una corsetta. Il fodero della spada e la guaina del pugnale gli sbattevano contro i fianchi e alle sue spalle risuonò il frastuono degli stivali sul suolo ghiacciato, insieme al respiro affannato dei suoi uomini e allo sferragliare delle armature contro gli scudi.
«Mirone, la tua sezione ci aprirà la strada. Quando arriviamo in campo aperto, dirigetevi verso le fortificazioni il più in fretta possibile».
«Sì signore».
Non appena il decurione prese posizione davanti alla colonna, gli ausiliari uscirono dalla ridotta e doppiarono la curva del fossato finché non si ritrovarono sulla costa. Volendo evitare che la vista di migliaia di guerrieri nemici turbasse i suoi, Catone li condusse con l’atteggiamento più calmo che riuscì a tenere. Alla sua destra numerose barche cariche di fuggiaschi stavano solcando goffamente le acque del canale. Di sicuro i compagni sull’isola avrebbero riservato loro una fredda accoglienza, ma c’era poco da fare. Avrebbero dovuto battersi meglio. Ora i Deceangli sulla spiaggia avrebbero pagato il prezzo della loro mancanza di nerbo.
Scelse un punto a cinquanta passi dalla ridotta, vicino al mare, e si fermò, stendendo un braccio verso la fortificazione.
«Formare linea!».
I decurioni si misero in posizione per creare la formazione richiesta, seguiti dai propri squadroni, mentre Mirone proseguì lungo lo spazio innevato per raggiungere il luogo in cui il lungo terrapieno difensivo si univa alla ridotta. Avrebbero incontrato pochi nemici sulla strada visto che il grosso era stato coinvolto nella battaglia che infuriava al centro delle difese. Mirone condusse i suoi in cima al declivio e li dispose in una stretta colonna, pronto a caricare la fortificazione non appena Catone avesse dato l’ordine.
Quando l’ultimo uomo prese posizione, il prefetto scrutò il terreno che gli si apriva davanti. La striscia di terra tra la palizzata e l’acqua era stretta, meno di quaranta passi nel punto più largo. La coorte, ancora formata da quasi trecento uomini, sarebbe riuscita a esercitare un certo peso all’inizio dell’attacco, ma Catone non si illudeva certo di riuscire a spazzare via tutto il fianco nemico senza prima perdere l’impeto o incontrare una resistenza sufficiente a fermare l’attacco. La sua speranza era quella di scuotere i Deceangli quanto bastava per far arrivare l’allarme fino alla breccia dove i legionari di Valente si stavano battendo con fervore. Se la xiv fosse riuscita a far entrare tutti i suoi uomini, lo scontro sarebbe finito in un attimo, perlomeno da quel lato del canale.
Guardò avanti e sollevò la spada.
«Corvi Sanguinari, avanzare!».
Una linea sottile di scudi ovali, spade scintillanti e facce severe mosse i primi passi sulla neve calpestata e i ciottoli sottostanti mentre lo stendardo svolazzava soave su di loro. Trasso lo tenne ben alto, per farlo vedere ai nemici e far capire subito chi è che stava per massacrarli. Il gruppo di cavalieri che Catone aveva visto poco prima si era già sparpagliato e alcuni si erano lanciati lungo la linea difensiva per avvertire i compagni dell’attacco laterale. Il druido e pochi altri, invece, erano rimasti per cercare di riunire e persuadere gli uomini scappati dal forte, oltre a ordinare in tutta furia ai guerrieri sulla palizzata di voltarsi per affrontare il nuovo attacco. Mirone e il suo squadrone, però, si stavano facendo strada lungo la fortificazione e falciavano e, senza perdere lo slancio e rimanendo al passo con il resto dei Corvi Sanguinari, respingevano chiunque cercasse di ostacolarli.
Giunsero presso la prima barca spiaggiata e Catone notò delle macchie di sangue al suolo, accanto alla chiglia, e ancora di più sulla poppa. Passandovi davanti, vide un giovane, non più di quindici anni, riverso dentro l’imbarcazione, con un braccio reciso all’altezza della spalla. I loro occhi si incrociarono rapidamente e poi Catone proseguì la sua avanzata. A un centinaio di passi di distanza il druido e i suoi compagni erano riusciti a riunire duecento, trecento seguaci e si stavano arrabattando per schierare una linea di combattimento improvvisata.
«Continuate ad avanzare!», incitò il prefetto. Buttando lo sguardo a sinistra vide che un gruppo di guerrieri abbastanza consistente da ostacolare l’avanzata dei Corvi Sanguinari lungo la fortificazione si era girato per affrontare Mirone. Le sue intenzioni di mantenere la coorte unita non sarebbero state rispettate. Non gli restava che avanzare il più possibile.
Quando ebbero dimezzato la distanza tra loro e i Deceangli in attesa, Trasso lanciò un grido: «In arrivo!».
Catone intravide il nugolo di frecce che si era levato dai ranghi nemici e sollevò lo scudo per proteggersi la testa, dando l’ordine. «Alzare gli scudi!».
La linea di combattimento romana seguì l’esempio del proprio comandante e dal cielo grigio la prima raffica di dardi si riversò su di loro. Le punte sferragliarono rumorosamente sugli scudi e alcune arrivarono con l’angolazione giusta per spaccare il legno e rimanere incastrate. Ci furono altri impatti, ancor più rumorosi, e capì che li stavano attaccando anche con delle fionde, spesso un’arma più pericolosa degli archi per via della sua forza d’urto. Come previsto, si udì un urlo nelle vicinanze e uno degli uomini barcollò: il colpo gli aveva frantumato lo stinco. Il soldato cercò di coprire il proprio corpo con lo scudo e fu lasciato indietro dai suoi commilitoni.
Catone dovette farsi più risoluto per mantenere l’andatura senza rallentare per via del costante sbarramento di proiettili e senza accelerare per chiudere la distanza più velocemente e scontrarsi prima con il nemico, correndo però così il rischio di perdere la coesione della linea. Patirono qualche altra perdita prima di raggiungere i membri della tribù. All’ultimo momento il prefetto azzardò un’occhiata oltre lo scudo e vide le espressioni truci degli uomini che stavano per affrontarlo e, dietro di loro, il druido intento a incoraggiare i suoi seguaci e, sicuramente, anche a maledire i Romani. I due schieramenti si scontrarono con il tonfo sordo e ineguale degli scudi e dei corpi, seguito dal raschiare e dal tintinnare di spade.
Per un attimo rimasero schiacciati gli uni contro gli altri, ma poi l’equipaggiamento superiore degli ausiliari fece la differenza e i Corvi Sanguinari cominciarono a falciare i loro nemici meno corazzati, molti dei quali a mo’ di protezione avevano solo degli scudi di vimini e dei mantelli imbottiti. Catone fece un bel respiro e gridò: «Spingere e chiudere! Uno!».
Al suo conteggio, spinse lo scudo in avanti e ci si riparò dietro, chiudendo lo spazio prima di affondare la spada. Gli altri soldati fecero lo stesso, respingendo il nemico e, grazie al ritmo dato da Catone, ripetuto poi dai decurioni, la coorte guadagnò terreno, passando sopra i caduti che venivano finiti senza pietà, per evitare che provassero a combattere da terra.
Il prefetto udì un rumore di passi nell’acqua e vide che tre indigeni si stavano spingendo in mare per provare a superare la linea romana. Alzò la voce e si rivolse agli uomini più vicini nella seconda fila. «Voi due. Coprite il fianco!».
La coppia si diresse sulla battigia per ostacolare il nemico, scattando nelle acque ghiacciate che gli arrivavano ai polpacci, e Catone continuò a scandire il ritmo dell’avanzata. Alla spinta seguente, sentì che lo scudo si stava spostando da una parte e vide delle dita strette sul lato sinistro che cercavano di sbarazzarsene. Non appena il suo corpo rimase esposto, una lancia provò a colpirlo alla cintola, ma grazie a uno scatto all’ultimo momento, riuscì a deviare la punta di ferro con la spada. Cercò di riprendere il controllo dello scudo ma, visto che non riusciva a spezzare quella presa, si chinò, affondò i denti nelle dita proprio al di sotto delle nocche e morse con forza. Lacerò la pelle e il sangue gli colò in bocca, finendogli sulla lingua. L’uomo urlò e mollò la presa. Catone si coprì subito il corpo e spinse lo scudo in avanti, sbattendolo contro la faccia del deceanglo che aveva appena morso. Un affondo violento e feroce mise fuori gioco il guerriero, il quale cadde con le mani sullo squarcio nel proprio addome da dove cominciarono a uscire sangue e viscere.
Il prefetto vide che alcuni uomini con facce spaventate stavano cominciando a battere in ritirata dalla retrovia, cercando di raggiungere le barche più vicine. Con urla furenti e colpi di piatto il druido e gli altri cavalieri cercarono di bloccarli e farli tornare nella mischia, ma la maggior parte riuscì a schivarli e a correre per salvarsi la pelle. Poi il panico si sparse nei loro ranghi e d’improvviso l’intera linea di combattimento si disfece, sganciandosi dai Corvi Sanguinari finché anche l’ultimo uomo smise di combattere, indietreggiò e scappò.
Gli ausiliari, esausti e insanguinati, si fermarono e lanciarono un affannato grido di vittoria, insultando i nemici in fuga. Il druido e gli altri cavalieri interruppero i loro inutili tentativi di tamponare l’ondata di seguaci in ritirata e guardarono con odio i Corvi Sanguinari. Poi il loro comandante prese le redini, brandì la spada e girò il suo cavallo verso lo stendardo. Prima che potesse partire alla carica, però, uno dei suoi compagni si mise in mezzo e gli intimò rabbiosamente di fare dietrofront. Dopo un’ultima occhiataccia al suo nemico, il druido digrignò i denti, voltò la cavalcatura e la spronò nella direzione opposta, dirigendosi verso il grosso dei guerrieri concentrati più avanti.
Gli uomini in fuga avevano già raggiunto dei compagni ancora in formazione e questi, non appena li videro, cominciarono a vacillare per poi seguire il loro esempio, facendo cedere tutto il fianco nemico.
«Avanti!», disse Catone, puntando la spada verso i Deceangli. «Non dategli tregua!».
Per quanto stanchi, i suoi uomini assaporavano il gusto della vittoria e non vedevano l’ora di sfamare il proprio appetito. Non ci fu bisogno di ulteriori incitamenti e la linea riprese ad avanzare. Sulle fortificazioni la fuga dei loro compagni aveva spezzato la forza di volontà degli uomini che si erano frapposti tra Mirone e il resto dell’esercito indigeno, e anche loro batterono in ritirata. Alcuni puntavano alla relativa sicurezza del lato opposto delle difese, mentre i più astuti si dirigevano alle barche e, dopo averle fatte scendere in acqua, ci si ammassavano sopra, seguiti a ruota da un numero ancor più grande di guerrieri mossi da un istinto di sopravvivenza quanto mai disperato. I nemici che battevano in ritirata erano sempre una gioia passeggera, concluse Catone. L’allegria del trionfo, infatti, lasciava ben presto il posto a un sentimento di disgusto nei confronti del puro egoismo dimostrato dagli uomini pronti a calpestare i propri compagni pur di salvare la pelle.
Il panico crescente che si stava diffondendo tra le file nemiche aveva raggiunto i guerrieri impegnati a tenere la xiv Legione fuori dalla breccia principale e anche loro cominciarono a cedere, finché la costa non sembrò animarsi di Deceangli in rotta per evitare di rimanere chiusi in quella trappola. Poco oltre, il bagnasciuga si avvicinava alle fortificazione e Catone fece fermare i Corvi Sanguinari nel punto più stretto per cambiare la formazione degli uomini rimasti in tre ranghi ben serrati. Con gli scudi ben serrati, la prima linea rappresentava un ostacolo impenetrabile per il nemico e adesso non dovevano far altro che aspettare che il legato Valente e i suoi uomini mettessero fine all’assalto. I guerrieri ancora impegnati a combattere sulla breccia cominciarono a essere respinti dal numero di soldati romani che gli si opponevano e Catone intravide il luccichio spento di un’aquila dorata proprio quando i legionari si affacciarono dal loro lato e iniziarono ad aprirsi la strada tra i nemici.
Mirone camminò a passo spedito per raggiungere il prefetto e lo guardò con un’espressione di pura euforia. «Ce l’abbiamo fatta, signore! Per tutti gli dèi, ce l’abbiamo fatta!».
«Non solo noi», rispose Catone, puntando la spada verso i legionari che si stavano riversando dalla breccia e quelli che si arrampicavano sulla fortificazione, ora che il nemico batteva in ritirata. A quanto pareva, non c’era più nessuno a opporre resistenza e la battigia del canale era piena di uomini che annaspavano nelle sue acque gelide per provare a conquistarsi un posto sulle barche e portare a buon fine la fuga verso Mona. Altre centinaia di Deceangli, invece, avevano optato per le palizzate sul lato opposto del terrapieno e si stavano dando alla macchia lungo la costa, per poi girare verso l’entroterra e raggiungere le foreste di pini ricoperte di neve.
«È stata un’ottima vittoria, signore», continuò Mirone, sorridendo estasiato. «Abbiamo distrutto quei bastardi. Li abbiamo distrutti completamente».
«Sì, è vero», concordò il prefetto in tono moderato. «Abbiamo fatto un ottimo lavoro. Un lavoro davvero impeccabile. Ma siamo solo a metà dell’opera».
Si girò per esaminare le difese ancor più formidabili sulla costa dell’isola e i ranghi silenziosi dei guerrieri e dei Druidi che avevano assistito al combattimento sulla terraferma. Era logico che non sarebbero scappati come i loro compagni. La scelta era semplice. Proteggere Mona, o morire. Sentì un leggerissimo tocco freddo sul dorso della mano e vide che un fiocco di neve gli si stava sciogliendo sulla pelle. Dal cielo ormai grigio scuro cominciarono a caderne altri. In pochi attimi, prese a nevicare in modo costante e la riva, con tutti i corpi riversi su di essa, venne presto ricoperta di bianco. Catone si schiarì la voce e sputò.
«Questa era la parte facile. Conquistare Mona sarà un’impresa molto più ardua. Ricordati le mie parole…».