capitolo tre

Un mese dopo, di mattina presto, Catone prese uno sgabello e si mise a sedere accanto a Macrone. «Come ti senti?», chiese al centurione sdraiato su un materasso imbottito di erica e paglia. Teneva la gamba fasciata ben distesa e l’amico fu contento di notare che il bendaggio era privo di macchie scure. Qualche giorno prima, Pausino aveva riferito che la ferita di Macrone non presentava tracce di necrosi e che, in seguito a un’ulteriore applicazione di aceto precedente al cambio di fasciatura, aveva anche estratto una quantità di pus decisamente generosa. Adesso non restava altro da fare che prendere la mandragora e il vino come indicato dal chirurgo e attendere la sua completa guarigione. Il militare era più che felice di bere il vino, ma trovava il sapore dell’estratto di radice leggermente sgradevole.

«Come mi sento?», rispose, sospirando profondamente. «Annoiato a morte, cazzo. Un soldato non dovrebbe stare in un posto del genere».

«E invece sì, soprattutto se il soldato in questione si è preso una freccia da caccia nella coscia», sorrise Catone. «D’altro canto, l’esercito può andare avanti anche senza di te per un mese».

«Dici?». Inarcò un sopracciglio. «Ho sentito che adesso c’è Crispo al comando della mia coorte. Come se la sta cavando?»

«Abbastanza bene. È fatto della tua stessa pasta, anche se gli mancano le tue maniere affabili e il tuo fascino».

«Molto divertente», disse Macrone con tono arrabbiato prima che il prefetto continuasse.

«Sul serio. Sta facendo un buon lavoro. Non c’è bisogno che tu stia in pensiero per i ragazzi, non stanno andando in malora. Crispo li sta addestrando senza remore per l’ormai prossima campagna e nel frattempo organizza le provviste e si assicura di avere abbastanza convogli, carri e muli per quando riceveremo l’ordine di marciare».

«Gliela lascio volentieri quella parte del lavoro. Non mi è mai piaciuta la burocrazia».

«Fa parte della tua posizione, centurione Macrone. Perché credi che ti paghino molto di più di un qualsiasi legionario?»

«Ho sempre pensato che fosse per via delle mie maniere affabili e del mio fascino».

Si fecero una risata, ma poi l’espressione del ferito cambiò e divenne seria. «Quindi Quintato invierà l’esercito sui monti?»

«Penso di sì. Il mio non è stato l’unico rapporto di tribù che stanno raggruppando i propri guerrieri. A quanto pare i Deceangli e gli Ordovici hanno stretto un qualche tipo di patto contro di noi. Di sicuro i Druidi hanno fatto da mediatori. Il legato ha ordinato alla xx e alle xiv, nonché alle sei coorti ausiliarie – Corvi Sanguinari inclusi – di effettuare i necessari preparativi». Catone fece schioccare la lingua. «È un peccato che non potrai unirti a noi».

Macrone si riprese di colpo e si mise a sedere sul materasso. «Non ci penso neanche. Vengo anch’io. Mettimi su un convoglio di rifornimenti finché la gamba non si rimette in sesto. Posso ancora combattere, se serve».

L’amico scosse il capo. «Ho già dato gli ordini. Rimarrai qui. Il legato ha mandato delle unità di riserva per controllare i forti di frontiera mentre condurrà le altre contro il nemico. Due centurie dell’Ottava Coorte Illirica saranno inviate qui quando ci metteremo in marcia. Il tuo compito sarà quello di prendere il comando durante la mia assenza, non appena ti potrai rialzare. Cerca di non rendere la loro vita un inferno, d’accordo?».

Macrone storse il naso. «L’Ottava Illirica? A quanto ho sentito è un gruppo di gentaglia inutile. Ragazzini imberbi, invalidi e veterani racimolati dalle altre unità. Non appena l’imperatore se ne andrà verranno congedati tutti in blocco. Che gli dèi mi assistano».

Catone diede una pacca sulla spalla dell’amico. «Allora sei l’uomo giusto per forgiarli come si deve».

«So benissimo come si addestrano dei soldati, ma non posso certo fare dei maledetti miracoli».

«Nessuno ti ha chiesto alcun miracolo, limitati a fare il tuo dovere. E poi non dicevi di essere annoiato? Tra poco sarai occupatissimo».

Un rumore di passi nel corridoio li interruppe e, un attimo dopo, un ausiliario a corto di fiato entrò e fece un saluto militare.

«L’optio a capo della sorveglianza ti porge i suoi omaggi, signore. Una colonna di cavalieri si sta avvicinando al forte».

Catone si alzò subito in piedi. «Da quale direzione?»

«Da est, signore. Stanno seguendo il sentiero che proviene da Viroconium».

Il prefetto si fermò un attimo a pensare. Visto che venivano dalla fortezza in cui era accampato il grosso dell’esercito, probabilmente erano dei Romani, ma poteva comunque essere un trucco. Era già successo che il nemico usasse le armature dei soldati catturati. «Nostri o loro?»

«Non sono riuscito a capirlo, signore. Li abbiamo visti in lontananza prima che sparissero dietro la cortina di nebbia a fondo valle».

«Capisco», rispose, grattandosi il mento. «E quanti sono?»

«Direi… almeno una trentina, signore».

«Non è una minaccia diretta, allora. Bene, torna alla tua posizione e di’ all’optio che lo raggiungerò a breve». Poi, si girò verso Macrone e fece spallucce a mo’ di scusa. «Tornerò quanto prima».

«Non preoccuparti, signore. Non vado da nessuna parte, purtroppo».

Catone seguì l’ausiliario fuori dall’ospedale dell’accampamento e si diresse in tutta fretta verso i suoi alloggi per dire a Trasso di portargli l’armatura, le armi e il mantello alla porta orientale. Una volta fatto ciò, attraversò a grandi passi il forte resistendo alla tentazione di mettersi a correre. Seguiva la scuola di pensiero secondo la quale un comandante doveva essere sempre calmo e imperturbabile per infondere serenità ai propri uomini. Quando raggiunse le scale che lo avrebbero portato in cima alla torre accanto alla porta, fu lieto di sentire che l’optio aveva dato l’ordine di dispiegare il resto dell’unità. Il suono acuto di una tromba d’ottone pervase l’aria con una rapida successione di tre note, seguita da una pausa e altre tre note. Gli ufficiali svegliarono gli uomini nelle caserme gridando e bestemmiando. Le porte dei loro alloggiamenti si spalancarono rumorosamente e i soldati uscirono all’aperto aiutandosi a vicenda a indossare le cotte di maglia prima di raccogliere il resto dell’equipaggiamento e correre alle rispettive posizioni lungo le fortificazioni.

Il prefetto si inerpicò sulla scala per raggiungere la piattaforma al di sopra della porta e si unì all’optio a capo della sorveglianza e a un’altra sentinella accanto alle palizzate di legno. Si scambiarono un saluto, poi Catone spostò lo sguardo sul sentiero che si allontanava dal forte per addentrarsi nel fondo valle. Era una mattina fresca e le nuvole che oscuravano il sole davano al panorama selvaggio una prospettiva uggiosa. Proprio come aveva detto la sentinella, la pianura era ricoperta da una fitta coltre di nebbia simile a una marea cinerea che circondava la collinetta su cui si poggiava il forte. I nemici sarebbero potuti arrivare a tiro d’arco dal fossato più esterno senza essere avvistati, stimò Catone. Si rivolse all’optio dello squadrone di Mirone e disse: «Hai fatto bene a mettere gli uomini in stato di allerta».

Per un attimo il soldato tradì la propria soddisfazione per il complimento ricevuto. «Da quando ti ho fatto chiamare non li abbiamo più scorti, signore».

Sulla torre regnava il silenzio, al contrario delle fortificazioni, dove i soldati della guarnigione martellavano con gli stivali sulle passerelle per raggiungere le proprie posizioni. Quando l’ultimo uomo si fu sistemato, Catone si sporse oltre il corrimano di legno e tese l’orecchio. In un attimo udì il tonfo distante degli zoccoli e, poco dopo, il tintinnio delle briglie e di altri equipaggiamenti.

«Scopriremo presto chi sono», sentenziò, maledicendosi subito per quel commento superfluo. Meno male che doveva essere un comandante imperturbabile.

La scala scricchiolò per il peso di Trasso che portava sotto braccio l’armamentario del prefetto. Con il fiato corto, adagiò tutto sulla piattaforma e aiutò Catone a infilarsi l’armatura a scaglie, sistemandogli il fodero della spada sulla spalla. «E il mantello, signore?».

L’ufficiale scosse la testa, concentrato sulla nebbia.

«Eccoli!». La sentinella accanto a loro indicò il sentiero che partiva dalla porta. Il prefetto e l’optio seguirono la direzione di quel dito e videro il debole scintillio dei cavalieri che si muovevano in mezzo alla coltre di nebbia. Catone riconobbe la forma di uno stendardo romano e un secondo dopo il primo cavaliere emerse dalla nebbiolina, ritrovandosi sul terreno aperto davanti alla porta. La tensione tra le file di guardia si allentò, poi il prefetto intravide l’elmo piumato e il pettorale dorato del soldato che seguiva a breve distanza lo stendardo.

«È il legato Quintato».

«Do ordine di preparare un ingresso d’onore, signore?», chiese l’optio.

«È troppo tardi per organizzare qualcosa. Aprite la porta e basta».

Il sottoufficiale andò dall’altro lato della torre e gridò agli ausiliari in attesa dietro la pesante fortificazione di legno. Catone discese di corsa, arrivando proprio mentre i soldati stavano grugnendo per tirare a sé la porta scricchiolante.

«Mettetevi sull’attenti!», sbraitò e poi si fece da parte, tutto rigido. Gli uomini raccolsero gli scudi e le lance e formarono una fila alla sua sinistra. Il rombo degli zoccoli riempì l’aria prima che i cavalieri tirassero le redini a pochi passi dal forte e proseguissero a piedi con le loro cavalcature. Il primo a entrare fu uno squadrone di legionari a cavallo appartenenti alla xiv Legione. Percorsero la strada principale per un breve tratto e andarono a formare un’unica fila dall’altro lato, mettendo gli animali in riga. Dietro di loro c’era lo stendardo personale del legato, seguito da Quintato stesso, tutto rosso in volto per lo sforzo della cavalcata in quella mattina così fredda. Era il comandante più anziano dei quattro presenti in Britannia e, alla morte di Ostorio, aveva preso il controllo della provincia. Catone lo reputava un ufficiale piuttosto competente ma, come accadeva con gran parte degli uomini della sua estrazione sociale, anche lui covava ambizioni politiche, a volte a scapito dei soldati che aveva sotto il proprio comando.

Il prefetto si riempì i polmoni d’aria. «Presentate le armi!».

Gli ausiliari porsero le loro lance al governatore pro tempore della Britannia. Quintato sollevò una gamba oltre la sella e scese a terra. Mentre il vessillifero gli prendeva le redini, il legato si avvicinò a Catone con un lieve sorriso sulle labbra.

«Prefetto Catone, è un piacere rivederti. Come vanno le cose? Ci sono stati altri segni di attività nemiche?»

«No, signore, anche se hanno inviato dei gruppi per molestare le nostre pattuglie e tenerle a bada».

Quintato annuì. «Un’ulteriore prova che stanno tramando qualcosa».

«Esatto, signore».

«E una ragione in più per colpirli il prima possibile. Non dobbiamo aspettare che prendano l’iniziativa. Sarà un’ottima occasione per far guadagnare alla tua divisione un po’ di insegne al valore, non trovi?».

Catone non rispose. C’erano ragioni migliori per andare in guerra che accumulare certi riconoscimenti. Quintato si guardò intorno. «E dov’è quell’attaccabrighe del centurione Macrone? Sono sicuro che stia morendo dalla voglia di darci dentro con il nemico».

«Il centurione si sta riprendendo da una ferita, signore. È in infermeria».

Il legato si accigliò. «Ah sì? Niente di grave, spero».

«Una freccia, signore. Sta guarendo bene. Il chirurgo dice che entro la fine del mese potrà svolgere delle piccole mansioni».

«Peccato. Si perderà tutto il divertimento».

«Già, signore». Catone indicò il quartier generale al centro del forte. «Gradisci dissetarti nei miei alloggi?»

«Certamente. Fa’ pure strada. Ma prima vorrei passare in rapida rassegna l’accampamento per esaminare i tuoi uomini».

Mentre camminavano lungo la strada principale, l’ufficiale a capo della scorta diede ai suoi uomini l’ordine di smontare e abbeverare i cavalli. Nel frattempo il segnale di tornare a riposo echeggiò per tutto il forte. Quintato osservò con occhio professionale le truppe e la maniera ordinata con cui veniva gestito l’avamposto.

«Come stanno i tuoi soldati?»

«Signore?»

«Sono di buon umore? Quest’anno si sono ritrovati in prima linea e hanno sofferto delle perdite piuttosto ingenti. So che gran parte delle tue forze è composta da sostituti. Possiamo fare affidamento su di loro?».

Il prefetto pensò un attimo prima di rispondere. «Mi fido di loro, signore. Di tutti loro. I veterani sono i più tosti e danno l’esempio agli altri. Io e il centurione Macrone abbiamo addestrato le nuove reclute col pugno di ferro e devo dire che stanno venendo su bene».

«Ottimo», annuì tra sé e sé il legato. «È quello che volevo sentire. Forse ti stai chiedendo perché sono venuto a farti visita».

Catone gli diede una rapida occhiata. «Ci ho pensato, signore».

Quintato sorrise e poi si fece subito serio. «Ho ricevuto altri rapporti come il tuo da gran parte degli avamposti di frontiera. Non c’è dubbio che il nemico stia radunando le proprie forze. Sono sicuro che vogliono colpirci prima che arrivi il nuovo governatore ed è mia intenzione colpirli per primo. Ti dirò il resto in privato».

Più tardi, negli alloggi di Catone, Trasso lasciò sul tavolo un vassoio con una brocca di vetro e due calici di argento e chinò il capo rivolto al legato prima di andarsene, lasciando l’ospite da solo con il proprio comandante. Il prefetto riempì i calici e ne porse uno a Quintato prima di prenderne uno per sé e sedersi sullo sgabello accanto alla scrivania, cedendo all’ufficiale la sedia più comoda. Sorseggiando il vino si rese conto che quella era l’ultima scorta di Falerno e sospirò in silenzio al pensiero di tutte le giare di Gallico da due soldi che rimanevano nella sua scorta personale.

Quintato guardò il calice, sollevò un sopracciglio in segno d’approvazione e lo posò sul tavolo, incrociando lo sguardo del sottoposto.

«Abbiamo l’occasione di assestargli un colpo da cui potrebbero non riprendersi, Catone. Se sono così folli da ammassare i loro guerrieri in un solo luogo, risparmiandoci la fatica di andarli a stanare a uno a uno, non dovremmo lasciarceli scappare. Non ne posso più di sopportare le loro incursioni e di lanciarmi al loro inseguimento per poi farmeli sfuggire tra le montagne. Ho intenzione di radunare l’esercito, inviarlo nel cuore del loro territorio e distruggere tutti quelli che ci si pareranno davanti. Soprattutto quei Druidi. Se li minacciamo, chiameranno tutti i loro alleati a raccolta, risparmiandoci la fatica di cacciarli poco alla volta».

«Questo comporterebbe attaccare il nascondiglio dei Druidi a Mona, signore».

«Infatti ho dato ordini affinché uno degli squadroni navali ci venga incontro sulla costa e ci aiuti con la missione sull’isola. Quando avremo finito, i Deceangli saranno solo un lontano ricordo e ogni traccia dei Druidi e dei loro boschi sacri sarà cancellata per sempre dalla faccia della terra». Fece una pausa per dare più peso alle proprie parole. «Non appena i Siluri e gli Ordovici conosceranno il destino che è toccato ai loro vicini del Nord, tratteranno la pace. Così, finalmente, riusciremo a rendere sicura la provincia».

Catone mosse con delicatezza la coppa che aveva in mano. «Con tutto il dovuto rispetto, signore, è la stessa cosa che aveva cercato di fare Ostorio. Invece di spaventare i nemici per farli negoziare, però, era riuscito solamente a rinnovare la loro determinazione nel combatterci».

«Ma allora Carataco era al comando. Ora che lui è andato, non c’è nessuno che tenga unite le tribù».

«Tranne i Druidi».

«Sì, è vero. Quello che intendo è che non hanno una figura di rappresentanza unica dietro cui aggregarsi, nessuno che abbia abbastanza carisma per impedire a quei barbari di azzannarsi vicendevolmente alla gola per il tempo sufficiente ad attaccarci. Se puniremo i Deceangli in modo esemplare, forse le altre tribù si renderanno conto che la scelta è sottomettersi al volere di Roma o essere sterminati».

Catone rise nervosamente. «Sterminati? Non dirai sul serio, signore?».

Quintato lo guardò con un’espressione piuttosto fredda. «Sono serissimo, prefetto. Tutti, fino all’ultimo neonato e animale».

«Ma perché?»

«A volte le lezioni più dure sono l’unica soluzione».

«E se la tua lezione gli insegnasse tutt’altro, signore? Dopotutto, Ostorio aveva provato a fare quello che tu stai sostenendo, o sbaglio? L’unico risultato che ha ottenuto è stato quello di alimentare la loro resistenza nei confronti dell’Impero».

«Questo perché a lui mancava la convinzione per farlo. Oppure perché era troppo esausto. Se fosse stato più giovane, le cose sarebbero andate diversamente. Ora come ora, sembra proprio che il fato abbia scelto me per continuare il lavoro di Ostorio. A prescindere dalla situazione, prefetto Catone, ho già i miei piani. Forse perderemo l’occasione per intascarci una fortuna vendendo i prigionieri sul mercato degli schiavi, ma ce ne faremo una ragione. Concentrandoci invece su prospettive più ampie, se una buona dose di spietatezza convincerà le altre tribù di quanto sia futile la loro resistenza, nel lungo termine avremo salvato molte vite». Si grattò la guancia. «Anche quelle degli indigeni. Sono sicuro che una persona intelligente come te capirà il mio ragionamento, o sbaglio?».

Catone si fermò un attimo a pensare. Il suo piano era abbastanza logico, ma per i suoi gusti era indebitamente dispendioso, per non parlare dell’effetto che avrebbe avuto sulle relazioni future tra Roma e la popolazione della nuova provincia. Sarebbe stato meglio cercare di minimizzare la loro sofferenza e persuaderli ad arrendersi. Detto questo, però, era un soldato e aveva giurato di obbedire all’imperatore e a chiunque questi avesse posto in una posizione di autorità al di sopra di lui.

«Sì, signore. Capisco».

«Ottimo».

Bevvero entrambi un altro sorso, pensierosi. La mente di Catone tornò a una questione alla quale non era ancora stata data una risposta adeguata. Si schiarì la voce e disse: «Signore, avresti potuto convocare tutti i comandanti delle varie colonne direttamente al tuo quartier generale per comunicare loro questo piano. Perché sei venuto qui di persona, se posso chiedere?».

Quintato sorrise lentamente e sollevò il calice fingendo un brindisi. «La tua circospezione ti fa grande onore, giovane Catone. Lo dico come un complimento, senza condiscendenza. Per essere un soldato professionista, hai una profonda conoscenza delle realtà politiche di questo mondo. Dimmi, secondo te perché sono venuto qui?».

Il cuore del prefetto accelerò. Il legato conosceva bene sia il suo passato che quello di Macrone: entrambi erano stati reclutatati per lavorare come agenti del segretario imperiale in persona, Narciso. Quintato lo sapeva perché anche lui aveva svolto una funzione simile per l’acerrimo nemico del segretario, un servitore imperiale di nome Pallante. I due liberti si erano fatti guerra per anni cercando di accumulare quanto più potere possibile e adesso che le forze di Claudio stavano iniziando a scemare, non ci sarebbe voluto molto prima che Pallante sospingesse il suo successore preferito, Nerone, verso il trono imperiale. La loro guerra mortale continuava a imperversare perfino lì, ai confini più lontani dell’Impero. Assegnare a Catone e Macrone un incarico pericoloso esattamente nel momento in cui erano tornati nella provincia era stata una mossa deliberata, organizzata da Quintato su istruzioni di Pallante. Visto che il prefetto era riuscito a risolvere la situazione delicata al forte periferico di Bruccium e considerato il ruolo che lui e Macrone avevano svolto nella cattura di Carataco, però, Catone sperava di aver raggiunto una tacita tregua tra loro e Quintato.

«Non ne ho idea, signore».

«Suvvia. Mi deludi. Sospettavo che potessi prendere la mia presenza come una minaccia nei tuoi confronti. Permettimi di metterti il cuore in pace. Non sono venuto per farti del male. Al contrario. Sono venuto da te per svariati motivi. Il primo è puramente militare. Volevo valutare con i miei stessi occhi la preparazione dei tuoi uomini per la campagna e sono molto contento di ciò che ho visto. Le tue due coorti sono in ottima forma, non come quelle di certe guarnigioni che ho avuto modo di visitare in questi giorni. Il secondo motivo è più di natura personale, prefetto Catone». Quintato posò il calice e incrociò le mani, scrutando nelle pupille di Catone. «Abbiamo avuto modo di trovarci in disaccordo, prima di oggi».

«Disaccordo è un eufemismo, signore».

Il legato si accigliò. «Siamo tutti uomini di qualcun altro. Tu sei stato costretto a lavorare per Narciso e io sono stato persuaso a servire Pallante. Per il momento abbiamo entrambi soddisfatto le esigenze dei nostri burattinai».

«Io non sono il burattino di nessuno», rispose Catone con fermezza.

«Lo credi davvero? Adesso sì che mi deludi. Ma tralasciando per un attimo la questione, ho bisogno che tu capisca le mie vere intenzioni per la campagna imminente. Ascoltami bene». Quintato prese il calice e si appoggiò allo schienale. «A breve la situazione a Roma cambierà. L’imperatore Claudio è un uomo anziano, e gli uomini anziani tendono a crepare all’improvviso. Le persone sono inclini ad attribuire questi tipi di morte a cause naturali, il che avvantaggia molto quelli che mirano a ottimizzare il processo di mortalità. Mi segui?».

Fin troppo bene, pensò Catone. Qualche anno prima, lui e Macrone erano stati coinvolti in un’operazione segreta per proteggere Claudio da un branco di aspiranti assassini all’interno del palazzo imperiale. Sia loro sia l’imperatore erano sopravvissuti a malapena a quell’esperienza.

«Oggigiorno, il veleno o una lama tra le costole sono diventate cause naturali, a palazzo. È un peccato, ma le cose stanno così. Se da un lato ci saranno sicuramente dei congiurati già all’opera per far sì che l’imperatore esca di scena prima del tempo, dall’altro ci sono il mio e il tuo uomo che sgomitano per mettere i loro candidati sul trono non appena Claudio morirà. Al momento il favorito è Pallante, con Nerone, ma chi può dirlo? Forse Narciso sarà in grado di tramare la candidatura al seggio del padre di Britannico, dopotutto quest’ultimo ha il vantaggio di essere il figlio naturale dell’imperatore. Nerone, però, ha sua madre, e quella puttana di Agrippina farà di tutto pur di ottenere ciò che vuole. Ciononostante, Narciso potrebbe ancora sorprenderci. È in un angolo ed è proprio in questi momenti che è più pericoloso. Sei fortunato ad averlo dalla tua parte».

Catone soffocò una risata amara. «Fortunato? Io e Macrone non abbiamo avuto alcuna voce in capitolo. Siamo stati costretti a eseguire i suoi ordini, ritrovandoci più e più volte in pericolo».

«Niente di nuovo, insomma. Sei comunque un soldato».

«Sì, signore. E se è vero che sono pronto a sacrificare la mia vita per Roma, è altrettanto vero che non finirò in pasto ai vermi per quel rettile di Narciso».

«Un principio giusto e lodevole. Come molti princìpi, però, è completamente disgiunto dalla realtà in cui spesso e volentieri ci ritroviamo, o sbaglio? E poi, è meglio avere una serpe come Narciso al proprio fianco piuttosto che alla gola. Solo uno sprovveduto lo penserebbe, e tu non sei uno sprovveduto». Sollevò il calice verso Catone e lo svuotò prima di posarlo bruscamente. «Permettimi quindi di condividere con te i miei pensieri. Ho un’opportunità. Il nuovo governatore non arriverà in Britannia prima di qualche mese, quanto mi basta per colpire il nostro nemico e schiacciarlo una volta per tutte. È mia intenzione distruggere i Deceangli, prendere l’isola di Mona e spazzare via i Druidi. Senza di loro, non ci sarà più nessuno in grado di coordinare la resistenza delle tribù. Quei barbari saranno costretti ad arrendersi e la vittoria sarà mia. Visto che il prossimo anno verrò richiamato a Roma, non mi dispiacerebbe avere una campagna di successo alle spalle. Presumendo che Nerone succeda al padre adottivo e che Pallante rimanga al potere dietro di lui, la mia stella potrebbe cominciare a brillare. Ora, però, come ogni uomo influente, anch’io avrò bisogno di seguaci su cui poter fare affidamento. Uomini capaci e di buona reputazione, ma anche subdoli e con una certa esperienza. Tu sei un uomo del genere, proprio come il tuo amico Macrone. Sarei onorato di potervi annoverare tra i miei sostenitori».

«Non stento a crederlo».

Quintato si bloccò per un attimo e poi proseguì con un tono calmo e minaccioso. «Prefetto, prima di assumere una posizione moraleggiante, lascia che ti ricordi in che mondo viviamo. È quasi sicuro che Narciso sarà il primo a essere proscritto non appena Nerone salirà al potere. Conosco molto bene Pallante, e so che farà di tutto per assicurarsi che i seguaci di Narciso vengano eliminati insieme al loro padrone».

«Io non sono un suo seguace».

«Puoi anche vederla così, ma ciò non cambia quello che Pallante pensa. Secondo lui, tu e Macrone siete dei meri dettagli. Non si fermerà certo a pensare a cosa è giusto e cosa è sbagliato. I vostri nomi finiranno sulla sua lista e a tempo debito verrà emesso un mandato fino in Britannia per autorizzare il vostro arresto e la vostra esecuzione. Sarà la vostra fine. Anche se non del tutto. Se ho capito bene, hai una moglie. Quando verrai condannato per tradimento, i tuoi beni saranno confiscati e a tua moglie non rimarrà nulla. Tienilo a mente».

Aspettò che le sue parole si facessero più gravi con l’attesa, poi ricominciò a parlare in modo ragionevole. «Detto questo, se voi foste i miei uomini, potrei garantire per voi. Direi a Pallante che non servite più Narciso, che siete affidabili e leali nei miei confronti e, per estensione, anche a Pallante e a Nerone. Ovviamente, la vostra posizione sarebbe ancora più inattaccabile se faceste un ulteriore passo…».

Catone capì l’implicazione. «E fingessimo di essere leali a Narciso mentre aiutiamo te e Pallante a distruggerlo?»

«Perché no? Come tu stesso hai detto, quell’uomo è un rettile. Ha messo a repentaglio la vostra vita. Non gli dovete niente».

«Così come non dobbiamo niente a Pallante o a te, signore».

Il legato scoppiò a ridere. «Adesso parli così, ma tra uno o due anni le cose cambieranno, e allora sì che mi ringrazierai per la mia protezione. Non sto parlando soltanto di te e di Macrone, ma anche della tua famiglia».

Il prefetto sentì una fitta d’ansia nelle viscere. «Stai minacciando la mia famiglia?»

«Al contrario, sto offrendo loro la mia protezione. Purtroppo le persone che amiamo e per cui facciamo dei sacrifici presto o tardi diventano il nostro tallone d’Achille. Se vuoi controllare un uomo, prima devi controllare le sue paure. Non provo piacere nel dirlo, mi limito a sottolineare la verità della situazione. La scelta sul da farsi spetta solo e unicamente a te».

«Non ho alcuna scelta», rispose Catone sottovoce, cercando di controllare il proprio temperamento. «O sbaglio?».

Quintato fece di no con la testa. «Temo proprio di no. Se può esserti di conforto, anche la mia famiglia è sotto il controllo di Pallante. Venne da me, come faccio io oggi con te, e mi fece la stessa offerta, e la stessa minaccia, e da allora sono condannato a eseguire i suoi ordini. Sono passati dieci anni. Allora Pallante stava ancora strisciando sulle scale per il successo».

«Eppure hai scelto di non eseguire i suoi ordini e non ci hai eliminato».

«Credi? Vi ho mandati verso quella che pensavo fosse una morte certa a Bruccium. Siete riusciti a vincere, però, contro ogni probabilità. Per questo motivo, vi ammiro. Sarebbe un peccato se doveste perire inutilmente… Suvvia, Catone. Tu hai chiara la situazione. Avrai già capito che non ci sono alternative. Perlomeno non senza conseguenze dolorose».

«L’ho capito», ammise il soldato.

«Comprendo il tuo sconforto, ma lo supererai. La mancanza di scelte farà in modo che tu vada oltre, lasciandoti davanti alle uniche azioni possibili: adattarsi e sopravvivere. Dopotutto, non è questo ciò che ci insegna la vita?».

Il legato attese una risposta, ma Catone era troppo infuriato e amareggiato per fidarsi della propria bocca. Voleva confutare l’argomento che gli era stato presentato. Voleva assolutamente rimanere fedele ai propri princìpi, sfidando il volere degli uomini potenti che decidono il destino degli altri. Desiderava davvero un mondo in cui l’onore, l’onestà e il merito contassero più della furbizia, dell’avarizia e dell’ambizione. Era però evidente che questo suo desiderio altro non era che un’ingenua illusione. Nonostante tutto quello che aveva compiuto, tutte le battaglie che aveva intrapreso e vinto e tutte le promozioni che si era guadagnato, la sua vita era ancora in balia dei capricci di uomini come Narciso e Pallante. E non erano neppure dei veri Romani, bensì semplici liberti che avevano imparato a rigirarsi tra le mani i loro vecchi padroni. La cosa peggiore era la consapevolezza di essere vulnerabile alle loro macchinazioni a causa del matrimonio con Giulia. A tempo debito, anche il loro bambino sarebbe diventato un ostaggio inconsapevole di quel gioco fatale di intrighi politici a cui gli uomini all’interno del palazzo imperiale partecipavano istintivamente, con la stessa naturalezza con cui gli altri respiravano.

Sospirò.

«È evidente che ti stai convincendo», osservò Quintato, con un atteggiamento di simpatia. «Molto bene. Nessuno dovrebbe scegliere di morire per mancanza di senno. Adesso ti devo lasciare. Avrai sicuramente bisogno di tempo per considerare ciò che ti ho detto e accettarlo. Riparleremo quando sarai pronto. Grazie per il vino».

Si alzò e Catone lo seguì. L’informalità di qualche istante prima svanì in un attimo e il legato tornò a essere il suo comandante, brusco ed esigente.

«I tuoi nuovi uomini arriveranno al forte tra due giorni. Appena giungeranno qui, farai immediatamente marciare la tua colonna in direzione di Mediolanum. Una volta lì, vi unirete alla xiv Legione, a una vessillazione della xx e alle altre coorti ausiliarie assegnate alla campagna. Visto che comanderò tutta la missione, Valente prenderà il controllo della xiv mentre il prefetto del campo Silano si incaricherà di guidare la xx. È mia intenzione iniziare l’operazione tra cinque giorni. Penetreremo nelle montagne, raderemo al suolo ogni singolo accampamento nemico, localizzeremo e distruggeremo le loro forze, eliminando ogni forma di vita che ci si parerà davanti. Dopodiché, faremo lo stesso a Mona. Quando il nuovo governatore arriverà in questa provincia, la troverà in ordine. Nessuno sarà più disposto a sfidare la supremazia romana. Inoltre, il rimpiazzo di Ostorio non si prenderà il merito di nessuna conquista. Lo rivendicherò io e chi mi segue. Ci siamo capiti, prefetto Catone?»

«Sì, signore».

«Allora non abbiamo più niente da dirci. Ci vediamo a Mediolanum».