capitolo tredici

«Fuori gioco!», gridò Macrone dal punto di osservazione che sormontava il campo d’addestramento fuori dal forte. Davanti a lui era stata riservata un’area per una partita di arpasto, con tronchi ad ogni angolo e una piccola canalina riempita di gesso a segnare la linea di metà campo. Aveva deciso di inserire quello sport nell’allenamento degli Illiri per rinforzarli e farli entrare in contatto con i loro commilitoni. Le partite venivano disputate con due squadre da otto uomini alla volta, mentre il resto degli Illiri e dei civili, a cui era stato dato il permesso di guardare, se ne stavano a bordo campo per esultare o lanciare insulti scurrili. Anche gli ufficiali erano inclusi e Macrone sorrise a trentadue denti quando vide il centurione Fortuno che si alzava dalla superficie fangosa per consegnare la palla di pelle imbottita di piume agli avversari.

Gli altri giocatori, con le tuniche sporche di fango, cominciarono subito a sgomitare intorno all’uomo che deteneva la palla, il quale la lanciò verso un compagno che era riuscito a divincolarsi dal gruppo e stava correndo verso la meta oltre la linea centrale, seguito a ruota dai suoi sfidanti. Arrivò a dieci passi dal fare punto, ma venne placcato e buttato faccia a terra sul terreno smosso dai passi dei giocatori, fermandosi dopo una breve scivolata. Tutti gli altri si ammassarono immediatamente su di lui, cercando in ogni modo di strappargli la palla di mano.

Macrone si portò le mani alla bocca e disse: «Buttati nella mischia, Fortuno. Dacci sotto, forza!».

L’ufficiale sovrappeso si tirò su la cintura che gli reggeva la tunica e corse a passo lento verso la zuffa. Le due squadre lottarono per il possesso della palla che, alla fine, rotolò libera e andò a finire in una pozzanghera ai piedi del centurione. Reagì con lentezza, ma riuscì comunque a prenderla e ad avanzare di qualche passo prima di essere steso da uno dei suoi avversari. Gli spettatori ruggirono di piacere alla vista del loro comandante sotto una montagna di uomini talmente infangati da non riuscire a distinguere a che squadra appartenessero, nonostante si riuscisse a vedere parte degli stracci rossi e blu legati al braccio destro.

Un giocatore ben piazzato con i capelli biondi e la barba strattonò un paio di uomini, spostandoli da un lato, e si tuffò nella mischia, conquistando la palla prima di arrivare alla linea di metà campo. Si lanciarono tutti su di lui, ma questi li respinse con sprezzante facilità, calpestando anche l’ultimo difensore. Con un grido trionfante corse e scivolò per il tratto che rimaneva verso la linea che segnalava la loro meta, scagliando la palla al suolo prima di alzare entrambi i pugni in aria e lanciare il proprio urlo di guerra. Fortuno e il resto della squadra lo raggiunsero per dargli delle pacche sulle spalle e condividere il suo trionfo, mentre l’altra squadra rimase a osservarlo abbattuta.

«La prima squadra della centuria di Fortuno vince!», annunciò Macrone. «La partita è finita! Altre due squadre in campo, forza!».

Mentre squadre stanche e inzaccherate abbandonavano l’area e nuovi sfidanti prendevano il loro posto, Macrone chiamò a sé l’optio Diodoro.

«Signore?»

«Il tipo grosso. Come si chiama?».

Diodoro lanciò un’occhiata alla sagoma alta che stava ancora sorridendo e festeggiando con il resto della sezione. «Giunio Lomo signore. Un uomo eccellente».

«Lo vedo bene. Ha lo spirito giusto. Ovviamente il fatto che sia massiccio come una latrina di mattoni aiuta non poco».

«Sì, signore».

Macrone osservò Lomo per un attimo. «Non mi sembra della stessa pasta degli Illiri».

«E non lo è, signore. È stato reclutato qui in Britannia. Suo padre era un mercante di vino della Gallia e sua madre era una donna dei Cornovi».

Il centurione annuì. «Questo spiega tutto».

Come altre unità ausiliarie consolidate nel tempo, anche la Coorte Illirica era ormai tale solo di nome, avendo collezionato rimpiazzi dai vari centri sparsi in giro per l’Impero. Macrone fece schioccare la lingua. «È uno spreco lasciarlo in un reparto scadente come questo. Vediamo se può interessargli entrare nei Corvi Sanguinari. Lomo è il tipo giusto per infondere la paura degli dèi nei nemici. Fallo venire da me dopo il primo cambio della guardia».

Diodoro annuì.

Il centurione aspettò che la palla fosse data alla squadra che aveva vinto al lancio della moneta, e che doveva difenderla. Le due squadre ai lati della linea di mezzo e attesero il segnale d’inizio. Il chiacchiericcio degli spettatori si spense rapidamente non appena Macrone sollevò il bastone di vite. Quando tutto fu silenzioso e immobile, lo abbassò con vigore verso il campo da gioco. «Cominciate!».

La squadra in attacco si lanciò immediatamente in avanti e i difensori fecero del loro meglio per sbarrarle la strada, spintonando brutalmente. Inevitabilmente uno degli attaccanti riuscì a infilarsi tra i corpi degli altri ed entrambi i lati si scagliarono sulla palla, incoraggiati dalle grida degli spettatori. L’uomo in testa la afferrò e si girò verso l’altro lato del campo, schivando il primo placcaggio prima di essere bloccato da un secondo giocatore. Un altro gli si avvinghiò alle gambe e lo travolse con una spinta feroce, mandandolo a terra di schiena. Entrambe le squadre lottarono per il possesso di palla, dando inizio a una seconda mischia.

Tra le grida della folla, Diodoro si chinò vicino a Macrone e gli indicò le colline vicine. «Signore, lassù!».

Il centurione strizzò gli occhi nella direzione indicatagli e vide un piccolo gruppo di cavalieri che galoppava verso il forte. Per un attimo sentì una fitta d’ansia, ma poi distinse le loro tuniche rosse.

«È la pattuglia. Vanno di fretta. A quanto pare Pandaro ha qualcosa da dirmi. Ci penso io. Prendi il comando qui. A breve farà sera. Fa’ che sia l’ultima partita della giornata».

«Sì signore».

Dopo che si furono scambiati un rapido saluto, Macrone scese dalla montagnola e si diresse verso l’entrata del forte più vicina. Dietro di lui, si udì un forte boato: un giocatore si era liberato dalla mischia ed aveva guadagnato diversi passi verso il suo territorio prima di essere bloccato e gettato a terra dagli avversari. Il centurione si guardò indietro, tentato di rimanere a guardare ancora un po’, poi sospirò e continuò verso la porta. Pandaro sarebbe andato subito al quartier generale, giacché era il luogo più logico in cui trovare il comandante della guarnigione. Se l’optio aveva qualcosa da riferire, era suo dovere dargli udienza il prima possibile.

«A quanto vedo avete riportato a casa la preda del giorno», disse Macrone con un gran sorriso quando poco dopo uscì dall’edificio centrale e vide il prigioniero saldamente stretto nella presa dell’optio Pandaro e di uno dei suoi. Il sangue del guerriero nemico si era seccato, lasciando una crosta scura su gran parte del volto e dei capelli scompigliati. Guardò i suoi carcerieri di traverso e strinse le labbra come a voler dire che non avrebbe mai risposto alle loro inevitabili domande.

Macrone indicò la staccionata per cavalli che era stata piantata a un lato del cortile. «Legatelo lì mentre fate rapporto».

Il sole del pomeriggio era ormai basso nel cielo e il forte era immerso nel bagliore bluastro del crepuscolo invernale. L’aria era fredda e una brezza sospirava leggera tra le palizzate e le torri di guardia. Alzando gli occhi, Macrone vide una spessa striscia di nuvole che si stava avvicinando da occidente e si domandò se fosse foriera di quei temporali gelidi così comuni in Britannia durante quella stagione o, peggio ancora, della prima nevicata. Entrambi avrebbero ostacolato l’avanzata di Quintato e del suo esercito a nord. I Druidi, poi, avrebbero sicuramente detto ai loro seguaci che quello era un segno del favore che gli dèi riservavano loro contro l’invasore. Continuando a riflettere, Macrone si domandò anche se esistesse qualche dimensione in cui le divinità rivali si battevano parallelamente ai loro adoratori più terreni. Se era così, sperò che gli dèi di Roma avessero la meglio. I soldati dell’Impero avevano bisogno del loro aiuto ora più che mai.

Attese che Pandaro portasse a termine il suo ordine e lasciasse uno dei suoi sottoposti di guardia vicino al prigioniero poi, facendogli cenno di seguirlo, zoppicò dentro il salone principale e si adagiò su una panca, mentre l’optio rimase davanti a lui.

«Quindi, cos’è successo? Dove hai trovato il nostro burbero ospite?».

Pandaro si prese un attimo per fare mente locale e poi rispose: «Più o meno quindici miglia a ovest, signore. Mi ero lasciato la pattuglia alle spalle per osservare la situazione del territorio e mi sono scontrato con il prigioniero»

«Scontrato?», fece Macrone, accigliato. «Quanto volte?»

«Sai come sono. Bisogna persuaderli prima di convincerli a seguirti docilmente». Il volto del soldato si fece subito serio. «Ma sono tornato in tutta fretta per via di quello che ho visto prima di neutralizzarlo, signore».

«Continua».

«Il nemico è in marcia. L’uomo che ho catturato stava perlustrando la zona per conto di una colonna di guerrieri. Saranno stati settecento o ottocento. Puntavano a nord, signore».

«Nord? Verso Quintato, quindi». Fece una pausa e si massaggiò la barba sul mento. «Non sono comunque abbastanza per rappresentare una vera minaccia».

«Sempre che non ce ne siano altri. Il sentiero che stavano seguendo mi è parso molto battuto, signore. Dubito che fossero gli unici ad averlo percorso di recente».

Macrone soppesò le sue parole e provò un pizzico d’ansia al pensiero di ingenti forze armate che marciavano contro Catone e i suoi commilitoni mentre questi avanzavano a loro volta verso la roccaforte druidica di Mona. Fece un rapido sospiro e disse: «Bene. Dobbiamo scoprire esattamente cosa stanno tramando quei bastardi. Facciamoci quattro chiacchiere con il nostro prigioniero».

«Dubito che dirà molto. Di sicuro non riusciremo a capire niente. A meno che non ci sia qualcuno tra i civili che parli la sua lingua».

«Ho un’idea migliore», fece il centurione, sogghignando. «Conosco l’uomo che fa al caso nostro. Va’ al campo d’addestramento. C’è un tipo nella Coorte Illirica. Alto, capelli biondi e forte come un toro. Lomo. Lo voglio qui, immediatamente. Digli che è appena diventato interrogatore pro tempore».

«Sì signore». Pandaro annuì velocemente e si allontanò di corsa. Macrone si sporse in avanti e appoggiò con attenzione i gomiti alle ginocchia. Era evidente che il nemico stava tramando qualcosa, ma per ora non poteva dire con certezza se questo rappresentasse un pericolo reale per l’esercito romano. Qualche centinaio di indigeni in più non facevano alcuna differenza. E se invece ciò faceva parte di un piano più vasto? Si spremette il cervello per cercare di predire con precisione le intenzioni nemiche, ma non riuscì a decifrare le loro trame e si sorprese a dolersi dell’assenza di Catone.

«Il ragazzo avrebbe sicuramente già trovato una risposta», mormorò tra sé e sé. Poi, con un sibilo di frustrazione, si alzò dalla panca e uscì fuori per dare un’occhiata al prigioniero.

La luce stava morendo e diverse ombre avevano iniziato a riempire il cortile. Uno degli ausiliari aveva appena acceso il primo dei piccoli bracieri che avrebbero fornito un po’ di calore agli uomini di vedetta quella notte. Alla staccionata dei cavalli, l’uomo della tribù montana si era seduto con la schiena appoggiata al palo e le mani legate dietro di sé. Il soldato che Pandaro aveva lasciato di guardia si mise sull’attenti non appena vide il centurione.

«Diomede, giusto?»

«Sì signore».

«Come sta il nostro amico?»

«Oltre ad aver appestato l’aria e a possedere lo stesso brio di una lapide, è stato davvero squisito, signore».

Macrone lo trafisse con un’occhiata d’avvertimento. «È meglio lasciare le battute ai tuoi superiori, soldato. A nessuno piacciono i saputelli, soprattutto nell’esercito».

«Sì signore».

Macrone si fermò davanti al guerriero e si infilò i pollici nella cintura, scrutandolo più da vicino. Oltre alle ferite, sembrava in buona forma. Indossava una tunica, una cotta di maglia, pantaloni da cavalcata e stivali in stile romano, sicuramente depredati alla stessa vittima che gli aveva fornito la maglia protettiva. Il centurione gli prese il mento senza troppe storie e gli fece alzare la testa. L’uomo lo guardò di traverso mentre il romano studiò le cicatrici sulla guancia e sulla fronte.

«A quanto vedo hai preso parte a qualche battaglia. E a giudicare da quello che indossi, non ti sono andate tutte male. Possiamo dire che sei una specie di veterano, allora. Forse hai addirittura combattuto fianco a fianco con Carataco ai suoi tempi».

Sentendo nominare il capo nemico sconfitto, il guerriero si liberò dalla presa del centurione e abbassò il capo.

«Come siamo suscettibili. Puoi provare a fare l’eroe silenzioso, amico mio, ma fidati, non resisterai per sempre, e alla fine mi dirai esattamente quello che voglio sapere». Macrone gli diede un colpetto con lo stivale per rimarcare le sue parole e stava per andarsene, quando l’indigeno sferrò il colpo più forte che poté con entrambi i piedi legati. Le suole dei suoi calzari centrarono con violenza lo stinco del centurione, il quale barcollò all’indietro, dimenando le braccia, prima di cadere pesantemente di sedere, sbattendo l’osso sacro.

«Ah!», fece il prigioniero, sputando e sorridendo con cattiveria. Diomede lo schiaffeggiò brutalmente sulle tempie e si precipitò ad aiutare il suo superiore. Macrone, però, lo rimproverò e rifiutò la sua mano, reprimendo la smorfia di dolore causatogli dalla gamba ferita.

«Molto divertente. Voglio proprio vedere se continuerai a sorridere quando Lomo finirà il lavoro. Nel frattempo, consideralo un anticipo». Senza ulteriore preavviso, serrò i pugni e colpì l’uomo su entrambe le orecchie in rapida successione, facendogli sballottolare la testa da un lato all’altro.

Il prigioniero roteò gli occhi ed emise un lamento profondo prima di piegarsi in avanti e vomitarsi addosso. Una zaffata di fetore raggiunse le narici di Macrone, il quale si ritrasse, massaggiandosi il didietro. L’uomo vomitò una seconda volta, con la testa ciondolante, poi tossì, sputò e appoggiò nuovamente la schiena al palo. Il suo sguardo non tradì alcuna paura, notò il centurione, ma soltanto un atteggiamento di sfida. I due uomini continuarono a guardarsi finché non vennero interrotti dal suono di alcuni passi. La tunica dell’ausiliario era ancora ricoperta di sporcizia e i capelli e la barba grondavano fango: sommato a un fisico robusto e possente, l’effetto era involontariamente minaccioso.

Lomo si mise sull’attenti a pochi passi di distanza e fece un saluto romano. «Mi hai mandato a chiamare, signore».

«Proprio così. Ho un lavoretto che richiede delle abilità piuttosto particolari». Si fece da parte, zoppicante, e accennò al prigioniero. «Il nostro amichetto permaloso ha bisogno di imparare una lezioncina. E già che c’è deve essere anche persuaso a dirci tutto quello che sa dei piani nemici. Voglio sapere dove stava andando la sua colonna e a quale scopo. L’interrogatore dei Corvi Sanguinari non è disponibile al momento, quindi ti sto offrendo la sua posizione visto che mi sembri la persona giusta per incutere un po’ di sano timore nei prigionieri. Mi hanno detto, inoltre, che capisci i dialetti locali».

«È vero, signore. Me li ha insegnati mia madre».

«Allora ho scelto bene. Se riuscirai a farlo cedere, ottenendo le informazioni di cui ho bisogno, il tuo nuovo lavoro ti garantirà l’esonero dalle normali mansioni quotidiane e una paga e mezzo». Aspettò che i termini della sua offerta facessero presa. «Ti può interessare?».

Lomo diede un’occhiata all’uomo legato e chiuse lentamente il pugno destro, massaggiandolo con l’altra mano. Poi annuì. «Farò un tentativo, signore».

«Complimenti. Se sarai bravo anche solo la metà di quello che spero, potresti ritrovarti a fare l’interrogatore in modo permanente. E a essere trasferito in un’unità migliore, forse. Ai Corvi Sanguinari farebbe comodo un uomo come te».

Lomo sollevò un sopracciglio e annuì con gratitudine.

«Ti affido l’interrogatorio, Pandaro. Quando avete finito, vieni a fare rapporto nei miei alloggi».

«Sì signore».

«Fate pure». Macrone fece per andarsene, ma il volto gli si contrasse in una smorfia: una fitta lancinante gli percorse la gamba ferita. Mormorò un’imprecazione e osservò i due soldati mentre issavano il prigioniero in piedi. Lo spogliarono, lasciandolo in pantaloni, prima di legarlo saldamente al palo in modo da non farlo scivolare. Guardando i suoi due nuovi compagni, la sua espressione di sfida scemò, pienamente consapevole di quello che stava per succedergli. Lomo si mise davanti a lui con i pugni chiusi e i muscoli tirati, in attesa del comando.

«Comincia», disse Pandaro.

Il soldato sferrò il primo colpo, un destro potente diretto alla pancia del prigioniero. Proseguì con un gancio e poi, mentre il guerriero cercava di riprendere fiato, si concentrò sui suoi fianchi. Ogni pugno rimbombava contro le costole e privava d’aria i polmoni dell’indigeno.

Macrone annuì soddisfatto e dopo essersi girato lentamente, cercando di non gravare sulla gamba dolorante, proseguì rigidamente verso l’entrata del quartier generale.

Arrivato nei suoi alloggi, si adagiò su una sedia e distese l’arto. Sebbene la ferita stesse guarendo bene e i lembi di carne fossero ancora cuciti insieme, il chirurgo della guarnigione aveva richiesto che il bendaggio non venisse rimosso per proteggere la gamba finché non avessero avuto modo di sbarazzarsi dei punti. Il problema era che la ferita prudeva da matti e Macrone doveva resistere all’urgenza di grattarsi furiosamente. Il calcio che aveva ricevuto dal prigioniero gli aveva causato una dolorosa pulsazione e man mano che questa passava, il prurito aumentava d’intensità.

Si portò una mano sulla ferita e la massaggiò delicatamente, stringendo i denti per il formicolio. Per quanto sapesse di doversi ritenere fortunato, visto che la ferita non lo avrebbe reso inabile definitivamente come aveva visto accadere ad altri soldati, il tempo che ci sarebbe voluto per riprendersi completamente continuava comunque ad agitarlo. E tutto perché un maledetto indigeno aveva scelto di tirare una freccia a casaccio verso di lui, prima di scappare tra le colline. Gli bastò un attimo per ricordarsi che l’idea di inseguire il ragazzo era stata sua. Avrebbe potuto aspettare che se la squagliasse, o avrebbe potuto inviare qualcuno al posto suo, ma una pazienza simile non era nelle sue corde e si ritrovò di nuovo a condannare con violenza il ragazzo indigeno, ricoprendo il giovane nemico con tutte le maledizioni che gli venivano in mente.

Quando il dolore e il fastidio diminuirono, si spostò alla piccola scrivania a un lato della stanza per cominciare a sfoltire le pratiche burocratiche che tutti i giorni gravavano sui comandanti delle guarnigioni di tutto l’Impero. Dopo aver acceso le lampade appese a una piccola mensola, completò la nota quotidiana sul registro del forte, elencando il numero di uomini attivi, quello degli eventuali malati o dei feriti, nonché le persone assenti per altre mansioni. Vista la situazione, non c’era molto da annotare a riguardo. In una guarnigione più tranquilla ci sarebbero state più assenze autorizzate, visto che i soldati dovevano procurarsi cibo, attrezzature e cavalli, oppure venivano mandati a proteggere i gabellieri, mentre i giovani ufficiali avevano l’incarico di risolvere le dispute tra le popolazioni locali. C’era anche chi otteneva un periodo di congedo per tornare alla propria casa, se l’unità era stata creata in loco. Nulla di tutto ciò valeva per la guarnigione del forte, visto che allontanarsi da soli dalle sue palizzate significava andare in cerca di guai. In seguito, Macrone passò a esaminare una a una le richieste avanzate dai magazzini del forte, controllando l’inventario prima di approvarle o rifiutarle.

Quando finalmente finì di compilare tutti quei documenti, fuori era ormai buio. Chiuse gli scuri e chiamò il suo assistente affinché accendesse il fuoco nell’angolo della stanza e gli portasse qualcosa da mangiare. Dal cortile, ogni tanto, provenivano i suoni dell’interrogatorio: i lievi tonfi dei colpi e le grida e i lamenti incessanti del prigioniero, i quali si facevano sempre più flebili man mano che la tortura proseguiva. Il gentile crepitio delle fiamme che consumarono prima le frasche e poi la legna tagliata sovrastò tutti gli altri suoni e Macrone mangiò in pace al suo tavolo. Non appena ebbe finito il suo stufato e il pane raffermo, qualcuno bussò alla porta.

«Avanti!».

L’optio Pandaro irruppe nella stanza e si piantò davanti alla scrivania del suo superiore. «Vorrei fare rapporto, l’interrogatorio è concluso, signore».

Macrone posò il cucchiaio e si pulì le labbra sul dorso della mano. «Allora? Avete cavato qualcosa di utile dal bastardo?»

«Sì signore. Brutte notizie. Se ci ha detto la verità, allora il legato Quintato sta conducendo l’esercito in una trappola».

«Una trappola?»

«Per quanto ne sa il nostro uomo, i Druidi stanno conducendo la colonna nel folto delle montagne per poi arrivare direttamente a Mona. Solo allora si gireranno per opporre resistenza».

Macrone annuì. «È proprio quello che il legato sperava».

«Sì signore. Ma quello che non può sapere è che i Druidi hanno chiamato a raccolta anche i Siluri e gli Ordovici per unirsi ai Deceangli. Stanno marciando per interrompere le comunicazioni di Quintato con il resto della provincia. Vogliono privarlo dei rifornimenti e bloccare la sua ritirata fino a che gli uomini non moriranno di fame, o finché non darà l’ordine di arrendersi».

«Arrendersi?», sbuffò Macrone. «Che stronzate. Non affronterebbe mai un tale disonore per se stesso e per l’esercito».

«E allora dovrà superare quella trappola e lottare per ogni miglio che lo separa da Mediolanum, signore. Il legato sta per scontrarsi con molti più nemici di quanti creda. E loro conoscono il territorio. Se il tempo dovesse peggiorare, rendendo l’avanzata ancora più difficile, allora…».

«Decisamente», concluse il centurione in modo conciso. «Bisogna avvertirlo immediatamente».

«Ma come possiamo fargli arrivare un messaggio, signore? Se il prigioniero dice il vero, il nemico lo ha già isolato».

«Potrà anche essere, optio. Ma dovremo farglielo arrivare comunque. E gli unici uomini che potrebbero riuscire nell’impresa siete tu e gli altri soldati dei Corvi Sanguinari di stanza al forte».

Pandaro lo guardò corrucciato. «Ma c’è solo la mia sezione, signore».

«Non sarete soli. Verrò con voi».

«Tu? Signore, con il dovuto rispetto, non sei nelle condizioni di…».

«Conosco molto bene in che condizioni sono!», ruggì Macrone. «Non avrò problemi finché rimarrò in sella. Partiamo alle prime luci dell’alba. Va’ a preparare i tuoi uomini!».