capitolo sette

«L’avanguardia?», sospirò il decurione Mirone. «Perché ha scelto noi? Non abbiamo combattuto più che a sufficienza negli ultimi mesi?».

Il centurione Crispo inarcò un sopracciglio. «Quando entri nell’esercito, fai quello che ti dicono di fare e basta. Non ci sono perché, soltanto ordini».

Mirone fece per controbattere ma ci ripensò e gonfiò le guance, abbassando le spalle. Catone, che lo stava osservando, capiva bene la sua reazione. L’anno precedente le due coorti erano state inviate in un avamposto nel cuore delle montagne e da quel giorno l’unità non aveva quasi deposto le armi. Il nemico aveva allentato la stretta offensiva solamente per completare il raccolto e immagazzinare le scorte in vista dell’imminente inverno. Ora che avevano ultimato i lavori agricoli, erano pronti a riprendere seriamente la loro guerra contro Roma. Il prefetto era arrivato alla conclusione che Mirone fosse il tipo d’uomo che prevedeva solo i lati pericolosi e insidiosi degli incarichi che gli venivano assegnati ma che, una volta sceso in campo, sapeva far valere il suo addestramento e i suoi istinti, sfruttandoli al meglio. Non c’era da sorprendersi che fosse stato promosso a decurione, ma neanche che non gli avessero dato un’ulteriore promozione. Era troppo franco riguardo alle proprie ansie e quel tipo di sentimento veniva trasmesso con facilità ai suoi sottoposti, minandone la fiducia e il morale.

Per un attimo, mentre i due ufficiali prendevano atto delle implicazioni collegate alla loro posizione di testa tra le file dell’esercito, nella tenda di Catone calò il silenzio. Da parte sua, il comandante dell’avanguardia era sollevato dall’idea di non dover arrancare nelle retrovie sulla scia fangosa di tutti quelli che marciavano davanti a lui. Inoltre, si sarebbe anche risparmiato la fatica di blandire perennemente gli uomini alla guida dei convogli per farli rimanere uniti. Certo, ci sarebbero stati altri sforzi da affrontare. Chiunque si fosse trovato in testa alla colonna sarebbe dovuto restare sempre allerta per evitare eventuali imboscate. Come se ciò non bastasse, erano anche responsabili delle ricognizioni necessarie per individuare il tragitto migliore da far percorrere al resto dell’esercito, seguendo i consigli dei mercanti che Quintato aveva interrogato per ottenere informazioni sulla strada da seguire tra le montagne e arrivare sull’isola di Mona. L’avanguardia doveva perfino determinare quale fosse il terreno migliore per costruire un accampamento temporaneo alla fine della giornata. Non sarebbe stata una passeggiata, ma era di gran lunga più interessante che sgobbare per proteggere il convoglio.

Catone si schiarì la gola. Si sentiva stanco. Era tardi e gli uomini avevano appena terminato il loro pasto principale e si erano andati a coricare nelle tende per la notte. Lo squadrone equestre di Mirone aveva impastoiato i cavalli lì vicino e l’odore di sudore equino e sterco arrivava fin dentro al loro alloggio. L’esercito si sarebbe mosso all’alba ed era di vitale importanza che Crispo e Mirone capissero i ruoli che i loro uomini avrebbero svolto nei giorni a seguire.

«Oltre che fungere da occhi e orecchie per l’esercito, Quintato vuole che diventiamo la punta della sua spada», disse Catone. «Dobbiamo attaccare ogniqualvolta incontriamo un nemico. Il legato vuole che tracciamo una scia di distruzione attraverso le terre dei Deceangli, dritti dritti fino all’isola di Mona».

«Ma è il covo dei Druidi», interruppe Mirone.

Il prefetto soffocò la propria irritazione e annuì. «Ne sono consapevole, decurione. È questo uno dei motivi per cui il legato ha lanciato questa campagna. Se possiamo spezzare lo spirito dei loro uomini e schiacciare il culto druidico, chi rimarrà a unire le tribù contro di noi in futuro? Sapete come sono fatti i Celti. Il loro passatempo preferito è azzuffarsi, cosa che da sempre li rende deboli. Se però avessero una figura autorevole a guidarli, combatterebbero come delle furie. Ora che Carataco è storia passata, gli unici capaci di unire le tribù contro di noi sono i Druidi. Senza di loro, riusciremmo a contenere il nemico e a portare finalmente la pace e l’ordine in questa nuova provincia. Gli dèi sanno bene da quanto tempo ci stiamo provando. Una volta raggiunto il nostro scopo, ci saranno congedi per i veterani e alcuni di noi potranno perfino tornare a casa con un permesso speciale».

Crispo rifletté a voce alta. «Saranno passati dieci anni dall’ultima volta che ho visto la mia famiglia, a Lutezia. Ho una donna e due figlie. Dubito che mi riconoscerebbero».

Catone si spaventò all’idea di stare lontano da casa per così tanto tempo, di non avere la possibilità di vedere il suo bambino diventare ragazzo, di non essere riconosciuto da Lucio e di essere dimenticato da Giulia, la cosa peggiore di tutte. Quel pensiero lo rese ancor più deciso a fare tutto quanto in suo potere per porre fine al conflitto in Britannia. Ogni nemico che falciava lo avrebbe avvicinato di un passo a casa sua e all’abbraccio della moglie e del figlio.

«Ma i Druidi», proseguì Mirone, «li conoscete meglio di me. Sono dei demoni sotto spoglie umane. E usano la magia. Ho sentito dire che sono capaci di evocare i poteri delle loro divinità per colpirci con una tempesta o dei mostri. E adesso Quintato vuole condurci proprio nel regno più sacro che hanno, dove saranno pericolosi come non mai. Ascoltatemi bene, è un errore».

«Magia? Ma vaffanculo», sbuffò Crispo, sdegnato. «Non gli è servita a granché fino a ora. Le spiegazioni sono due: o i loro dèi stanno dormendo sul lavoro o i Druidi sono soltanto delle mammolette pusillanimi indegne anche solo di baciare i piedi di Giove e Marte».

Il decurione non era convinto. «Ho visto cosa sono in grado di fare e so che effetti hanno su chi è disposto a seguirli: li fanno diventare delle bestie forsennate».

Catone ne aveva avuto abbastanza. «Sono uomini. Come noi. E possono essere uccisi altrettanto semplicemente. L’ho fatto io stesso. Vi assicuro che non sono più pericolosi di qualsiasi altro barbaro. Quindi basta parlare di queste cose, chiaro decurione?».

Mirone fece schioccare la lingua e annuì. «Se lo dici tu, signore. Spero tu abbia ragione».

Il prefetto ignorò l’ultimo commento e tornò a concentrarsi su questioni ben più urgenti. «Visto che dovremo guidare la marcia, non potremo portarci dietro i bagagli. I nostri carri viaggeranno con il convoglio principale e non voglio che i miei uomini siano rallentati dai gioghi. Sono riuscito a convincere il tribuno incaricato delle scorte ad assegnarci quattro carri per i nostri equipaggiamenti. Marceremo pronti per il combattimento. Sono sicuro che gli uomini ne saranno contenti». Sorrise e Crispo rispose in modo analogo. I gioghi da marcia rappresentavano il tormento di ogni fante impegnato in una campagna, giacché erano carichi di armi e razioni e, pesando metà degli uomini che li dovevano portare, erano oggetto di durissime maledizioni.

«Basteranno armature, scudi e giavellotti per i legionari», continuò Catone. «E lo stesso vale per i miei soldati a piedi. Mirone, la cavalleria lascerà il foraggio sui carri, insieme al loro equipaggiamento. Avremo bisogno di muoverci con leggerezza e conservare le forze per combattere od organizzare degli inseguimenti intensi, se necessario. Faremo anche dei prigionieri, se riusciremo a prenderli. Dovremo passare al quartiere generale delle informazioni circa la configurazione del territorio davanti a noi e gli uomini che abbiamo deciso di affrontare. Visto che il legato vuole spingersi fino a Mona, avremo bisogno di sapere con chi abbiamo a che fare, a ogni passo».

Il prefetto notò che Mirone fece una smorfia al nome della fortezza druidica e si sentì a disagio sapendo che un uomo simile lo avrebbe affiancato in battaglia. Avrebbe preferito di gran lunga Macrone, una persona a cui poteva affidare la propria vita. Per essere del tutto onesti, Mirone non aveva ancora avuto modo di deluderlo, ma non si era neanche mai permesso di mostrare tutta quella paura nei confronti del nemico. Catone si domandò quanto ciò fosse comune tra le sue file e, invero, nel resto dell’esercito.

«Un’ultima cosa. Saremo affiancati da un ufficiale dell’esercito del quartier generale. Il tribuno Livonio. Mapperà il nostro cammino giorno per giorno»

Crispo si accigliò per un momento e poi annuì. «Livonio. È un sottoufficiale della xx, non è così?»

«Esatto. Lo conosci?»

«Se è lo stesso Livonio che dico io, allora ho sentito dire che è agile in combattimento. Mentre conduceva tra le colline pedemontane una squadra per tagliare la legna, furono assaliti da uno squadrone di Siluri. Sarebbe potuta finire male, ma il tribuno tenne uniti i suoi ragazzi e riuscirono ad aprirsi una via d’uscita. Tornarono all’avamposto più vicino senza aver perso troppi uomini. Se non ho capito male, ragiona in modo logico e pacato. Il fatto che sia diventato un cartografo, però, è un mistero. Le persone come lui dovrebbero comandare le truppe in prima fila».

«Una mappa accurata può diventare una merce molto pregiata, specialmente tra le montagne», ribatté Catone. «Tuttavia, se è affidabile come dici, allora sarà il benvenuto nella colonna. Non gli conviene rallentarci, però. Bene, signori. Vi offrirei la possibilità di perdere dei soldi a dadi, ma domani cominceremo a marciare alle prime luci dell’alba e abbiamo una lunga giornata davanti a noi. A meno che non abbiate qualcos’altro da aggiungere…». Lanciò un’occhiata a Crispo e a Mirone, ma nessuno dei due aprì bocca. «Allora vi auguro una buona notte».

Si alzarono dagli sgabelli e prima di uscire dalla tenda si salutarono. Non appena il lembo di tessuto si richiuse dietro di loro, Catone tirò un lungo sospiro e si stiracchiò le spalle fino a farle scrocchiare. I preparativi erano stati quasi ultimati e i suoi uomini erano pronti ad abbandonare il forte. Aveva dei dubbi riguardo a Mirone, ma era troppo tardi per apportare delle modifiche. Se l’avesse rimandato da Macrone sarebbe stata una dichiarazione di sfiducia nei confronti del decurione, uno di quei colpi all’autostima di una persona niente affatto facili da superare. Era meglio dargli l’opportunità di dimostrare il proprio valore e guadagnarsi quella fiducia che, alla fine, avrebbe potuto permettergli di dominare nervosismo e circospezione innati. Dopotutto, rammentò a se stesso il prefetto, anche lui aveva dovuto affrontare le proprie paure nei primi anni da soldato. Si ricordava fin troppo bene della paura glaciale e penetrante che gli aveva pervaso le viscere il giorno in cui aveva dovuto affrontare per la prima volta i guerrieri germani sulla frontiera del Reno. Veniva ancora assalito dallo stesso timore prima di buttarsi in un combattimento, ma sapeva che non avrebbe mai dovuto rivelarlo agli uomini che lo seguivano, sebbene ciò significasse assumersi più rischi di quanti non fossero propensi a prendersi altri ufficiali del suo stesso grado. Doveva apparire coraggioso e sicuro di sé, a prescindere da ciò che sentiva sotto quella patina indurita.

Il lembo di tenda svolazzò verso l’interno e Trasso varcò la soglia. «Ti serve altro, signore?»

«Come?»

«Prima che io vada a dormire. Ti serve altro?».

Catone pensò all’ultima mansione che aveva continuato a rimandare e annuì. «Del vino caldo e una spazzolata al mio mantello. Quando domani usciremo dall’accampamento, voglio che non ci siano tracce di fango».

Trasso sibilò a denti stretti, ma abbastanza rumorosamente da farsi sentire.

«Qualche problema?»

«È solo un po’ di fango, signore. E tornerà così come è ora a meno di un miglio dal forte».

«Senti, non ti ho chiesto di ripulirlo fibra per fibra, passarlo nell’urina, sciacquarlo con acqua di fonte e tenderlo al sole prima di follarlo. Togli quella maledetta fanghiglia e appendilo accanto alla mia armatura».

«Come desideri, signore». Trasso attraversò la tenda e prese il mantello ripiegato su uno sgabello. Con la lana rossa sotto braccio, se ne andò mormorando minacciosamente sull’inutilità di quel compito.

Quando uscì, Catone rovistò nella sua cassa dei documenti finché non ne estrasse un foglio di pergamena, una boccetta di inchiostro e uno stilo. Stese la pergamena sul tavolo, stappò la boccetta di liquido nero e vi immerse il pennino, premurandosi di scuotere via le gocce in eccesso prima di appoggiarlo sulla carta. Cominciò a scrivere con grafia ordinata: «Alla mia alata moglie Giulia, madre del mio adorato figlio Lucio, saluti». Imprecò e cancellò “alata” con un paio di tratti rapidi, riscrivendoci sopra “amata”. Era stanco e dovette concentrarsi. Quella lettera andava scritta con attenzione, era troppo importante. Fece un lungo respiro e ricominciò a stilarla. Disse a sua moglie che era venuto a sapere della nascita del figlio da un altro ufficiale; non aveva dubbi che Giulia gli avesse inviato una missiva per narrare lo stesso evento, ma per il momento non era ancora arrivata. Visto che l’esercito stava per mettersi in marcia, aveva pensato di cogliere quell’occasione per esprimerle la propria gioia per essere diventato padre e il proprio orgoglio e amore nei confronti della moglie, che aveva messo al mondo un figlio sano.

La prima parte della lettera fu facile da scrivere e persino piacevole. Adesso, però, avrebbe dovuto calibrare maggiormente le parole, visto che le sue missive sarebbero state sicuramente esaminate dagli agenti di Pallante, o di Narciso, o di entrambi, prima di arrivare nelle mani di Giulia. Immerse nuovamente lo stilo e continuò, scrivendo che sperava che la moglie stesse bene e che facesse in modo di non intrattenere troppi ospiti in casa loro per evitare conseguenze negative per la sua salute; che contava sull’aiuto del padre, il buon senatore, per occuparsi delle questioni economiche della figlia, permettendole così di concentrarsi sulle cure e sull’educazione di Lucio. Si fermò e rilesse ciò che aveva scritto tra sé e sé, immaginandosi la moglie intenta a fare lo stesso, comprendendo così l’avvertimento nascosto che stava cercando di comunicarle. Non sapendo chi avrebbe intercettato la sua lettere, era indispensabile che non facesse nomi o che non suggerisse in alcun modo a chi aveva giurato fedeltà. Ciononostante, Giulia doveva sapere di essere osservata. Di sicuro la sua perspicacia l’aveva già messa in guardia e comunque era a conoscenza dei suoi affari precedenti con Narciso. Quello che non sapeva, però, era che un uomo di Pallante aveva avanzato delle proposte a suo marito, corredandole di minacce alla sua famiglia. Come fare a comunicarle tutto ciò? La mente affaticata di Catone era tormentata da quegli interrogativi e per un momento ripose il suo stilo e si rilassò sulla sedia.

«Cazzo…».

Poco dopo Trasso entrò nella tenda e gli mise una tazza fumante sotto al naso. «L’ho dovuta rimediare dallo schiavo del centurione Crispo. Adesso gli devo un favore. Se mi avessi dato qualche moneta, avrei potuto prenderlo da uno dei commercianti nel vicus, ma…».

«Grazie. Questo è tutto. Vai a dormire».

«Dormire? Devo ancora occuparmi del mantello».

«Non l’hai ancora fatto?».

Il servo gli lanciò un’occhiataccia. «Sarà fatto quanto prima, signore».

«Allora va’, non voglio intralciarti».

Trasso mormorò qualcosa in tracio e uscì. Catone tornò a guardare la lettera e si grattò la mandibola con grande irritazione.

Continuò a fatica, illuminato dalla debole luce della lampada finché l’olio non cominciò a esaurirsi, facendo rimpicciolire la fiamma a poco a poco. Concluse con una breve riconferma del suo amore e poi firmò in calce e la rilesse. Era a stento adeguata per raggiungere gli scopi che si era prefissato: dichiarare il proprio desiderio bruciante per la moglie e avvertirla di tenersi alla larga dalle correnti e controcorrenti politiche nella capitale. Ciononostante, piegò la pergamena con cura e prese la ceralacca. La fece colare sulla piega e premette il suo anello da eques nella cera sempre più dura, lasciandovi la figura di un soldato a cavallo intento a scagliare un fulmine. Giulia l’aveva aiutato a scegliere il simbolo quando era finalmente stato ammesso dall’imperatore nel suo rango attuale, entrando così a far parte della classe equestre della società romana. Accarezzò lievemente il sigillo e depose la lettera sulla scrivania, in modo che il giorno dopo Trasso avrebbe potuto portarla al quartier generale con l’indicazione, per quelli che rimanevano a Viroconium, di inviarla a Roma non appena ne avessero avuto l’occasione. Sapeva bene che in quel periodo dell’anno ci sarebbero voluti anche quattro mesi e offrì una breve preghiera a Minerva affinché Giulia nel frattempo fosse abbastanza assennata da tenersi alla larga dagli intrighi politici.

Affondando nel suo letto da campo con uno scheletro in legno, Catone tremò nella fredda aria notturna. Si tirò con piacere fino al mento la coperta di vello di pecora che Trasso gli aveva preparato e rimase a osservare, supino, il tetto oscuro di quella tenda in pelle di capra. Una leggera pioggia cominciò a picchiettare sopra di lui. L’ultimo pensiero che gli balenò prima di addormentarsi fu l’espressione del proprio servo quando avrebbe visto l’inevitabile fanghiglia prodotta da quella notte bagnata.

Si ridestò un attimo prima che Trasso aprisse il lembo della tenda, come se possedesse il senso innato di riprendere conoscenza nel momento adeguato. Fuori era ancora buio e la pioggia aveva cominciato a farsi più fitta, raffreddando l’aria umida. Catone sbadigliò.

«Il tuo mantello», fece Trasso, posando l’indumento di lana sul tavolo. «Pulito, anche se sarebbe stato uguale se lo avessi trascinato nel fango, visto il tempo. Vuoi mangiare, signore?»

«Non c’è tempo. Mi porterai qualcosa durante la marcia». Il prefetto si alzò con indosso la tunica e stese le braccia, permettendo al servo di stringergli l’imbottitura delle spalle prima di aiutarlo a entrare nella sua cotta di maglia. Trasso annodò tutti i legacci che ricoprivano il lato della maglia su cui si portava lo scudo e poi cinse Catone con un cinturone che dovette far passare sopra la testa e su una spalla del prefetto, perfettamente immobile. Poi venne il turno degli stivali e del mantello, che assicurò alle spalle con un fermaglio.

«Come sto?»

«Come Giulio Cesare in persona, signore», rispose con voce fiacca Trasso.

«Mi basta non fare la sua fine».

«Come?»

«Lascia perdere. Raccogli il mio equipaggiamento e fai mettere il mio carro nel convoglio principale. Ci vediamo al prossimo accampamento, quando la giornata volgerà al termine».

Trasso annuì. «Sì, signore».

Catone scostò il lembo di pelle e osservò le file dei Corvi Sanguinari e dei legionari della Quarta Coorte. Gli uomini erano già in piedi e, nelle prime luci del giorno, erano a stento visibili. La pioggia cadeva con un leggero sibilo dal cielo coperto, senza accennare a smettere. I sottoposti del prefetto stavano smontando le tende e le portavano nei carri vuoti. Catone si guardò dietro le spalle con la coda dell’occhio.

«Vorrò vestiti caldi e asciutti e un fuoco».

«Sissignore. C’è dell’altro?»

«Un volto sorridente è chiedere troppo?».

Trasso lo fissò tetramente.

«E sia». Il prefetto emerse dalla tenda e si avvicinò al proprio cavallo. Uno dei Traci reggeva le redini e le porse al comandante prima di aiutarlo a salire. Dalla sua posizione elevata, Catone osservò la vasta estensione della fortezza di Mediolanum e degli accampamenti limitrofi che si erano concentrati tutt’intorno in occasione della campagna. Migliaia di uomini stavano lavorando duramente per levare le tende nelle tenebre e prendere posizione nelle colonne, incalzati dalle urla dei propri centurioni e optiones. L’avanguardia era schierata subito fuori dalle porte e non appena Catone si unì ai suoi uomini Crispo gridò di mettersi sull’attenti. Il prefetto esaminò le file dei legionari prima di rivolgersi al centurione a voce alta, affinché tutti sentissero.

«I tuoi soldati sembrano affamati di gloria, Crispo».

«Sì, signore! Come segugi irrequieti al guinzaglio. Quelli della Quarta Coorte sono fatti così».

«E allora che gli dèi possano avere pietà dei nostri nemici, perché i tuoi uomini sicuramente non ne avranno!».

Crispo sorrise a trentadue denti ed estrasse la spada, agitandola in aria e urlando il nome della sua legione: «Gemina! Gemina!».

Gli uomini lo seguirono subito, gridando a pieni polmoni, e anche gli altri soldati dell’esercito si fermarono un attimo per osservarli prima di continuare a levare le tende.

Catone sorrise ai legionari, felice di dare soddisfazione ai loro animi desiderosi di combattere. Rivolse loro un saluto e cavalcò verso la testa della colonna, dove lo attendevano i Corvi Sanguinari già in sella. Due centurie di fanteria ausiliaria erano state mandate a proteggere il convoglio dell’avanguardia. A comandarli c’era un ufficiale dal mantello militare rosso affiancato da un servo scuro di carnagione su un cavallo carico di bisacce.

«Tu devi essere il tribuno Livonio», disse il prefetto avvicinandosi al trotto. «Sei qui per disegnare la mappa del percorso dell’esercito tra le colline e le montagne, corretto?».

L’ufficiale annuì. «Prefetto Catone?»

«Esattamente».

«Piacere di conoscerti, signore», sorrise Livonio. «Ho sentito molto parlare delle imprese tue e dei Corvi Sanguinari da quando mi sono unito alle truppe del legato. È per me un onore servire con te».

«Un onore?». Catone scosse la testa, sospettoso di quella lode così facile. «Io e i miei uomini ci limitiamo a fare il nostro dovere e a portare a termine gli ordini. Né più né meno di un qualsiasi altro soldato di Roma».

Livonio strinse le labbra, cercando di contenere un’espressione divertita. «Come dici tu, signore».

«Proprio così. E adesso levati quel sorriso beota dalla faccia».

«Sì, signore». Il tribuno abbassò un po’ la cresta.

«E questo chi sarebbe?», chiese il prefetto, indicando l’uomo accanto a Livonio.

«Ieropate, signore. Il mio segretario personale e il disegnatore di mappe. È lui il vero cervello della nostra accoppiata».

«Ah sì?». Catone lo squadrò più lentamente. Ieropate veniva ovviamente dalla parte orientale dell’Impero e non aveva affatto l’aria di uno che si stava divertendo a essere dall’altro lato del dominio imperiale. I suoi ricci neri erano striati di grigio e contornavano un volto rugoso in cui brillavano due occhi scuri. Il suo mantello risultava ingombrante per via di tutti gli strati che indossava al di sotto ed era come se la testa gli rientrasse nelle pieghe del tessuto intorno al collo, facendolo sembrare un uccello che si nascondeva nel proprio nido. «Hai qualche esperienza nella cartografia tra montagne del genere?». Il prefetto indicò la linea grigia delle cime che si allungavano fino a occidente.

Ieropate annuì con grazia. «Ebbene sì, signore. Io e il mio padrone Livonio, su comando del prefetto di Siria, abbiamo disegnato le mappe dalla frontiera occidentale dalla Cappadocia alla Nubia».

«Quindi sei un servo, giusto?»

«Sì, signore».

«E un maestro maledettamente bravo», intervenne Livonio. «Il vecchio Ieropate mi ha insegnato tutto quello che so sulla cartografia. Ha fatto da maestro al tribuno Plinio prima di me, ed è grazie ai suoi consigli che mio padre ha comprato Ieropate».

Catone provò un brivido di compassione per quell’uomo. Era evidente che aveva ricevuto una buona educazione e che si aspettava, forse, di essere liberato dopo aver prestato molti anni di onorato servizio per i suoi padroni. Così come stavano le cose, invece, veniva passato di famiglia aristocratica in famiglia aristocratica per educare i rampolli delle varie dinastie. E adesso si trovava in Britannia, lontano dalle calde comodità orientali dell’Impero. Il prefetto sorrise appena a Livonio. «Allora sono contento che tu sia stato assegnato alla mia colonna. Spero che voi e le vostre mappe possiate tornare utili all’esercito».

«Così accadrà, signore», rispose Livonio. «Delle buone mappe sono utili all’esercito tanto quanto i rifornimenti regolari, la forza d’animo e le benedizioni di Fortuna. Io e Ieropate tracceremo ogni minimo passo del percorso che intraprenderemo per portare la guerra al nemico. Misureremo le distanze e raffigureremo i punti di riferimento maggiormente evidenti, per poter fare luce sulla valle più scura di queste lande barbare e montuose».

«Fate quello che volete, basta che non rallentiate in nessun modo la mia colonna. Non possiamo permetterci di fermarci e aspettarvi mentre finite i vostri disegnini e prendete le misure un piede dopo l’altro. Dovrete stare al passo, altrimenti vi lascerò indietro. Sono stato chiaro?».

A quanto pare il tribuno capì la lezione e annuì. «Sì, signore».

«Molto bene. Galopperete con il quarto squadrone dei Corvi Sanguinari. Il decurione avrà il comando e voi potrete considerarvi come dei soprannumerari».

Livonio stava evidentemente contenendo a fatica il proprio fastidio per essere stato posto al di sotto di un uomo di rango decisamente inferiore al proprio e Catone si ammorbidì un po’.

«Da quanto tempo sei qui in Britannia, tribuno?»

«Quasi tre mesi, signore».

«Tre mesi…». Il prefetto sospirò: l’ufficiale non poteva di certo avere una conoscenza profonda della situazione nella provincia. Per quanto ritenesse utile che i ragazzi come lui facessero un’esperienza militare all’inizio delle loro carriere, Catone sapeva che sarebbero rimasti poco tra le file dell’esercito. La maggior parte veniva mandata a rimpinguare le legioni di stanza in una guarnigione e non dovevano far altro che adeguarsi alla routine giornaliera di una vita di quel tipo. Livonio, però, aveva pescato la pagliuzza corta e si era ritrovato con un incarico in cui avrebbe dovuto imparare tutto molto rapidamente, se voleva rimanere in vita. Ciononostante, se fosse sopravvissuto, l’esperienza lo avrebbe sicuramente reso uomo, e poi Crispo aveva garantito per lui. Catone si sforzò di sorridere in maniera incoraggiante. «Molto bene, avrai una storia da raccontare alla tua famiglia quando tornerai a Roma. Osserva ogni cosa, Livonio, e ascolta tutti i consigli che ti daranno i veterani. È il modo migliore per apprendere il mestiere del soldato».

«Sì signore… Grazie».

Il prefetto voltò la sua cavalcatura e fece scorrere lo sguardo sul resto della colonna. Provò un’ondata di orgoglio nel vedere quegli uomini che avrebbe presto condotto verso i loro avversari, l’avanguardia di tutto l’esercito che si sarebbe lanciata contro i guerrieri nemici e i loro alleati, i Druidi. Aveva combattuto e versato sangue al loro fianco e sapeva che condividevano lo stesso piacere per la reputazione combattiva che entrambe le unità si erano guadagnate da quando ne aveva preso il comando. Era un peccato che Macrone non fosse lì per godersi il momento con lui, rifletté brevemente.

Sollevò un braccio e fece un bel respiro. «Corvi Sanguinari! Quarta Coorte! Prepararsi ad avanzare!».

I legionari e la fanteria ausiliaria si piegarono per raccogliere i loro scudi mentre i cavalieri serrarono i cavalli in due colonne e rinsaldarono la presa sulle redini. Catone aspettò che anche l’ultimo uomo fosse pronto prima di dare le spalle all’accampamento e abbassare il braccio per indicare il sentiero che portava verso le colline e, oltre, le montagne. Le nubi leggere le facevano sembrare più lontane di quanto non fossero e già poteva vedere un insieme di nuvole più scure che avanzavano da nord, minacciando pioggia.

«Colonna… avanzare!».