capitolo dodici
«Ehi, optio!», gridò uno degli uomini. «Visto che stanno distribuendo promozioni ai soldati semplici, che ne dici di mettere una buona parola per me? Non ne posso più di guardare il culo del tuo cavallo in prima fila».
Gli altri uomini della pattuglia risero di gusto e Pandaro si rigirò sulla sella per guardare chi avesse parlato lungo lo stretto sentiero.
«Diomede, se mai ti dovessero promuovere, gli altri soldati farebbero molta fatica a capire quale sei tu e qual è il didietro del tuo cavallo. L’esercito non può permettersi tutta questa confusione».
Gli uomini risero di nuovo, questa volta a spese del compagno che, dopo un attimo, rise con loro, ansioso di dare l’impressione di uno che sapeva anche prenderle, oltre che darle.
L’optio Pandaro era stato promosso da ormai un mese eppure veniva ancora canzonato dai suoi sottoposti, un gioco estremamente spossante, pensò, muovendo rapido le redini. Stava guidando la pattuglia lungo il sentiero nella foresta che portava su una cresta piuttosto prominente. Negli ultimi giorni il cielo era stato per lo più sereno, ma il cambiamento del tempo era stato accompagnato da un violento calo delle temperature e la brina mattutina si era fatta molto più spessa. Era ormai mezzogiorno eppure il sole era ancora basso ed emanava poco calore.
Le nuvole e la nebbia si erano diradate e Pandaro sperava di poter ottenere dalla cima del declivio una visione più chiara dei territori circostanti. Sarebbe stato bello avere qualcosa da riferire al centurione una volta tornati al forte a fine giornata, invece del solito gruppetto di pastorelli in fuga e dei villaggi abbandonati che li accoglievano lungo le loro perlustrazioni. Ogni tanto avevano visto donne e bambini che sparivano nella foresta, ma degli uomini neanche una traccia. Questo preoccupava molto Pandaro e il comandante della guarnigione, visto che poteva voler dire soltanto due cose: o gli uomini erano andati a combattere da qualche altra parte, forse contro delle tribù locali, o, peggio ancora, si stavano radunando per attaccare gli avamposti romani più vicini.
Eppure, rifletté, fino a quel momento non c’erano ancora stati problemi e nessuno era arrivato a sfidare la guarnigione del forte. Tanto meglio, vista la condizione pietosa in cui versavano gli ausiliari illiri inviati per sostituire i Corvi Sanguinari e la coorte della xiv Legione. Sebbene avessero affrontato un addestramento durissimo negli ultimi giorni, non sarebbero stati in grado di opporre alcuna resistenza a un attacco nemico serio. Pandaro si domandò se fosse normale inviare formazioni di riserva del genere a presidiare i forti di confine privati di uomini forti e capaci per rimpinguare i ranghi dell’esercito che stava avanzando tra le montagne. Se era davvero così, allora la prima linea di difesa della nuova provincia sarebbe stata davvero fragile.
Sebbene fosse di un rango inferiore, Pandaro comprendeva molto bene la preoccupazione perenne che affliggeva tutti i comandanti romani sin dall’inizio dell’invasione in Britannia e cioè che al fine di conquistare nuovi territori o di fronteggiare una minaccia era necessario concentrare tutte le forze disponibili in un punto solo, ma per mantenere il controllo su quelle stesse terre, occorreva sparpagliare i soldati. In entrambi i casi, l’iniziativa passava sempre al nemico, che poteva disturbare le difese di frontiera e ritrarsi sulle montagne al primo segnale di un contingente romano più potente, per poi riemergere nuovamente e continuare con le proprie scorribande non appena fosse passato il pericolo. Quello era il tipo di conflitto in cui i Deceangli e i loro alleati eccellevano, determinando lunghi anni di attriti e di frontiere che avanzavano e retrocedevano continuamente. L’unica debolezza delle tribù risiedeva nel desiderio passeggero dei loro capi di saziare la propria sete di gloria e incontrare i Romani in campo aperto. Era stata quella la rovina di Carataco e col tempo sarebbe stata anche la fine dei suoi successori. O perlomeno così sperava il comando supremo romano, rifletté Pandaro.
«Dovremmo tornare indietro», disse Diomede, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. «Se andiamo avanti, torneremo quando non c’è più luce».
«Hai paura del buio?», sfotté uno dei cavalieri. «Forse ti sei unito alla coorte sbagliata, Diomede. A sentirti sembreresti più un illirio che un Corvo Sanguinario».
Pandaro si guardò alle spalle e vide che Diomede stava avanzando verso il compagno per poi fermarglisi accanto con un’espressione furiosa.
«Puoi andare a farti fottere, tu e le tue idee, amico. Chiamami ancora come uno di quei bastardi buoni a nulla e ti stacco quella cazzo di testa».
L’uomo alzò una mano e si ritrasse. «Stai tranquillo! Ho detto solo che sembri uno di loro».
«Adesso basta!», sbraitò Pandaro. «Diomede, muoviti. Torneremo al forte quando lo deciderò io. Non un minuto prima. Adesso chiudete bene la bocca e aprite occhi e orecchie. Siamo in territorio nemico ed è meglio vedere che essere visti».
Tra i soldati piombò il silenzio e la pattuglia proseguì lungo il tracciato. Stavano passando attraverso una cintura di pini sotto le cui fronde si muovevano ombre oscure da entrambi i lati e Pandaro percepì un lieve brivido alla base della nuca. Capiva bene le chiacchiere nervose dei suoi uomini e il loro bisogno di sfogare la faticosa tensione che si accumulava ogni qual volta dovevano pattugliare le terre nemiche. L’asprezza del conflitto tra Roma e le tribù montane toglieva qualsiasi illusione circa il destino degli sventurati romani che fossero stati presi prigionieri. I Celti avevano una passione: decorare le proprie capanne con le teste dei loro nemici.
Gli zoccoli dei cavalli percorrevano lentamente il letto di aghi di pino che ricopriva il suolo. L’unico altro suono che si percepiva era il lieve fruscio della brezza che spirava tra le cime degli alberi più vicini alla cresta e il gracchiare dei corvi che volteggiavano come fiocchi di fuliggine sulla sommità rocciosa della montagna. Di lì a poco il sentiero si allargò e proseguì lontano dagli alberi. La cima del declivio era a meno di un quarto di miglio di distanza. Uscire all’aria aperta fu un sollievo per Pandaro e decise che avrebbero controllato rapidamente la vallata dall’altro lato prima di tornare indietro tra le mura sicure del forte. Quando arrivarono in prossimità della dorsale, rallentò l’andatura e fece fermare i soldati. Sollevò la gamba oltre il pomo e toccò terra, dando una lieve pacca sul fianco dell’animale per tranquillizzarlo.
«Smontare», ordinò, allungando le sue redini a Diomede. «Fa’ il bravo e stai in silenzio mentre non ci sono, va bene? Lo stesso vale per gli altri».
Diomede chinò il capo per fingere rispetto. «Come l’optio comanda».
«Esatto, soldato. Non te lo dimenticare».
Pandaro valutò se prendere o meno lo scudo e la lancia, ma poi decise altrimenti. Il suo compito era quello di osservare, non di prendere parte a una battaglia. Diede un colpetto alla spada che portava al fianco, un suo abituale gesto di scaramanzia, e percorse a grandi passi il breve sentiero fino alla cima. Il vento soffiava con più veemenza sul crinale con rocce e ciuffi d’erba e Pandaro tremò, incassando il collo nelle pieghe del suo mantello. Era cresciuto tra le montagne della Tracia ed era abituato al clima pungente che l’inverno si portava dietro in certi ambienti. Solo le bestie più resistenti si avventuravano all’aperto mentre gli uomini si ammassavano nelle loro tende fumanti per proteggersi dai rigori della neve, del ghiaccio e del vento. Le cose non sarebbero state diverse in Britannia. L’optio e il resto della guarnigione avrebbero trascorso gran parte dell’inverno nelle loro baracche se non erano di guardia o di turno. Pregò brevemente gli dèi a nome del resto della coorte affinché Quintato sconfiggesse i Deceangli e i Druidi il più in fretta possibile e potessero fare ritorno alle palizzate di Viroconium prima dell’inizio delle nevicate.
Respirava a fatica quando raggiunse la cima e il vapore del suo fiato usciva in piccole strisce, mentre lui osservava la valle adiacente a quella assegnatagli. La collina ricoperta di alberi scendeva ripida fino a una pianura poco distante. I suoi occhi furono subito attirati da un’ampia distesa di terre coltivate. Nel mezzo c’era un discreto fossato e una palizzata che cingeva diverse capanne piuttosto grandi e piccoli recinti per il bestiame. Sottili fili di fumo si elevavano dalle abitazioni, ma non c’erano segni di movimento: solo una donna che spaccava la legna. Pandaro decise ugualmente di percorrere un breve tratto in discesa per non rimanere in piedi sul profilo dell’altura nel caso in cui qualcuno avesse guardato nella sua direzione. Trovò un ammasso di rocce nude e vi ci si nascose per proteggersi dal vento e continuare la sua perlustrazione. In lontananza avvistò un piccolo gruppo, bambini a quanto pareva, carichi di ulteriore materiale per alimentare i fuochi del villaggio. Degli uomini, però, non c’era traccia.
Si portò le mani davanti al volto e ci alitò sopra prima di sfregarle insieme con vigore. C’era poco da riferire. L’insediamento non costituiva una minaccia e avrebbe anzi fruttato qualche schiavo se il centurione Macrone fosse stato persuaso ad autorizzare un’incursione. In veste di comandante in carica della guarnigione, Macrone si sarebbe beccato la parte più grossa del valore dei prigionieri e l’optio avrebbe rimediato una bella sommetta da aggiungere ai suoi risparmi. Quanto bastava per mettere da parte il giusto per il suo funerale, così da avere una lapide degna, invece della solita cosetta semplice e scolpita alla bell’e meglio che la maggior parte dei soldati si poteva permettere quando giungeva il momento di lasciare un segno delle proprie vite.
Pandaro osservò abbastanza da concludere che il villaggio era difeso solamente da donne e bambini e che pertanto rappresentava un bersaglio facile. Stava per uscire da dietro le rocce e tornare dai suoi uomini quando notò un movimento ai bordi della foresta più giù lungo la valle. Un cavaliere solitario emerse nella radura con mantello, armatura e reti per le provviste appese alla sella. Sulle spalle portava uno scudo e brandiva una lancia nella mano destra. Non c’era dubbio che fosse uno dei loro guerrieri. Pochi istanti dopo, un altro cavaliere emerse dagli alberi, poi un altro e un altro ancora, formando una colonna che usciva dalla foresta come la testa di un grosso serpente. In un primo momento Pandaro pensò che fosse un gruppo di uomini di ritorno al villaggio dopo una battuta di caccia, ma questi continuavano ad aumentare, diventando svariate centinaia. Non era un manipolo di soldati, e il brivido alla base del collo aumentò.
Quando gli ultimi soldati a cavallo uscirono dalla foresta, fu il turno della fanteria, avvolta in pellicce e carica di scudi, lance, spade e asce. Alcuni indossavano armature, elmi e gambali depredati alle pattuglie romane alle quali avevano teso un agguato prima di trucidarle. Pandaro continuò a osservare la colonna nemica mentre questa si allargava sulla pianura. Quella che gli si parava davanti era senza dubbio una forza non indifferente e stava marciando a nord verso la linea d’attacco presa dal legato Quintato. Colse subito l’importanza di quella marcia a settentrione e sentì il bisogno di tornare al forte per fare rapporto senza ulteriore indugio.
Un secondo prima di alzarsi in piedi, sentì la sbuffata di un cavallo poco lontano e rimase immobile. Portò subito la mano sulla spada e respirò rapidamente, scrutando con attenzione i dintorni del masso che lo stava riparando dal vento. Si stava avvicinando un cavaliere, un guerriero barbuto avvolto in pellicce. Il suo cavallo era una di quelle bestie piccole e robuste che le tribù delle montagne preferivano e nitriva mentre il suo padrone lo incitava lungo la salita. Pandaro tornò a nascondersi, furioso con se stesso per non essere tornato prima dalla sua pattuglia. Doveva immaginare che anche il nemico avrebbe usato degli esploratori, soprattutto se volevano avvicinarsi di soppiatto all’esercito romano.
Valutò se fosse meglio provare a lasciarlo passare oltre per poi tornare dai suoi uomini, ma poi si rese conto che, se il cavaliere avesse scelto di percorrere la cresta, avrebbe sicuramente individuato gli ausiliari in attesa e avrebbe dato subito l’allarme. Vista la loro migliore conoscenza del territorio e i cavalli più adatti a quel terreno, il nemico avrebbe avuto una buona possibilità di raggiungere la pattuglia in fuga. Non aveva altra scelta. Doveva sbarazzarsi dell’esploratore. E sarebbe stato meglio prenderlo vivo, se possibile, per ottenere qualche informazione sulle loro intenzioni.
L’optio mollò la presa sull’elsa della spada e cercò il paranocche di ferro che aveva comprato quando era di stanza a Londinium per avere un po’ di vantaggio nelle risse tra ubriachi che scoppiavano spesso e volentieri tra gli uomini non in servizio delle unità rivali. Infilò le dita nei buchi e strinse il pugno. Il cavaliere stava per superare le rocce e il tonfo sordo degli zoccoli riempì le orecchie di Pandaro. Percepì il sudore del cavallo e l’odore ancor più aspro del guerriero. Il muso, la testa e il fianco dell’animale incombevano su di lui. Si preparò, pronto a scattare. Gli stivali sfregarono sul terreno pietroso e l’animale fremette mentre il cavaliere buttò un occhio al suo fianco e spalancò la bocca, sorpreso.
Il romano scattò da dietro il suo nascondiglio e si scagliò sull’uomo, afferrandolo da un braccio e tirandolo giù dalla sella. Il guerriero ebbe giusto il tempo di emettere un debole grido prima che l’optio gli facesse affondare il paranocche sulla tempia. Il colpo arrivò di sghembo e squarciò un po’ dello scalpo nemico. Finirono entrambi a terra, ruzzolando giù dal pendio, e il cavallo scalciò e barcollò via. Pandaro cercò in tutti i modi di non mollare la presa sul braccio armato dell’uomo, buttando l’altra mano a terra per riprendere l’equilibrio e piantare meglio gli stivali al suolo. Il deceanglo si riprese rapidamente dall’attacco inaspettato e cominciò a divincolarsi con la mano e il piede liberi, colpendo il corpo del suo assalitore. Il sangue gli sgorgava senza freno dallo squarcio nello scalpo e nella foga andava a finire sul volto del romano.
Il guerriero sollevò il braccio non bloccato e afferrò la gola di Pandaro. L’optio provò un dolore lancinante al collo e abbassò il mento per impedire all’uomo di strozzarlo. Caricando il colpo, chiamò a raccolta tutti i suoi muscoli e conficcò il paranocche nella pancia del suo nemico, mozzandogli il fiato. Un alito caldo investì il suo volto. Per un istante la presa sulla sua gola si fece lasca e lui si tirò indietro, aprendo uno spazio tra i loro corpi. Colpì una seconda volta, direttamente in faccia, e l’arma gli tagliò il naso, spezzandogli l’osso al di sotto. Il guerriero spalancò gli occhi per la rabbia e il dolore e ringhiò selvaggiamente, scoprendo i denti ingialliti mentre il sangue gli colava dalle narici. Pandaro sollevò di nuovo il pugno e caricò l’ultimo affondo, diretto alla tempia. Fece centro e la testa dell’avversario scattò di lato tra spasmi di arti, finché l’uomo non rimase completamente immobile crollando sui ciuffetti d’erba del crinale.
Il romano si accovacciò accanto a lui con la mano in cielo, ma quando vide che il suo nemico era svenuto si rimise in piedi e respirò con affanno. Appena ebbe ripreso fiato si sfilò il paranocche insanguinato dalla mano tremante e lo ripose nella sua borsa. Il cavallo del deceanglo era poco distante e lo stava guardando con sospetto, muovendo le orecchie con nervosismo.
«Stai tranquillo, bello», disse a bassa voce, avvicinandosi piano all’animale. Prese le redini e gli accarezzò la guancia finché non si calmò abbastanza per essere riportato dal suo padrone ormai sconfitto. Qui, strappò dei pezzi della sua tunica e gli legò mani e piedi prima di imbavagliarlo e issarlo sulla sella. Quando ritenne che non sarebbe caduto, diede un’ultima occhiata alle truppe degli indigeni che serpeggiavano sul fondo della valle e fece una rapida stima delle loro forze. Poi, si girò verso la vetta del crinale e si avviò dai suoi uomini, che lo aspettavano dall’altro lato.