capitolo ventinove

L’espressione tetra di Catone rivelò subito le notizie appena arrivate dal quartier generale.

«Quanti ne vuole?», chiese Macrone.

«Dieci da ogni coorte».

«Oltre a quelli che già si sono offerti volontari? Siamo già a quindici e Portillo è uno di loro. Era un bravo ufficiale, ora si farà ammazzare».

Catone simpatizzò con il suo amico, ma non c’era modo di sfuggire agli ordini di Quintato. «Ha detto altri dieci. Spetta a me scegliere se selezionarli uno a uno o estrarre a sorte i nomi».

Il centurione inclinò il capo per leggere meglio l’espressione del prefetto sotto la fiamma tremolante della lampada a olio. «E cos’hai deciso? Ci sono un bel po’ di perdigiorno e mele marce tra cui scegliere. Potremmo raggiungere la nostra quota senza troppi sforzi e salveremmo gli uomini migliori».

Catone aveva ripetuto mentalmente il suo ragionamento, mentre raggiungeva la tenda di Macrone. Era vero che la scelta più logica sarebbe stata selezionare uomini la cui morte non avrebbe comportato una perdita gravosa per le loro coorti, ma l’onere morale di fare dei nomi era troppo pesante per il prefetto, per quanto fosse adirato con se stesso a causa di quello che considerava mero sentimentalismo. Gli ufficiali dovevano fare delle scelte difficili, altrimenti non avevano alcun diritto a ricoprire quel ruolo. Vi era però qualcosa di intrinsecamente immorale nello scegliere chi far morire e chi no. Avrebbe solamente provocato dei risentimenti tra i commilitoni dei soldati selezionati, compromettendo l’energia e l’entusiasmo che contraddistinguevano gli uomini della retroguardia. Era meglio lasciare alla sorte il compito di determinare chi sarebbe rimasto all’accampamento.

Non sarebbe stato altrettanto facile per i feriti, ospitati nelle tende più vicine al quartier generale. Ognuno di loro aveva ricevuto uno stiletto e i chirurghi li avevano istruiti a uno a uno su come infliggersi una ferita mortale nel modo più rapido e indolore possibile. La maggior parte si era detta pronta a togliersi la vita, ma Catone sapeva che alcuni non ne avrebbero avuto il coraggio e che quelle povere anime sventurate avrebbero dovuto sopportare gli infiniti tormenti che i Druidi gli avrebbero inflitto.

«Li estrarrò a sorte», annunciò. «Questo vale solo per i Corvi Sanguinari. Lascerò a te la scelta di come gestire la tua coorte».

Macrone inclinò leggermente la testa. «A dire il vero dovrebbe essere una tua decisione, signore».

«E perché?»

«Fa parte dei doveri di un ufficiale»

«Lo so», concordò Catone stancamente. «Ed è per questo motivo che chiedo a te di decidere. Sono i tuoi uomini, Macrone. È una tua responsabilità. A prescindere da quello che deciderai di fare, il legato Valente vuole che lo raggiungiamo al quartier generale il prima possibile».

«Mi sembra giusto. Me la vedrò io. Estrarrò a sorte».

«Bene. Quando hai finito, voglio che la retroguardia sia in posizione e pronta a marciare. Il legato ha dato l’ordine di lasciare all’accampamento metà delle tende per far sembrare che l’esercito sia ancora qui. Ciò significa che gli uomini dovranno dormire più stretti, ma per lo meno dimezzeremo il peso dei bagagli. E avremo anche più muli da mangiare».

Macrone fece una risata beffarda. «C’è sempre un lato positivo».

Catone sorrise. «Ci vediamo a lavoro finito».

Si salutarono e il prefetto camminò a grandi passi verso la sua coorte. Gli uomini sapevano già cosa stava per accadere e si erano disposti in squadroni, mentre il decurione Mirone infilava in una sacchetta delle monete prese dalla cassa della coorte. Quando ebbe contato quelle di bronzo, ne aggiunse altre dieci d’argento, più o meno delle stesse dimensioni, e diede un bello scossone al contenitore. Catone li raggiunse e si girò per parlare ai suoi uomini.

«Non abbiamo tempo da sprecare in discorsi, ragazzi. Questa è la procedura: ogni squadrone si farà avanti a turno e gli uomini pescheranno una moneta ciascuno. Cominciamo con Arpagio e i suoi. Gli ultimi saranno il decurione Mirone e il suo squadrone. Io sarò il primo».

Detto questo, si voltò verso Mirone e quest’ultimo gli porse la sacchetta. Il prefetto vi infilò la mano, smosse le monete in superficie con la punta delle dita e poi ne prese una, tirandola fuori e tenendola in alto di modo che tutti potessero vederla.

«Bronzo! Arpagio, tocca a te».

Catone si fece da parte e lasciò che il decurione portasse i suoi davanti alla borsa. Ognuno estrasse una moneta e la tenne in alto mentre venivano annunciati i risultati. Dovettero aspettare quasi fino all’ultimo soldato prima che fosse estratto il primo argento. Lo sfortunato tracio rimase di sasso per un momento ma poi accettò il suo destino, dicendo addio ai suoi commilitoni e mettendosi da un lato in attesa degli altri. Le altre cinque coorti seguirono il proprio turno e vennero estratte altre monete d’argento, finché non ne rimase solo una e lo squadrone di Mirone si fece avanti. Ogni soldato prese una moneta dalle poche rimaste e la sollevò in aria.

«Bronzo… bronzo… bronzo…».

Man mano che proseguivano, Catone notò l’espressione sempre più nervosa sul volto del decurione, illuminato dalla luna. Gli ultimi due rimasti furono Mirone e Trasso. L’ufficiale esitò un attimo e poi porse la sacchetta al vessillifero.

«Prima tu».

Trasso strinse le labbra e tirò fuori una delle due monete rimaste senza esitare. Non riuscì a trattenere un’espressione di sollievo quando la sollevò.

«Bronzo!».

Mirone lo guardò con orrore e sotto gli occhi di tutti infilò una mano nel contenitore, tremando come se l’ultima moneta fosse un serpente velenoso. «Argento…».

La rimise nella sacchetta e la fece cadere a terra, cercando disperatamente lo sguardo di Catone, il quale si sforzò di rimanere impassibile. Il prefetto si rivolse agli uomini che avevano pescato le monete d’argento. «È andata così, ragazzi. Ma non dimenticate che avete combattuto con i Corvi Sanguinari. Rendete onore alla coorte e sarete ricordati per sempre. Respingete quei bastardi finché potete e uccidetene quanti più possibile». Strinse la mano a tutti i soldati e in ultimo anche a Mirone. «Addio, decurione. È stato un onore servire con te».

Mirone aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a proferire parola. Deglutì e provò di nuovo, con un tono basso e supplicante. «Signore, hai bisogno di me. Chi comanderà lo squadrone?»

«Mi prenderò io stesso cura di loro».

«Ma hanno bisogno di me, signore. Sono abituati al mio comando. Siamo compagni. Se mi perderai, non combatteranno così bene come facevano prima».

«Sono certo che si batteranno al meglio delle loro forze per farti onore, decurione. Così come farò io».

Mirone si avvicinò e abbassò ancora di più la sua voce. «Signore, non voglio rimanere qui. Non voglio rimanere qui a morire. Ti prego non mi costringere a farlo. Di’ a Valente che ci manca un uomo… Ti prego, signore. Ti prego».

Catone cercò di liberare la mano ma il decurione la stringeva con disperazione. Quella manifestazione di debolezza e mancanza di nervi saldi gli diede il voltastomaco, spingendolo a rispondere con rabbia. «Datti un tono. Immediatamente. Le probabilità di rimanere erano le stesse per tutti, ma Fortuna ha scelto te. Accettalo e porta questi uomini al quartiere generale. Va’…».

La stretta del decurione si fece più lenta e Catone ritrasse rapidamente la sua mano. «Esegui l’ordine, decurione Mirone. Fa’ il tuo dovere».

L’uomo esitò e si guardò intorno con la mandibola tremante. Il silenzio era tremendo, ma poi Trasso fece un passo avanti. «Chiedo il permesso di scambiare posto con il decurione Mirone, signore!».

«Cosa?». Catone era allibito. «Cos’hai detto?»

«Farò a cambio con Mirone, signore. Come ha detto il decurione stesso, la coorte ha bisogno di lui. Permettimi di dare una bella batosta a quei bastardi dei Druidi. Non mi dispiacerebbe dar loro una lezioncina o due».

Il prefetto stava per negare la richiesta del soldato, ma poi vide il bagliore di disperazione negli occhi del decurione e si rese conto che per farlo combattere avrebbero dovuto trascinarlo davanti al nemico mentre scalciava e piangeva. Sarebbe stato traumatizzante per chi fosse rimasto con lui e avrebbe dato un pessimo esempio. Mandò giù a fatica la propria riluttanza e si rivolse a Trasso. «Sei sicuro?»

«Lo sono, signore. È un’occasione per uccidere quei Celti di merda prima di morire di fame. Ne varrà la pena».

«Se è ciò che desideri, Trasso».

«Sì, signore, lo è».

Catone annuì, pieno di ammirazione per quell’uomo. «Molto bene, ma c’è un’ultima cosa da fare prima che le nostre strade si dividano». Indicò Mirone con ferocia. «Da’ a Trasso il tuo elmo e le tue medaglie. Ora, a meno che tu non voglia rimanere a combattere al suo fianco».

Non dovette ripetersi due volte. Il decurione si tolse in tutta fretta le insegne più evidenti del suo rango e le porse al vessillifero. Trasso fece per dargli lo stendardo, ma Catone lo intercettò. «Me ne occuperò io. Mirone, da questo momento sei degradato al rango di custode dei muli, sebbene sia più di quanto meriti. Sparisci dalla mia vista».

L’ex decurione indietreggiò come se l’avessero preso a schiaffi in pieno volto, poi si ritirò in modo impacciato e sparì nella notte. Catone tornò a osservare Trasso.

«Per quel che vale, ti promuovo al grado di decurione. Sarai al comando del contingente di Corvi Sanguinari che rimarrà al forte. Sono certo che tu e gli altri uomini terrete alto il nome della coorte. È stato un onore e un privilegio servire con te. Sarai stato anche un servo dannatamente capriccioso, ma sei un ottimo soldato».

Trasso sorrise sotto la luna. «E tu sei un ottimo ufficiale, signore, servirti è stata una grandissima rottura di coglioni».

Si fissarono per un momento e poi Trasso guardò gli uomini che sarebbero rimasti a lottare e a morire con lui. «Contingente dei Corvi Sanguinari! Sull’attenti!».

Il gruppetto di soldati si irrigidì di colpo, come se si trovassero a una parata. Il Tracio marciò davanti a loro, prese posizione e fece una pausa prima di dare istruzioni. «Al mio ordine, marcia veloce! Uno!».

Mentre si dirigevano verso il centro dell’accampamento, uno dei presenti sollevò un braccio a mo’ di saluto e gridò: «Trasso! Trasso!». Il resto della coorte si unì immediatamente al coro e Catone fece lo stesso, urlando a pieni polmoni finché i dieci uomini non sparirono dietro un angolo.

Quando le urla si affievolirono, il prefetto guardò i suoi con orgoglio e un certo affetto. Dell’unità che aveva conosciuto non appena aveva fatto ritorno in Britannia rimanevano solo una manciata di soldati.

«Non c’è molto da dire», esordì in tono pacato. «Facciamo in modo che il loro sacrificio non sia vano. Torneremo nella provincia, riposeremo durante l’inverno, e poi saremo di nuovo qui in primavera per vendicare Trasso e per dare a quei bastardi dei Druidi una bella lezione. Non c’è altro. Mettetevi in riga e preparatevi a marciare».

Il tribuno Livonio e il suo servo avevano evidenziato il percorso per la gola con dei giavellotti a cui erano stati legati dei sottili pezzi di tessuto scuro. Avevano sfruttato la conformazione del territorio per assicurarsi che Quintato e ciò che rimaneva della sua colonna non fossero osservati da occhi indiscreti. Il sentiero partiva dall’angolo più basso dell’accampamento, che si volgeva alle montagne e seguiva una valle più o meno pianeggiante accanto alla quale scorreva un fiume. Poi, costeggiava una fila di alberi che nascondeva l’accesso della gola. Il legato attese che le nubi oscurassero la luna prima di dare l’ordine di avanzare. La retroguardia si spostò da un lato mentre gli altri soldati uscivano di soppiatto dall’accampamento e marciavano in fila indiana seguendo i giavellotti. Se il nemico si fosse imbattuto nelle loro tracce il giorno seguente, avrebbe pensato che si trattasse del passaggio di un piccolo contingente piuttosto che l’enorme scia di un intero esercito. Gli uomini, ombre scure contro il profilo monotono del paesaggio innevato, si muovevano in silenzio, sorvegliati dagli ufficiali perché nessuno fiatasse o facesse troppo rumore. Ai cavalli e ai muli era stata messa la museruola e venivano condotti nella neve dai cavalieri e dagli addetti agli animali, i quali tenevano una mano rassicurante sui loro fianchi.

Quando anche l’ultimo uomo della colonna uscì dall’accampamento, Catone diede un’ultima occhiata alle sentinelle sulla palizzata e agli altri uomini che si erano riuniti per osservare in silenzio la partenza dei propri compagni. Macrone percepì la sua inquietudine.

«Nonostante quello che ho detto prima, avevi ragione tu. Abbiamo fatto il possibile in una situazione terribile».

«Lo so. Vorrei soltanto non dover sprecare così tanti uomini capaci. Si meritano di meglio».

«Perlomeno moriranno come hanno vissuto: combattendo con la spada in mano. Risparmia la tua pietà per quelli che moriranno di freddo, o a causa delle ferite, o di una malattia o di un incidente. Sono molti i modi in cui un soldato può morire, signore. Questo è uno dei migliori. Fidati».

Catone sapeva che l’amico aveva ragione, ma le sue parole non rendevano più semplice l’addio. Fece un bel respiro e diede l’ordine a voce alta, cercando di non farsi sentire dal nemico. «Retroguardia… avanzare».

I legionari di Macrone fecero strada, abbandonando l’accampamento in fila indiana, seguiti da Catone in testa ai Corvi Sanguinari. Ogni cavaliere avanzava a piedi e guidava il proprio cavallo lungo lo stretto sentiero scavato dagli uomini e dalle bestie che li avevano preceduti. Finalmente anche l’ultimo tracio uscì dall’accampamento e la porta si richiuse dietro di loro, isolando i difensori e dando loro un paio d’ore di riposo prima dell’alba e dell’incombere del proprio destino. Gli ultimi cominciarono a raccogliere i giavellotti che evidenziavano il percorso man mano che li raggiungevano. La neve cominciò a cadere a spruzzi, quanto bastava per arrivare sul sentiero dei Romani, ma non abbastanza per nasconderlo.

L’aria della notte era freddissima e a Catone si congelava la gola ogni volta che respirava. A parte il leggero scricchiolare dei passi di quanti lo precedevano e lo seguivano, la notte era silenziosa e immobile e Fortuna continuò a favorirli con una luna coperta. Tuttavia, quando i Corvi Sanguinari raggiunsero gli alberi e cominciarono ad aggirare i tronchi per infilarsi nello stretto spazio tra il declivio roccioso e la rupe che divideva le due montagne, il corpo celeste fece capolino da una nube e ne tinse d’argento i delicati contorni. Quel chiarore improvviso fu allarmante e Catone si sentì dapprima terribilmente allo scoperto, ma poi si rese conto che nessun osservatore sarebbe mai riuscito a distinguere la coorte dalle cortecce alle loro spalle. Proseguirono, muovendosi rapidi sulla neve schiacciata e compressa che forniva loro un appoggio stabile.

Man mano che gli alberi si diradavano, lasciando il posto a un terreno brullo costellato di piccoli massi, Catone vide che i legionari di Macrone stavano sparendo nella scarpata. Avvicinandosi, scovò un’apertura abbastanza larga da permettere a cinque uomini di entrare fianco a fianco. Da entrambi i lati le rocce ricoperte di muschio e neve si innalzavano verso il cielo, inghiottendolo, e l’aria era umida e stantia. Il passaggio di lì a poco si restrinse e il terreno si fece irregolare. Livonio aveva ragione, pensò il prefetto. Un veicolo non avrebbe mai potuto percorrere quella strada. Alzando lo sguardo al cielo, notò una sfumatura luminosa. Si girò e vide che la luce stava cominciando a entrare dall’imboccatura della gola. L’alba era alle porte.

Spostò il cavallo da un lato e lasciò passare avanti la sua coorte, un uomo dopo l’altro. Nelle retrovie dell’unità c’era una piccola fila di muli che trasportava il poco foraggio racimolato dall’accampamento. Mirone guidava gli animali senza osare sollevare lo sguardo e incrociare quello del prefetto.

Catone rimase a guardare ancora un po’ mentre il cielo si faceva sempre più luminoso e una patina rosata andava via via addensandosi all’orizzonte. Fu allora che risuonò debolmente la nota lontana di un corno da guerra celtico. Al segnale ne seguirono altri e un ruggito sempre più forte si levò nell’aria, come il frangersi delle onde su una spiaggia distante. Apparentemente la pazienza dei nemici aveva raggiunto il limite e non avrebbero aspettato che gli invasori si arrendessero per inedia. I Druidi e i loro guerrieri volevano il sangue e l’onore di raccontare ai propri nipoti il ruolo che avevano avuto nella distruzione dell’esercito romano.

Catone tirò le redini della sua cavalcatura e galoppò rapido per raggiungere la coda della colonna.

«Largo!», ordinò bruscamente a Mirone, e l’ex decurione si affrettò a spostare i muli dal sentiero mentre il prefetto gli sfrecciava accanto. Non appena raggiunse l’ultimo squadrone, gridò: «Riferite al legato: il nemico sta attaccando l’accampamento…».