capitolo quattordici
Il vento sferzava pungente e Catone dovette strizzare gli occhi durante la ripida scalata fino alla cima della montagna. I Corvi Sanguinari avevano proseguito a cavallo per quanto avevano potuto e poi il prefetto aveva dato l’ordine di smontare, portandosi dietro uno squadrone. Gli uomini si erano messi gli scudi in spalla e usavano le lance come bastoni per l’ascesa. Era già abbastanza freddo sul passo dove avevano lasciato gli altri, ma man mano che salivano, il vento infuriava tutt’intorno a loro e forti folate ruggivano nelle loro orecchie, tutto questo mentre le gocce di pioggia pungevano la pelle nuda come aghi arroventati.
«Dannazione», ansimò Trasso, poco dietro il suo comandante. «Solo gli dèi sanno perché l’imperatore vuole annettere questa terra desolata al suo Impero. Sarebbe meglio lasciarla ai barbari. Non è un luogo per uomini civili».
Catone abbassò il suo fazzoletto per rispondere. «Sai come si dice, Trasso. Siamo qui perché siamo qui».
Il tracio sospirò. «Vorrei tanto non esserci, signore».
Il prefetto rimise lo spesso tessuto sulla bocca e sul naso e si fermò un attimo per riprendere fiato prima di proseguire. Il suo mantello militare tagliava l’aria intorno a lui e sentiva l’elmo muoversi sulla testa ogni qual volta il vento si scontrava con il cimiero. Lo sistemò e si preparò ad avanzare un passo alla volta. Stando alle parole del mercante che aveva offerto i suoi servigi al legato Quintato, la capitale dei Deceangli distava meno di cinque miglia da lì e sarebbe stata chiaramente visibile dalla cima della montagna. Osservando in alto, però, Catone ebbe forti dubbi al riguardo. Il cielo era plumbeo e banchi di nuvole più scure lo solcavano rapide, minacciando ulteriore pioggia da aggiungersi alle raffiche glaciali. Tuttavia, in quanto comandante dell’avanguardia era suo compito esplorare i territori davanti alla colonna principale e cogliere ogni occasione per riferire la loro conformazione, nonché qualsiasi avvistamento nemico.
Di questi ultimi ce n’erano stati ben pochi dopo l’ultimo incidente alla gola rocciosa, diversi giorni prima. Oltre a piccoli gruppi di cavalieri che tenevano d’occhio l’avanzata romana, i Deceangli e i loro capi Druidi si erano rifiutati di scendere in campo o di tentare altre azioni dilatorie. Ciononostante, vi furono comunque svariati segnali per ricordarsi della loro presenza: sentieri bloccati da alberi abbattuti, massi smossi da rupi e scarpate in corrispondenza di una delle due strozzature, rapporti di incursioni moleste alle linee di comunicazione dell’esercito debolmente protette. Se avesse avuto più uomini a sua disposizione, Quintato avrebbe potuto stabilire una linea di forti ben guarniti per proteggere la via dei rifornimenti fino a Mediolanum. Così come stavano le cose, però, il numero degli avamposti o delle pattuglie a cavallo era a dir poco esiguo, nonché esposto ad attacchi improvvisi. Questi ultimi rappresentavano più una seccatura che una vera e propria minaccia e Catone non poté fare a meno di chiedersi perché il nemico non si sforzasse maggiormente per colpire il punto sempre debole di un esercito in marcia.
Un grido improvviso interruppe i suoi pensieri e dovette fermarsi per guardare indietro. Uno dei suoi uomini era caduto ed era rimasto sdraiato bocconi accanto a una grossa roccia che aveva interrotto la sua discesa. Due commilitoni si erano già affrettati a raggiungerlo, quando Catone si girò verso Trasso e disse: «Continua a farli avanzare. Vi raggiungo a breve».
Trasso proseguì la scalata mentre il prefetto si faceva strada verso l’uomo caduto. Scambiò un breve cenno con Livonio mentre questi, seguito dal suo segretario, si inerpicava dietro agli ausiliari.
«Cos’è successo?», chiese avvicinandosi, con il fiatone.
Uno dei Corvi Sanguinari si voltò e rispose: «È Bormino, signore. Non ha una bella cera».
«Fatemi vedere».
Fecero spazio per il prefetto e Catone si accovacciò accanto al soldato. Era già stato messo faccia in su e gli occhi tremavano senza posa mentre la bocca si apriva e chiudeva in cerca di ossigeno. Il resto del corpo era inerte. Le dita fredde del comandante cercarono i nodi sotto al mento dell’ausiliario e sciolsero i lacci di pelle, togliendogli l’elmo il più delicatamente possibile. La testa di Bormino ciondolò all’indietro e le labbra tremarono febbrilmente, come se stesse cercando di respirare, nonostante non uscisse alcuna traccia di vapore dalla sua bocca.
«Che cos’ha?», domandò nervosamente uno dei suoi commilitoni.
Gli occhi del soldato rotearono e la mascella ebbe un ultimo guizzo, prima di allentarsi. Catone esitò e poi si piegò in avanti, accostando l’orecchio alle sue labbra. Non riuscì a sentire nessun suono oltre al vento che soffiava sul piccolo manipolo di uomini, né alcun calore. Si raddrizzò e cercò di sentire il battito dal collo, ma non ebbe fortuna.
«È andato».
«Andato? Ma come, signore? È inciampato ed è caduto. Non può essere morto».
«Di sicuro questa carogna non sta fingendo per evitarsi i lavori pesanti», si intromise l’altro ausiliario.
Catone osservò la roccia e notò che un lato sporgeva come la lama di una grande ascia. Girò il corpo sul fianco e lo esaminò. Al di sopra del fazzoletto vide un livido bluastro sulla pelle. Fece schioccare la lingua e dichiarò: «Collo rotto. Deve aver sbattuto contro quella roccia. Non avremmo potuto fare niente per salvarlo. Niente».
Per un momento i tre uomini rimasero fermi, in balia del vento, e poi il primo parlò di nuovo. «Povero stronzo… Che fine triste. Bormino era un brav’uomo. Uno dei migliori».
Un’altra pausa, poi il suo compagno aggiunse: «Sarà anche vero, ma scoreggiava nel sonno e barava a dadi, per non parlare della sua tresca con una donna sposata».
Catone lo guardò e gonfiò le guance. «Non mi sembra un bell’elogio».
L’uomo fece spallucce. «È la verità, signore».
«E sia». Il prefetto si alzò, dando le spalle al vento insistente, e ordinò: «Riportatelo al suo cavallo e rimanete con il resto della colonna».
«Sì signore», risposero in coro, prima che uno dei due mormorasse: «Grandioso, grazie, Bormino».
Catone li lasciò alla loro mansione e si mosse per seguire il resto dello squadrone, aumentando il passo per raggiungere la testa della linea serpeggiante. Trasso aveva quasi raggiunto la cima e si era piegato, cercando di contrastare il maltempo. La pioggia aveva preso vigore rispetto alla leggera spruzzatina che li aveva afflitti sin della scalata e adesso sferzava la fila inzaccherata di uomini che ansimava sotto il peso delle armature, degli scudi e delle lance. L’unica cosa che forniva loro una parvenza di calore era lo sforzo dell’ascesa e il prefetto sentiva il torpore nelle dita ogni qual volta cercava un appiglio sulle rocce scivolose.
Finalmente, nonostante gli arti tremanti per il freddo e la fatica, raggiunse la cima della montagna, incurvandosi sotto al vento gelido che ululava sulla vetta. Appoggiò le mani sulle ginocchia e fece dei grandi respiri mentre gli altri uomini lo raggiungevano e si mettevano con le spalle al vento, riparandosi come potevano dalla pioggia scrosciante grazie ai loro scudi. Un soldato incespicò e le sue gambe cedettero. Cercò di rialzarsi, ma barcollò a destra e a sinistra.
Trasso scosse la testa e commentò: «Quel bastardo è ubriaco!».
«In nome dell’Ade, cosa sta succedendo?», gridò Catone infuriato, avvicinandosi all’ausiliario. Stava per dargli una bella strigliata quando si rese conto che era il freddo tremendo, e non l’alcol, ad aver ottenebrato la mente e il corpo del soldato. Lo fermò e lo scosse finché non gli tornò un barlume di vita negli occhi. «Concentrati! Continua a muovere il corpo. Sbatti i piedi e sfregati le mani. Mi hai capito?».
L’ausiliario annuì passivamente.
«Non ti ho sentito!», urlò Catone. «Mi hai capito, soldato?»
«Sì… Sì signore».
«E allora esegui gli ordini».
L’uomo cominciò a marciare sul posto appoggiandosi la lancia alla spalla per sfregarsi le mani.
«Non ti fermare», aggiunse il prefetto, rivolgendosi poi al resto dei suoi sottoposti. «Fatelo anche voi! A meno che non vogliate morire congelati».
Se ne andò e si fece strada con attenzione attraverso l’altopiano di rocce sconnesse e ciuffi d’erba. Arrivato sull’orlo, poté vedere ciò che si estendeva sotto il declivio, ma un grumo di nebbia e pioggia gli impediva di osservare più in là di un centinaio di piedi. Imprecò a denti stretti. In quelle condizioni non c’era modo di verificare le informazioni del mercante. Avrebbe potuto aspettare che la burrasca cessasse, ma i suoi uomini avevano sofferto abbastanza e non aveva alcuna intenzione di perderne un altro a causa di un momento di distrazione sul fianco di una montagna.
Trasso si fece avanti per unirsi a lui, sbattendo i denti mentre parlava. «Signore, con il dovuto rispetto, tra poco moriremo quassù. Alcuni dei ragazzi sono messi male».
«Lo so bene. Ma rimaniamo ancora un po’». Il prefetto alzò gli occhi al cielo e credette di aver visto un cumulo di nuvole più chiare tra quelle che coprivano le montagne. «Guarda là. Il peggio passerà presto».
Trasso strizzò gli occhi e cercò di individuare l’area indicatagli dal superiore. «Io non vedo niente».
«Torna dagli altri. Falli muovere. Li aiuterà a rimanere caldi».
«Caldi?», rispose sorpreso il tracio. «Lo credi davvero, signore?»
«Basta così. Va’ dagli altri e di’ al tribuno Livonio e al suo servo di raggiungermi. Sbrigati».
Mentre Trasso arrancava, borbottando, Catone rivolse l’attenzione al terreno ai piedi della montagna. C’era di sicuro più luce in cielo, si disse, e infatti cominciò a notare delle forme nella nebbia: le cime appuntite dei pini e alcuni affioramenti rocciosi. Il vento e la pioggia avevano iniziato a scemare e la volta celeste si stava rischiarando. Ogni secondo che passava, il prefetto riusciva a distinguere sempre più dettagli finché, finalmente, in lontananza, al di là di un fiume serpeggiante, vide il vago profilo di una fortificazione che cingeva centinaia di capanne. Un gruppo di lucine tremolanti indicava la presenza di fuochi, ma era tutto troppo lontano per poter individuare un qualsiasi segno di vita.
A giudicare dalla dimensione dell’insediamento indigeno, le informazioni del mercante erano accurate e se fosse stato davvero così, allora il legato Quintato avrebbe potuto sconfiggere i Deceangli e distruggerne la capitale. Una volta riuscito nel suo intento, non rimaneva altro da fare che raggiungere la costa, unirsi alle forze navali e piombare sulla fortezza dei Druidi, annientandoli una volta per tutte. Private della loro influenza, le tribù della Britannia sarebbero andate alla deriva e non sarebbero riuscite ad organizzare una resistenza compatta all’Impero. In quello scenario, la nuova provincia avrebbe potuto conoscere la pace. Non solo si sarebbe concluso il conflitto con Roma, ma sarebbero cessate anche le faide tra tribù che avevano afflitto l’isola da molto prima che i Romani vi mettessero piede.
Il rumore di passi distolse Catone dai suoi pensieri e questi si girò giusto in tempo per vedere avvicinarsi Livonio e Ieropate. Tremavano entrambi, ma il prefetto ignorò il loro disagio. Se lui e i suoi uomini dovevano fare i conti con il freddo e la pioggia, lo stesso destino spettava al giovane aristocratico. Gli avrebbe fatto bene soffrire un po’, rifletté, prima di concentrarsi nuovamente sulla situazione contingente.
«Quaggiù», disse, indicando l’accampamento. «Prendete nota sulla cera, lo ricopierete poi dopo».
Mentre il tribuno supervisionava la stesura della mappa che avrebbe riportato nel miglior modo possibile il territorio intorno all’insediamento, condizioni atmosferiche e cielo velato permettendo, il prefetto fece una rapida stima del numero delle capanne e cercò di impararne la disposizione. Non appena Ieropate chiuse le sue tavolette cerate, i tre uomini si riunirono con gli altri soldati, che nel frattempo si erano stretti gli uni agli altri e tremavano. Catone percepì il loro rancore per aver dovuto scalare la montagna, ma trattandosi del cuore del territorio nemico, solo un folle si sarebbe allontanato dalla colonna principale senza una scorta. Indicò la china e disse: «Andiamocene da qui».
«Sei sicuro che sia la capitale nemica?», chiese Quintato. «E che sia abitata?»
«Ho visto dei fuochi, signore. Il tribuno Livonio sta aggiornando la mappa in questo momento. Siamo riusciti ad avere una visione accettabile delle aree intorno all’insediamento prima che la luce cominciasse a calare», rispose Catone stando davanti al legato ed avvolto nel proprio mantello fradicio. La pesante pelle della tenda del quartier generale si gonfiava e si ritirava sotto la forza del vento che soffiava sull’accampamento provvisorio, mentre la pioggia tamburellava senza sosta sopra le loro teste, penetrando tra le cuciture. Uno schiavo stava issando un altro palo sopra al letto da campo del legato per eliminare una pozza d’acqua che si stava formando su un lembo allentato. Il prefetto si schiarì la voce e proseguì. «E corrisponde alla descrizione fatta dalla tua fonte».
«Bene. Allora finalmente sono proprio dove volevamo. Sempre che siano pronti a difendere le loro case. Sono stanco di inseguire delle ombre. Speriamo che abbiano trovato un po’ di determinazione e che questo non sia un altro dei loro squallidi stratagemmi. Non mi sorprenderebbe vederli darsela a gambe levate quando capiranno che siamo vicini», fece Quintato, soffermandosi a pensare per un momento. «Anche se non gliene darò l’occasione…».
Il legato si rivolse allo schiavo: «Trovami Petronio Deano e mandalo da me. Voglio anche il prefetto del campo».
L’uomo chinò il capo e si precipitò fuori dalla tenda.
«Catone, mentre aspettiamo siediti e dammi ulteriori dettagli sulla posizione nemica».
Prima di accomodarsi, il prefetto aprì il fermaglio del mantello e lasciò cadere l’indumento inzuppato al suolo. L’armatura e la tunica versavano nella stessa condizione e la cotta di pelle su cui erano state cucite le maglie sembrava doppiamente pesante. Cercò di ignorare il disagio e fece mente locale prima di cominciare.
«L’insediamento si trova accanto al fiume, su un terreno leggermente rialzato, signore. La terra intorno alle fortificazioni è stata sistemata fino a un certo punto per le coltivazioni. Ci sono un paio di capanne e recinti, ma niente di più. A mezzo miglio di distanza o poco meno comincia una folta foresta. Su entrambi i lati della valle si ergono delle colline, anch’esse molto boscose, come il passo che dovremmo prendere per accedervi… Questo è quello che riesco a ricordare, signore».
Quintato annuì. «Hai fatto un ottimo lavoro, prefetto». Lo guardò come se avesse appena notato il suo aspetto completamente fradicio, e disse: «Scommetto che sei affamato e infreddolito».
«Sì signore».
Il lembo divisorio si scostò e lo schiavo fece il suo ingresso nella tenda, annunciando: «Petronio Deano, padrone. Un funzionario è andato in cerca di Tito Silano».
Non appena ebbe finito di parlare, un uomo magro e brizzolato entrò nel quartier generale. Indossava una tunica ocra decorata con il motivo a quadri tipico delle tribù celtiche del Nord, dei gambali marroni e dei sandali. Aveva i capelli lunghi, ma li teneva raccolti all’indietro con un laccio di pelle che gli attraversava la fronte. I suoi occhi astuti soppesarono rapidamente Catone prima di inchinarsi davanti al legato.
«Signore, ai tuoi ordini. Come può Petronio, fornitore dei lussi più raffinati di tutto l’Impero, servirti questa sera?».
Quintato lo guardò con un’espressione diffidente. «I lussi più raffinati che si possono trovare ai confini di questa provincia arretrata, vorrai dire».
«Oggi servo i miei clienti in Britannia, ma in futuro i miei articoli adorneranno le case più eleganti di Roma, se Giove lo vorrà, sia lode a lui».
«Di sicuro non manchi di ambizione. Ma adesso basta. Questo è il prefetto Catone, comandante dell’avanguardia di questo esercito. Ha controllato le informazioni che mi avevi fornito. A quanto pare la capitale dei Deceangli è proprio dove avevi detto tu».
Petronio simulò uno sguardo offeso. «Dubitavi di me, signore? Un patto è un patto. Sia che io venda beni o informazioni, non mi rimangio mai la parola data».
Il legato capì rapidamente dove voleva andare a parare il mercante. «Farò in modo che tu venga pagato, come pattuito».
Petronio fece un inchino. «Ti ringrazio, signore. È stato un piacere fare affari con te».
«I nostri affari non sono terminati».
Il mercante lo guardò bruscamente. «Come?»
«I nostri affari non saranno terminati finché la campagna non sarà completata. Grazie a te, adesso so dov’è il nemico. Ora ho bisogno di altri dettagli. Numeri, condizioni e così via».
«E come dovrei ottenere queste informazioni, signore?».
Quintato fece un debole sorriso. «Tu che ne pensi? Hai familiarità con gli indigeni di queste montagne. Fai affari con loro. Oserei anche dire che alcuni di loro sono tuoi amici».
«Signore, se le cose stessero così, perché sarei qui, al servizio di Roma?»
«Perché Roma paga meglio. E in questo momento Roma ha bisogno che tu entri nell’insediamento dei Deceangli e scopra quello che ci serve sapere del nemico».
Petronio scosse il capo. «Purtroppo, signore, il nostro patto è concluso e io ho affari da sbrigare altrove nella provincia. Se vorrai darmi quanto mi spetta, toglierò il disturbo».
«Non finché non avrai fatto quello che ti ho chiesto. Sarai pagato, integralmente, non appena avremo sconfitto il nemico. Solo allora potrai smettere di servirmi. Ci siamo capiti?».
La mandibola del mercante si afflosciò, ma poi deglutì e si erse quanto più poté davanti al legato. «Avevamo un patto. Mi avevi promesso dell’argento se ti avessi detto dove trovare il nemico. Ci siamo stretti la mano. Mi era parso di aver capito che i senatori romani sono uomini che onorano la propria parola, signore».
Catone vide il sangue che abbandonava il volto del suo superiore. Quintato fece un passo avanti e fulminò l’uomo con uno sguardo. «Osi mettere in dubbio il mio onore? Tu, un uomo che fa affari con i nemici di Roma? Un uomo che venderebbe i suoi clienti per una manciata di denari? Sono sicuro che se quei miserabili barbari fossero riusciti a racimolare abbastanza monete, in questo momento ti troveresti nel loro insediamento e gli staresti raccontando tutto quello che sai del mio esercito. Non fingere nemmeno di fare il moralista, verme schifoso».
«Signore…».
«Silenzio! Farai ciò che ordino. Domani, poco dopo l’alba, guiderai il tuo carro nella capitale nemica e farai i tuoi soliti affari. Presterai molta attenzione alle loro difese e al numero di guerrieri a loro disposizione. Non appena avrai notato tutte queste cose, li saluterai cordialmente e tornerai da me per fare rapporto. Quando il nemico sarà sconfitto, e solo allora, sarai libero di andare. Tieni bene a mente, Petronio, che se cercherai di tradirmi o di scappare, ti dichiarerò fuorilegge in tutta la provincia, e anche nel resto dell’Impero. Se verrai acciuffato, resterai inchiodato a una croce finché non ti decomporrai». Quintato rimase un momento in silenzio, poi concluse. «Ci siamo capiti?».
Petronio si leccò le labbra. «Sì signore… Ma se posso permettermi…».
Il legato inarcò un sopracciglio e fece un sospiro impaziente. «Cosa c’è?»
«A quanto pare ho frainteso i termini del nostro accordo originario, motivo per il quale ti offro le mie più sentite scuse. Tuttavia, alla luce della natura pericolosa di ciò che tu ora mi richiedi, credo che un… premio, sarebbe giustificato. Come riconoscimento per i miei utili e leali servigi a Roma, posso suggerirti di nominarmi tuo agente per la vendita dei prigionieri derivanti dalla disfatta nemica?».
Quintato si fermò per un secondo. «Al dieci percento».
«Signore, ritengo che sia ragionevole suggerire una cifra più congrua al mio prezioso contributo nella sconfitta del nostro comune nemico. Diciamo un venticinque percento».
Il legato sbuffò. «Nemmeno Crasso in persona sarebbe stato così audace da avanzare una tale richiesta! Stai esagerando, Petronio».
«Venti percento allora, signore».
«Quindici, e ignorerò la tua presunzione».
«Diciassette».
«Quindici. E la faccenda si chiude qui».
Il mercante fece per parlare, ma ci ripensò giusto in tempo e annuì, accettando il nuovo patto.
«Bene. Allora mi aspetto di sentire il tuo rapporto al più presto. Adesso lasciaci».
Petronio fece un grande inchino e indietreggiò tra i lembi della tenda. Catone non riuscì a non provare una certa compassione per quell’uomo. Per quanto fosse vero che aveva commerciato liberamente con tribù ritenute nemiche giurate di Roma, ricavandone lauti guadagni, le circostanze ora erano cambiate. Gli indigeni erano sul piede di guerra e avrebbero certamente trattato con circospezione qualsiasi visitatore, a prescindere da quanto fosse conosciuto. Eppure, se Petronio Deano fosse stato furbo, avrebbe garantito la propria buona fede offrendo qualche informazione riguardo all’esercito romano che avanzava minacciosamente verso di loro.
I pensieri di Catone furono interrotti da un nuovo arrivo. Silano, il prefetto del campo, salutò il legato e rimase in piedi, gambe divaricate e mani dietro la schiena, dritto come il palo dello stendardo legionario sotto al quale aveva prestato servizio per gran parte della sua vita.
«Signore, mi hai mandato a chiamare?»
«Sì. Convoca immediatamente al quartier generale tutti gli ufficiali anziani. Informali che attaccheremo la capitale dei Deceangli dopodomani all’alba».