capitolo ventuno

Quando le trombe del quartier generale squillarono nell’aria del mattino, Catone trasalì e, un attimo dopo, la prima batteria di baliste entrò in azione. Lo strato di neve che aveva ricoperto il paesaggio durante la notte attutì il tipico schianto dei bracci che scattavano in avanti. Tre pollici in più e il proiettile sarebbe sfrecciato sopra le palizzate nemiche e contro le capanne piantate al di là. Là dove il dardo con la punta di ferro colpì i tronchi della fortificazione ricoperti di brina e neve, si levarono nuvolette bianche. I guerrieri nemici, che fino a un momento prima erano allineati sulle difese e stavano lanciando insulti ai Romani, sparirono in un batter d’occhio. L’ultimo dardo andò a segno e bastò aspettare un attimo prima che i puntini neri delle loro facce riapparissero oltre la palizzata. Ripresero a schernirli troppo presto e la seconda batteria lasciò partire i suoi proiettili, concentrandosi sulla stessa porzione difensiva al centro delle file nemiche. Osservando la scena, Catone vide che uno dei difensori, più spavaldo dei suoi compagni, rimase in piedi con i pugni in aria. Un attimo dopo il dardo lo centrò nel petto e lo scaraventò chissà dove.

«Il primo sangue è nostro», ridacchiò il legato Valente della xiv Legione, in piedi di fianco al prefetto. «Quei selvaggi non impareranno mai cosa sono in grado di fare le armi moderne. Presto sfonderemo le loro difese».

Catone annuì. L’esercito si era portato dietro oltre cento baliste e catapulte e sarebbero state più che sufficienti per fare breccia nelle difese nemiche causando loro ingenti perdite. Tuttavia, i Romani avrebbero avuto un vantaggio su di loro solamente da quel lato del canale. L’artiglieria non sarebbe riuscita a raggiungere le difese dei Druidi sulla costa di Mona. Volse lo sguardo verso la baia dove le quattro navi da guerra rimaste stavano guidando le poche imbarcazioni da trasporto superstiti all’accesso settentrionale del canale tra la terraferma e Mona. Le imbarcazioni da guerra possedevano un paio di pezzi d’artiglieria con cui favorire lo sbarco sull’isola, ma Catone dubitava che sarebbero bastate per cambiare le sorti della battaglia. Le truppe d’assalto avrebbero dovuto arrancare verso la riva tra le glaciali acque basse della costa prima di attaccare le fortificazioni che proteggevano il tratto più stretto del canale. Il resto della linea costiera rivolta verso di loro era protetto da terrapieni meno elaborati e pali affilati. L’unica altra opzione era la strada angusta e fangosa che appariva brevemente durante la bassa marea, ma anche quella era protetta da una spessa cintura di pali affilati. Sarebbe stato un assalto sanguinoso.

Il legato Quintato e i suoi ufficiali anziani stavano osservando l’azione da una collinetta a poca distanza dagli uomini della xiv ancora in procinto di prendere posizione, in previsione dell’attacco che avrebbero sferrato non appena fossero state aperte nella palizzata nemica alcune brecce praticabili. Ai fianchi della legione si erano schierate le quattro coorti ausiliarie scelte per sostenere l’assalto, due delle quali erano unità di sagittarii formate da arcieri e frombolieri delle isole Baleari. I Corvi Sanguinari erano disposti sul lato destro. I loro cavalli erano ancora nell’accampamento e l’unità si sarebbe battuta a piedi insieme alla coorte di legionari a cui erano stati accorpati sin dall’inizio dell’anno. I Corvi incutevano un timore tale ai nemici che Quintato aveva deciso di farli partecipare all’assalto.

Sebbene il vento avesse smesso di soffiare e il mare fosse calmo, il cielo plumbeo minacciava un’altra scarica di neve e molti soldati romani avevano scelto di indossare i mantelli anche durante la battaglia, consci di dover aspettare un po’ prima di ricevere il segnale dell’avanzata. Gli uomini delle coorti che avevano già preso posizione sul declivio antistante le difese nemiche sbattevano i piedi al suolo e si sfregavano le mani nel tentativo di sottrarsi al freddo. I loro commilitoni della xx Legione e le restanti coorti ausiliarie erano stati lasciati come riserve nell’accampamento provvisorio posto sulla cresta della collina che dominava il punto più stretto del canale. Sebbene fossero pronti nel caso in cui avessero dovuto unirsi alla battaglia, traevano ancora conforto dai fuochi che bruciavano all’interno delle fortificazioni.

La tempesta era passata da due giorni e le prime luci dell’alba avevano rivelato l’estensione dei danni causati alla sventurata flotta che si era unita a Quintato e alla sua colonna. La costa era disseminata di relitti e cadaveri per miglia e miglia da entrambi i lati della baia e ben due terzi dei vascelli erano andati perduti, insieme ai loro equipaggi. I corpi erano stati raccolti e cremati su pire costruite con i legni frantumati delle navi prima che l’esercito compisse l’avanzata finale verso la collina che dava su entrambe le posizioni nemiche. Nel frattempo Catone si era ripreso dagli effetti del freddo e dello sfinimento causati dal salvataggio dei marinai. Almeno loro erano scampati a quella selvaggia tempesta, una magra consolazione per il prefetto. Rivolse la sua attenzione all’assalto imminente e alla situazione in generale, sempre senza interrompere la conversazione che stava intrattenendo con il legato Valente.

«Sbaraglieremo facilmente la loro posizione su questo lato del canale, signore, ma solcare il mare e conquistare l’isola stessa sarà una faccenda ben più ardua. Potremmo provare ad attraversare il canale durante la bassa marea, facendoci strada tra quegli ostacoli, oppure passiamo via acqua. Non sarà facile viste le pochi navi da trasporto che sono sopravvissute alla tempesta».

I due uomini lanciarono un’occhiata ai vascelli che entravano lentamente nella bocca del canale mantenendosi il più vicino possibile alla terraferma, nel caso in cui i nemici avessero tentato qualcosa con le dozzine di piccole imbarcazioni spiaggiate sulla costa dell’isola. Oltre alle navi da guerra, i Romani potevano contare su otto navi da trasporto, ciascuna delle quali aveva una capienza massima di cinquanta uomini.

«Con soli quattrocento soldati a ondata, la vedo difficile», commentò Catone. «I primi a sbarcare dovranno affrontare la battaglia più dura della loro vita».

«Non sarà facile», concesse Valente. «Ma tra la xiv e quella massa di barbari chiassosi, io punto tutto sulla Legione. Dovranno soltanto sbarcare e resistere fino all’arrivo delle altre truppe. Non appena avremo un numero sufficiente di uomini, nulla potrà fermarci. Schiacceremo quei Druidi come se fossero delle mosche. Tutte le altre tribù che pensano di poterci sfidare saranno demoralizzate dalla loro disfatta, no?».

Catone si costrinse a sorridere in modo rassicurante. «Sì, immagino di sì».

Valente non aveva completamente torto. Senza i Druidi a unire le tribù contro Roma, la politica consueta del divide et impera avrebbe fatto il solito miracolo. Era così che la piccola città-Stato che Roma era stata in passato riusciva a dominare una grossa fetta del mondo conosciuto. In Britannia non sarebbe stato diverso. L’intera popolazione sarebbe stata tenuta a bada da tre o quattro legioni e diverse coorti, coadiuvate dai sovrani locali, la cui lealtà sarebbe stata comprata dall’argento romano. Quello sarebbe stato il prezzo della pace per le tribù britanniche.

Mentre parlavano, lo squadrone delle baliste aveva ricevuto l’ordine di lanciare a volontà e ogni gruppo caricava i colpi secondo i suoi tempi facendo sfumare le varie raffiche che avevano dato inizio allo sbarramento in una serie continua e irregolare di schianti. Il nemico, dopo aver usato gli intervalli iniziali per far mostra del proprio sprezzo del pericolo si accucciava ora al di là delle sue difese in attesa che finisse l’assalto, pronto a scattare in avanti non appena i Romani avessero cessato il fuoco. L’impatto concentrato dei dardi pesanti stava già frantumando i tronchi della palizzata e i soldati che osservavano la scena lanciarono un grido di trionfo quando una sezione delle fortificazioni cadde nel fossato esterno, portandosi dietro un po’ di terriccio.

«Ufficiali alle vostre unità!», ordinò Quintato dalla sua postazione di fronte al posto di comando. Il prefetto del campo ripeté l’ordine ad alta voce per essere sicuro che tutti lo sentissero e poi i comandanti delle unità che sarebbero scese in campo si diressero verso i propri uomini. Catone camminò per un tratto al fianco di Valente e notò l’incontenibile sicurezza di quell’uomo nel salutare i propri subordinati e nel prendere posizione vicino ai vessilliferi alla destra della linea.

«Che la buona sorte sia con te, signore», fece Catone, chinando brevemente il capo.

«E con te, prefetto Catone!», annuì il legato. «Fategliela vedere, Corvi Sanguinari!».

Valente si girò per fare un ultimo discorso ai centurioni più anziani, secondo la venerabile tradizione dei comandanti prima di una battaglia. A volte anche Catone aveva riservato agli uomini sotto al suo comando lo stesso trattamento, ma dubitava che adesso sarebbe servito a qualcosa. Avrebbero combattuto, accadesse quel che accadesse, e qualche esortazione trita e ritrita, insieme a un paio di vanterie, non avrebbe aumentato le loro possibilità di vincere la battaglia. Era meglio, secondo lui, mostrare loro una calma professionalità e lasciare che si fidassero dell’addestramento e dell’esperienza accumulate. Decise quindi di assumere un atteggiamento discreto mentre si avvicinava al gruppo variopinto dei Corvi Sanguinari. Si slacciò il mantello e lo diede a Trasso prima di prendere lo scudo che il servo gli stava porgendo.

Per abitudine lo sollevò e lo soppesò, poi fece roteare le spalle per sciogliersi e annuì al tracio.

«Pronto…». Si fermò un attimo e fissò il servo con uno sguardo indagatore. Aveva preso una decisione riguardo al suo futuro quella stessa mattina e gli sembrava che fosse arrivato il momento più opportuno per dirgliela. «Lascia pure il mantello ai medici del campo e prendi posizione accanto al vessillifero, sarai il suo secondo».

Trasso non poté celare la propria sorpresa. «Come?»

«Mi hai servito bene. Sebbene non sempre con buon umore, vero?». Il prefetto ridacchiò, rammentando le svariate occasioni in cui Trasso lo aveva servito con lo stesso entusiasmo di chi dovesse affrontare un doposbornia perenne. Venne ricompensato con uno sguardo arrabbiato, ma il cipiglio svanì rapidamente e il tracio sorrise in barba alla propria fortuna. Essere il secondo del vessillifero lo rendeva responsabile della sua sicurezza in battaglia e, se fosse stato ucciso o ferito gravemente, sarebbe toccato a lui prendere lo stendardo dei Corvi Sanguinari e tenerlo ben alto. L’incarico comportava un aumento della paga di una volta e mezzo rispetto e un esonero dalle altre mansioni. Niente più lavori noiosi come pulire le latrine, andare in cerca di legna e pulire l’equipaggiamento del suo superiore. Significava anche che Trasso aveva fatto un passo in più sulla strada per diventare optio e, in seguito, anche decurione. Mentre la sua mente viaggiava tra le molte opportunità che gli si paravano davanti, si fermò un momento per guardare Catone.

«Chi mi sostituirà come tuo servo, signore?»

«Sono sicuro che troverai l’uomo giusto per me non appena faremo ritorno a Mediolanum. Non c’è fretta. L’unica richiesta è che sia più allegro di quello attuale».

«La tua battuta non fa ridere, signore».

«Lo so, è per questo che ti sto rimpiazzando».

Trasso sorrise a trentadue denti e annuì calorosamente. «Grazie signore. Te ne sono molto grato».

«Non ce n’è bisogno. Mi sembra più che evidente che tu hai il potenziale per diventare un buon giovane ufficiale. Congratulazioni».

Il tracio se ne andò di fretta con il mantello del prefetto e lo lasciò vicino agli ausiliari impegnati a preparare le bende e le stecche per ricevere il flusso di feriti che sarebbe arrivato non appena l’attacco fosse cominciato. Fece ritorno un attimo dopo con il suo scudo e si mise accanto al vessillifero. Tutt’intorno a loro i Corvi Sanguinari erano disposti in squadroni, con i decurioni sul fianco destro, e ogni volta che gli uomini espiravano nella freddissima aria mattutina, dalle loro labbra svolazzavano nuvolette di vapore. La neve al suolo attutiva il suono delle voci e il tintinnare degli equipaggiamenti slacciati, conferendo una quiete innaturale alla scena. Seguendo gli ordini di Catone, avevano lasciato le lance all’accampamento, visto che il combattimento ravvicinato che li aspettava avrebbe favorito l’uso delle spade.

Il prefetto osservo l’impatto dei colpi delle batterie di baliste e notò con piacere che stavano aprendo numerosi squarci al centro della palizzata. Fece scorrere lo sguardo lungo le difese nemiche e si fermò sulla piccola ridotta davanti ai Corvi Sanguinari. La fortificazione non era ancora stata scalfita, ma la prima bireme stava già calando l’ancora a breve distanza, ammarando anche la seconda dalla poppa per fornire all’azione una piattaforma stabile e parallela. Catone vide che gli uomini incaricati di gestire le baliste montate sul ponte stavano caricando le armi e stavano mirando il supporto della ridotta, l’obiettivo assegnato ai Corvi Sanguinari. Se l’avessero conquistata, la coorte sarebbe riuscita a caricare il fianco nemico, travolgendo tutta la linea difensiva. La bireme, però, era arrivata tardi alla sua posizione e non aveva ancora avuto modo di aggiungere il proprio peso al bombardamento. Catone fece un lungo sospiro di frustrazione.

Quando gli ultimi rumori metallici dei verricelli di caricamento si persero nell’aria, il trierarca al comando della nave da guerra sollevò il braccio per attirare l’attenzione dei suoi uomini alla balista, prima di portarlo in avanti. Gli strali scuri dei dardi corazzati s’impennarono sopra l’acqua e ricaddero sulle difese, sollevando una pioggia di schegge. Gli equipaggi lanciarono qualche altra raffica prima che le trombe del quartier generale squillassero di nuovo, facendo fermare le batterie. Come se volessero provare a rimediare al loro ritardo, i marinai scagliarono un altro paio di colpi prima di cessare il fuoco.

Il silenzio calò sul campo di battaglia innevato e i Romani rimasero in attesa dell’ordine di attaccare. Lungo le difese cominciarono ad apparire le prime facce e il nemico tornò con circospezione alle sue posizioni, preparandosi a tenere testa all’invasore.

«xiv Legione!». Una voce si alzò tra i ranghi pesantemente corazzati alla sinistra dei Corvi Sanguinari. «Prepararsi ad avanzare!».

Gli uomini sollevarono gli scudi e li tennero inclinati lungo il corpo.

«Avanzare!».

I ranghi frontali di ciascuna coorte si mossero in avanti e quelli che venivano dopo corsero appresso ai loro compagni, calpestando la bianca neve intatta che si stendeva davanti alle fortificazioni dei britanni. L’ordine di avanzare fu ripetuto anche nelle coorti di sagittarii disposte ai lati e gli arcieri e i frombolieri scattarono in avanti, precedendo i legionari, per colpire qualsiasi nemico che si fosse reso un facile bersaglio. Catone raddrizzò la schiena e respirò profondamene prima di gridare nell’aria pungente.

«Corvi Sanguinari, pronti… Avanzare!».

Fece un passo avanti e i suoi uomini lo imitarono da entrambi i lati dello stendardo nero con il corvo rosso che sventolava sopra di loro. La neve scricchiolò leggermente sotto i suoi stivali mentre scendevano lungo la lieve discesa che li avrebbe condotti al fossato esterno e al terrapieno circolare della ridotta. A duecento passi, dei guerrieri nemici aspettavano il loro arrivo. Erano il solito ammasso di Deceangli con e senza armature che brandivano lance, spade e asce. I pochi arcieri che avevano tra le loro file stavano rapidamente incordando le armi, per poi estrarre le frecce dalle faretre e prendere la mira in attesa che i Romani arrivassero a tiro.

Una centuria della coorte degli arcieri si affrettò davanti ai Corvi Sanguinari e si fermò soltanto per scagliare delle frecce mentre si avvicinavano al fossato. I difensori cominciarono a rispondere e i sottili strali s’inarcarono nel cielo grigio verso entrambe le posizioni. Il nemico, potendo mettersi al riparo, aveva un vantaggio, mentre i Romani in campo aperto per evitare di essere colpiti dovevano fare affidamento sulle loro rapide reazioni e su passi veloci. Alcuni non furono così fortunati e Catone vide che uno degli ausiliari impegnato ad avanzare era stato trafitto alla spalla. Dopo essersi messo l’arco a tracolla, aveva provato a estrarre la freccia ma poi era tornato sui suoi passi per raggiungere l’ospedale da campo.

Il prefetto udì un tunf sordo e notò un dardo vibrante nella neve a meno di dieci piedi da lui. Sollevò lo scudo fino al mento e continuò ad avanzare senza perdere il passo. Un altro strale gli ronzò vicino e dovette sforzarsi di non battere ciglio, nel caso in cui i suoi uomini l’avessero visto. Gli arcieri si erano fermati poco oltre e si stavano spostando lateralmente per permettere ai Corvi Sanguinari di procedere, avvicinandosi sempre più alla discesa del fossato. Le aste e le piume delle frecce nemiche spuntavano nella neve come fiori sottili e Catone rimase sorpreso dal paragone, sorridendo per un istante. Poi intravide un arciere sulla palizzata davanti a lui che stava prendendo la mira. I loro sguardi si incrociarono e l’uomo tirò indietro il braccio, inclinando il capo. Catone fece appena in tempo a sollevare lo scudo. L’arciere lasciò andare la freccia e il prefetto sentì l’impatto della punta di ferro sul cuoio e le lamelle di legno incollato che andarono in mille pezzi a pochi pollici di distanza dal volto. Altre frecce e colpi di fionda sibilarono nell’aria mentre i difensori cercavano disperatamente di abbattere quanti più nemici potevano prima che i Romani colmassero il divario che li separava e li affrontassero corpo a corpo.

Un urlo poco distante costrinse Catone a girarsi. Uno dei suoi uomini si era fermato barcollando e aveva abbassato lo scudo per togliersi l’asta che gli usciva da uno zigomo frantumato. Un attimo dopo, però, venne colpito di nuovo, questa volta da una fionda che lo centrò sulla fronte dell’elmo e gli piegò violentemente la testa all’indietro, facendolo svenire. Stramazzò sulla neve e rimase immobile mentre i suoi commilitoni proseguivano inesorabilmente passandogli sopra o accanto.

Il prefetto corse il rischio di sbirciare oltre l’orlo dello scudo e vide che erano quasi arrivati in cima al fossato. Rallentò e intraprese la discesa. La discesa era profonda poco più di dieci piedi e nel fossato c’era una serie di pali acuminati messi di traverso sul terreno. Quegli ostacoli avrebbero rappresentato un pericolo per un attacco avventato, ma l’avanzata circospetta dei Romani ben addestrati permise ai soldati di spingere via i pali e continuare con la risalita. Catone fece da apripista e puntò un tratto delle fortificazioni dove la balista della marina aveva polverizzato diversi tronchi. Non appena cominciò ad arrancare lungo la salita, piantando le mani nella neve per fare presa sul terreno ghiacciato sotto i suoi piedi, vide che i nemici si stavano allineando lungo la palizzata. Molti di loro avevano i capelli ricoperti di calce e sul volto portavano dei tatuaggi elaborati. Spalancarono le bocche e mostrarono i denti mentre lanciavano insulti e maledizioni ai Romani. Alcuni scagliavano dei sassi, che rimbalzavano sugli scudi ovali dei Corvi Sanguinari e venivano deviati dagli elmi e dalle armature. Un paio di uomini meno fortunati vennero colpiti su un arto esposto o furono colti di sorpresa da un centro pieno sulla testa, ricadendo all’indietro e scivolando lungo il fossato, storditi.

Avanzando carponi, Catone risalì il declivio con lo scudo sempre alzato e sussultò a ogni colpo di pietra ricevuto. Una volta raggiunta la base della palizzata, si accovacciò accanto ai tronchi e fece un rapido punto della situazione. Da entrambi i lati i suoi uomini stavano sciamando intorno alle difese della ridotta per riunirsi in quei tratti in cui i proiettili della bireme avevano assestato un colpo alle palizzate. La palizzata era stretta da corde intrecciate che mantenevano la struttura ben salda. Appena lo notò, estrasse la spada, la infilò nello spazio tra due tronchi e cominciò a segare. Mentre i trefoli si spezzavano, venne raggiunto dal vessillifero e da Trasso che estrasse a sua volta il gladio e, seguendo l’esempio del prefetto, cominciò a tagliare le corde più in alto. Gli altri soldati fecero lo stesso tutt’intorno alla ridotta. Nel frattempo, il nemico seguitava a lanciargli addosso di tutto, cercando disperatamente di scacciarli.

La corda si spezzò e Catone ringuainò la spada per potersi sbarazzare dei fili da entrambi i lati del tronco. Chiamò a raccolta due dei suoi uomini, soldati grandi e massicci che lo raggiunsero nel punto in cui i dardi della balista avevano frantumato la palizzata. Cercarono un appiglio per le mani e cominciarono a strattonare i pali mentre Catone li aiutava a spostarli facendo leva con la spada. Il terreno prese a smuoversi e uno dei tronchi si inclinò leggermente rispetto agli altri.

«Funziona», gridò il prefetto. «Non vi fermate».

Con l’aiuto di Trasso, il pezzo di legno si mosse di nuovo e si inclinò verso l’esterno. Grazie allo sforzo finale dei due ausiliari uscì dal terreno, lasciandosi dietro un piccolo cumulo di terra. Dopo averlo lanciato nel fossato, i Romani cominciarono ad allentare le difese accanto a quel buco, che cedettero più facilmente. All’improvviso un’ombra si stagliò sopra Catone, il quale alzò lo sguardo e vide che un guerriero indigeno si era sporto dalla palizzata con una lunga lancia da caccia in mano ed era pronto a colpirli. Quando la punta larga a forma di foglia calò verso il basso, il prefetto sollevò lo scudo e bloccò il colpo, deviandolo contro i pali più vicini. Lasciò subito andare la spada e afferrò il bastone della lancia, cercando di strapparlo a forza dalle mani del suo nemico. Riuscì ad appropriarsi di una sua buona metà prima che il guerriero rinsaldasse la presa e per un momento si ritrovarono a strattonarsi l’arma vicendevolmente. Poi Catone inclinò l’asta e la rispedì al mittente. Con il fondo colpì il mento dell’avversario e gli richiuse con violenza la mascella, facendolo ruzzolare via con la testa scattata all’indietro.

«Bel colpo, signore!», disse Trasso, ridendo.

Un altro tronco prese a oscillare prima di liberarsi dalla neve e dalla terra, aprendo uno spazio sufficientemente largo da consentire il passaggio di un uomo. Catone fece passare prima lo scudo e usò la mano libera per arrampicarsi lungo l’instabile salita di terra che conduceva in cima alla fortificazione. Raggiunse la cima in ginocchio e fece per estrarre la spada non appena venne individuato dal guerriero nemico più vicino. Un uomo robusto con un mantello di pelliccia si girò per affrontarlo e sollevò l’ascia da combattimento in aria prima di scagliarsi contro l’ufficiale romano gridando a pieni polmoni. Catone ebbe appena il tempo di divaricare le gambe e poi il guerriero abbassò l’arma.

Cogliendo il bagliore della lama affilata, inclinò lo scudo per deviare il colpo ma l’impatto fu talmente improvviso e violento che l’ascia si scontrò con la borchia di ferro e gli contuse con forza la mano. La testa dell’arma rimbalzò sullo scudo e la lama finì nella neve compressa e nel ghiaccio al di sopra della fortificazione, sollevando schizzi di bianco e terra scura. Puntellandosi sul piede posteriore, Catone sferrò un colpo di scudo e sentì di aver centrato saldamente il corpo del suo aggressore, il quale barcollò all’indietro e cercò di non perdere l’equilibrio sulla superficie ghiacciata. Sguainando l’arma dal fodero, il prefetto allontanò lo scudo quanto bastava per fare un rapido affondo e la punta della spada perforò lo strato di pelliccia che copriva il guerriero. La pelle cedette e la lama penetrò nella carne dell’uomo. La rigirò da entrambi i lati prima di ritrarla e il suo avversario indietreggiò di qualche passo emettendo un grido di rabbia e sollevando l’ascia per colpirlo di nuovo.

Questa volta Catone si spostò rapidamente, portandosi fuori tiro, e si diede un’occhiata alle spalle. Trasso stava attraversando l’apertura nella palizzata e dietro di lui due guerrieri armati di scudi triangolari e spade stavano correndo nella sua direzione, bramosi di falciarlo prima che potesse raggiungere la cima della fortificazione. Il prefetto fece dietrofront, ignorando il guerriero ferito, e partì alla carica oltre Trasso con lo scudo in orizzontale per rappresentare un bersaglio più ampio. Nessuno dei due schieramenti osò fermarsi sulla superficie ghiacciata e finirono per scontrarsi uno contro l’altro tra un cozzare di scudi e lame prima di rotolare al suolo in un groviglio di membra. Catone atterrò con violenza e l’impatto gli strappò l’aria dai polmoni. Era mezzo sdraiato su uno dei due nemici mentre l’altro gli era finito sulle gambe. Aveva perso lo scudo e sebbene avesse ancora la spada in mano, il primo indigeno vi giaceva sopra e non riusciva a muoverla. Serrò quindi il pugno sinistro e lo colpì con violenza sulla mandibola, ancora e ancora, finché il guerriero non riuscì a sollevare le braccia per proteggersi. L’altro avversario scosse la testa e Catone, provando un dolore acuto al ginocchio, capì che l’articolazione durante la caduta era andata a sbattere contro la testa nemica. Non appena riprese i sensi, l’uomo ruggì e fece per prendere la spada accanto a sé.

Catone non avrebbe potuto impedirgli in alcun modo di prenderla e quindi tornò a colpire con violenza l’uomo più vicino per liberare la mano intrappolata. «Levati di dosso, barbaro bastardo!». Provò un’ultima volta e il guerriero si spostò leggermente su un fianco, quanto bastò per permettergli di riprendersi la spada.

Si rimise allora in piedi in un batter d’occhio, proprio mentre l’altro avversario stava facendo calare il colpo. All’ultimo momento, Catone riuscì a infilare il gladio tra la lama celtica e il suo corpo. Le armi cozzarono rumorosamente spargendo scintille nell’aria e poi la spada lunga forzò quella del prefetto da un lato, continuando la sua traiettoria e intercettando il cimiero del suo elmo. Il romano puntò all’avambraccio del guerriero e urtò una grossa torque d’argento che impedì un ferita ma causò uno spasmo alle dita dell’uomo, che dovette mollare la spada. Il prefetto rigirò il gladio e lo piantò nella gola del nemico prima di piegarlo da un lato, portandosi dietro un fiotto di sangue. Il deceanglo cadde sulla fortificazione e si portò le mani alla ferita mortale.

Catone tirò un sospiro di sollievo e si liberò dall’altro nemico. Recuperato lo scudo, si alzò in tempo per vedere Trasso che colpiva il braccio del guerriero con l’ascia, tagliandogli la pelle e le ossa e facendolo gridare dal dolore. Questi cercò di risollevare l’arma per un altro colpo ma l’arto spezzato si rifiutò di sopportare il peso dell’ascia da combattimento. Il Tracio proseguì con un affondo di scudo che fece finire il suo avversario al suolo sul bordo della fortificazione, da dove prese a rotolare lungo il declivio innevato.

I due si fermarono un attimo, il cuore in gola e i sensi in allerta per il pericolo ma nessun nemico si fece avanti e il vessillifero dei Corvi Sanguinari si infilò nella breccia seguito dai due ausiliari nerboruti che avevano sradicato i tronchi. Sotto di loro, altri uomini stavano cercando di entrare nella breccia, impazienti di unirsi al combattimento. Guardandosi intorno, Catone vide che altri due gruppi dei suoi erano riusciti a farsi strada nella fortificazione e stavano lottando per difendere la propria posizione mentre i loro commilitoni li raggiungevano. L’interno della ridotta era largo più o meno cinquanta passi e dal punto in cui si trovava il prefetto era visibile la formidabile fila di pali che costellava il lato verso il canale. Dall’altra direzione si estendeva la fortificazione che copriva lo stretto canale tra la terraferma e l’isola dei Druidi.

A difesa della palizzata erano state schierate diverse centinaia di uomini e per ora non pareva che avesse ceduto nessuna delle varie brecce aperte dalle baliste dell’esercito romano. Considerando il peso maggiore delle loro corazze, non c’era da stupirsi se gli uomini della xiv ci stessero mettendo più tempo rispetto ai Corvi per entrare in azione, considerò Catone.

Un coro di grida da battaglia richiamò la sua attenzione nelle immediate vicinanze, dove un gruppo di guerrieri nemici stava scattando verso di lui e gli uomini radunati attorno al loro stendardo.

«Mantenete la posizione ragazzi», disse nel tono più pacato possibile. «Sono bravi solo a sprecare fiato, non hanno spirito. Facciamogli vedere perché hanno ragione ad aver paura dei Corvi Sanguinari!».

Trasso e gli altri prepararono spade e scudi e puntarono bene i piedi, spalla a spalla, pronti a mantenere la loro posizione. Alle loro spalle il vessillifero piantò l’asta nel terreno ed estrasse la spada. Catone si mise accanto al Tracio, sul bordo della fortificazione, e digrignò i denti guardando i nemici. Si stavano già riversando sull’altra discesa della linea difensiva per chiudere il piccolo gruppo di Romani intorno alla stretta breccia. Quelli che si trovavano in cima alla fortificazione erano i più veloci e un attimo dopo si schiantarono scudo contro scudo con Trasso e due dei suoi commilitoni. Gli ausiliari avanzarono immediatamente, usando gli stivali chiodati per avere una presa migliore sul terreno ghiacciato e rispedire gli indigeni verso i nemici che venivano dietro di loro. Affondarono le spade nei ranghi fitti davanti a sé e fecero centro, rigirando le lame nei corpi nemici prima di liberarle. I primi guerrieri si accasciarono sulle ginocchia e vennero brutalmente scalciati nella discesa interna da un compagno che non vedeva l’ora di buttarsi nella mischia.

Altri nemici si riversarono lungo la collina per attaccare i Romani e Catone inclinò lo scudo verso il basso per colpire il primo di loro, un uomo dal mento irsuto e i capelli arruffati, tutto ricoperto di cicatrici. Era armato di scudo di vimini e lancia da caccia e schivò agilmente il colpo del prefetto, prima di coprire il proprio corpo ammantato e affondare la lancia dall’ampia lama. Catone usò lo scudo per deviare l’assalto verso il basso e sussultò quando sentì il bordo tagliargli il polpaccio proprio al di sopra della caviglia. Sollevando lo stivale, schiacciò la testa dell’arma e cercò di ferire la mano del guerriero. Lo mancò e colpì l’asta, spaccandola e rendendola inutilizzabile. Dopo aver lanciato un grido di rabbia, il nemico gettò via la lancia e prese un’ascia dalla sua cintura. Sebbene fosse piccola, la parte in ferro sembrava impressionante e il deceanglo si fece più vicino per calare l’arma contro lo scudo del prefetto. Spaccò il legno del bordo inferiore e non appena liberò la lama tornò a colpirlo ancora e ancora, infierendo con una serie di schianti selvaggi sullo scudo di Catone, che dovette continuare a metterlo in mezzo tra sé e il nemico per proteggere i piedi e gli stinchi.

I nemici continuavano ad arrivare e il vessillifero si vide costretto a scendere in campo, scagliandosi a spada tratta contro un giovane basso ma dalle spalle larghe che indossava un elmo gallico e una cotta di maglia al di sotto di un mantello ricamato. Evidentemente un nobile del posto, pensò Catone mentre bloccava un altro colpo dell’ascia che stava inesorabilmente frantumando la base del suo scudo. Quando il nemico ritrasse il braccio per un altro affondo, il prefetto sollevò il braccio e fece sbattere la parte frastagliata del suo scudo contro la mascella dell’uomo, squarciandogli la pelle al di sotto della barba e ricoprendo la neve ai suoi piedi di sangue. Prima che il guerriero riuscisse a riprendersi dalla sorpresa, Catone lo colpì di nuovo, facendolo cadere lungo la discesa e nel cumulo di neve sul fondo.

Un grido attirò la sua attenzione. Il vessillifero stava guardando a bocca aperta il buco che il nobile gli aveva aperto nell’inguine. Il britanno sorrise crudelmente prima di rigirare la spada nella ferita ed estrarla con un spruzzo di sangue che impregnò i pantaloni del soldato romano. L’ausiliario tremò violentemente e lasciò andare sia la spada sia lo stendardo, il quale svolazzò nell’aria fredda e cadde contro il nemico. Questi si liberò dello scudo e afferrò l’asta con un grido di giubilo prima di precipitarsi lungo la discesa sventolando lo stendardo da un parte all’altra.

Accadde tutto così velocemente che Catone non riuscì a reagire. Diversi nemici si erano ormai interposti tra lui e il nobile e, sopraffatto dalla vergogna, urlò con angoscia: «Lo stendardo! Salvate lo stendardo!».