capitolo undici
«Prima Centuria! Fermarsi!», gridò Festino. Le nuvole si erano scaricate, lasciandosi dietro solo una leggera pioggerellina che, ogni tanto, permetteva di intravedere sprazzi di cielo azzurro. Una magra consolazione per gli uomini bagnati fradici e con il fango fino alle caviglie che se ne stavano in piedi davanti alla gola. I legionari, allineati in una singola fila, si fermarono a una trentina di passi dalla barricata con gli scudi alti e i giavellotti nella mano libera. Gli ausiliari rimanevano ai lati della linea e, dal lato destro, Catone vedeva che i nemici stavano osservando con circospezione la nuova avanzata romana. Non appena i soldati si fermarono, gli sghignazzi nemici si strozzarono, in attesa della loro prossima mossa.
«Preparare i giavellotti!».
I legionari sistemarono la presa e spostarono le braccia all’indietro pronti per il lancio. Immediatamente, i guerrieri della tribù lanciarono un grido d’avvertimento che fu subito ripetuto dai loro compagni, facendoli nascondere dietro l’orlo della barricata. Il prefetto vide qualcosa schizzare nel fango poco lontano dai legionari e poi si rese conto che i Deceangli in cima alla rupe stavano cercano di colpirli con le rocce più piccole.
Festino passò in rassegna la fila per assicurarsi che ogni uomo della Prima Centuria fosse pronto, poi gridò: «Scagliare i giavellotti!».
Gli strali scuri sibilarono nell’aria e gli uomini grugnirono per lo sforzo di aver lanciato quelle pesanti lance. La prima raffica raggiunse il culmine della parabola e la maggior parte dei colpi finì dall’altro lato della barricata. Alcuni arrivarono corti e rimbalzarono contro i massi e le rocce che proteggevano il nemico. Catone percepì i suoni dell’impatto: lo sferragliare stridente delle punte di ferro che sfondavano gli scudi e il sordo tonfo della carne trafitta. Festino, seguendo gli ordini di rallentare il ritmo degli attacchi, aspettò svariati attimi prima di dare ancora istruzioni.
«Passare davanti i giavellotti!».
Gli uomini della Seconda Centuria passarono ai loro camerati nuove armi prese dal mucchio che ognuno portava sulle spalle. Non appena i legionari furono pronti, il centurione diede l’ordine di preparare la seconda raffica. Ancora una volta, i guerrieri talmente temerari da far vedere il proprio volto oltre la barricata sparirono in un batter d’occhio. Catone si rivolse a Corvino e ai venti Corvi Sanguinari del suo squadrone e fece cenno di avanzare.
«È il nostro momento, ragazzi. Seguitemi!».
Cominciò a correre verso il pendio sassoso che si inerpicava sul lato della valle. Dall’altro versante, Arpagio osservò il suo comandante e diede il via anche ai suoi uomini, dirigendosi verso la base delle rupi a sinistra della gola. Non appena raggiunsero i massi caduti, Festino diede l’ordine di scagliare la seconda raffica. Un attimo dopo, un altro coro di colpi riecheggiò tra le strette pareti.
Catone incominciò la sua scalata, provando la presa sulle pietre instabili e scivolose e cercando di muoversi il più in fretta possibile. Dietro di lui gli ausiliari cercavano disperatamente degli appigli e bestemmiavano col fiato corto. Non appena raggiunse un terreno più stabile, in cima al pendio, si fermò un attimo a osservare l’ammasso di rocce e alberi rachitici che gli si paravano davanti. Quando valutò che scalare lo stretto angolo tra le rupi e il fianco della valle costellato di rocce non sarebbe stato affatto facile, Festino diede l’ordine di scagliare una terza raffica. I giavellotti sarebbero presto terminati e i legionari avrebbero dovuto formare la testuggine per attaccare, passando sotto una nuova pioggia di rocce. Non c’era tempo da perdere. Catone indicò l’angolo scosceso e disse: «Da questa parte!».
Dovette presto avanzare carponi per farsi strada lungo la china, aggrappandosi alle rocce e cercando un appoggio con i piedi mentre si issava sempre più su. Il peso dell’armatura e dello scudo che penzolava dalla sua schiena rese l’impresa estremamente faticosa, facendogli dimenticare in men che non si dica il freddo e l’umidità di prima. Il sudore gli bagnava la fronte e il cuore batteva all’impazzata nel petto.
I Corvi Sanguinari erano arrivati a metà delle rupi quando il prefetto udì l’ordine di formare la testuggine.
«Merda…», mormorò. Festino e le tre centurie di punta della sua coorte stavano per entrare nella gola, passando proprio sotto le rupi dalle quali i nemici li avrebbero fatti a pezzi ancor prima che avessero potuto raggiungere la barricata per scontrarsi con i Deceangli. Catone rinnovò i propri sforzi e afferrò tutti gli appigli che poté, sollevandosi con più foga. Poco più avanti vide una sorta di stretto pianerottolo e, ancora oltre, quella che sembrava essere la cima delle rupi, che spiccava contro un cielo sempre più terso. Non si rese quasi conto che la pioggia aveva smesso di cadere e che l’acqua sulle rocce aveva preso a brillare sotto i raggi del sole.
Non appena raggiunse la cengia, si accasciò sulle cosce e riprese fiato. Mentre aspettava che gli altri lo raggiungessero, osservò i ranghi ridotti dei legionari e vide che gli ultimi uomini stavano entrando in formazione. Non sembravano avere fretta, ma un secondo dopo Catone notò che il legato si era diretto verso di loro e aveva iniziato a gesticolare teatralmente, rivolto al centurione Festino. Questi aveva fatto un saluto e si era girato per gridare i suoi ordini, facendo avanzare con passo pesante le sue centurie. Avanzando verso la gola, le testuggini assomigliavano a degli scarabei squamati.
I primi dieci uomini del suo squadrone lo avevano raggiunto su quella specie di pianerottolo, i loro volti erano paonazzi e stavano ansimando. Non c’era tempo per farli riposare. «Avanti, ragazzi. Un ultimo sforzo e saremo in cima. Una volta lì, li trafiggeremo prima che possano fare altri danni».
Non aspettò che gli rispondessero. Si raddrizzò e cercò l’appiglio successivo. Il prefetto tirò un sospiro di sollievo quando si rese conto che, grazie alla larghezza del pianerottolo, gli altri avrebbero potuto scalare le rocce da entrambi i lati e avrebbero raggiunto la cima in varie ondate e non uno a uno. Poi si udì un rumore di cedimento e una valanga improvvisa di terra. Si voltò e vide che uno dei suoi si stava reggendo disperatamente con una mano mentre la roccia che aveva spostato per via della spinta scivolava lungo il ripiano, arrivando a cadere oltre il bordo. Un attimo dopo venne lanciato un grido d’allarme, spezzato, al quale seguì l’urlo selvaggio di uno dei Corvi Sanguinari. Era stato colpito e stava cadendo per più di trenta piedi, rotolando prima di sfracellarsi la testa su un masso. Il suo ululato si interruppe, ma l’eco si sentì chiaramente sulle pareti della gola.
«Continuate a muovervi!», ordinò Catone con la voce più alta che osò fare. Temeva che la caduta del suo soldato avesse attirato l’attenzione dei nemici sopra di loro. I Corvi Sanguinari si resero conto del pericolo e continuarono a scalare freneticamente. Il prefetto vide che si trovava a meno di dieci piedi dalla cima e sentì un brivido di sollievo percorrergli le viscere. Con la coda dell’occhio notò un movimento che lo fece girare, individuando una sagoma vestita di pelliccia che li stava guardando dall’alto, a una cinquantina di piedi di distanza. Il guerriero alzò le braccia e lanciò l’allarme.
«Ci hanno scoperti!», disse uno degli ausiliari, facendo esitare i Corvi.
«Continuate a salire!», sbraitò Catone, sbarazzandosi di qualsivoglia discrezione, ora che erano stati scoperti. «Salite! Salite!».
Continuarono a muoversi accanitamente mentre il nemico si precipitava lungo il terreno sconnesso, saltando di masso in masso con le spade in mano per attaccarli. Raggiunse il primo romano proprio quando questi stava per issarsi sulla rupe. Il tracio vide troppo tardi il pericolo e sollevò un braccio per cercare di proteggersi dal colpo. L’arma del nemico baluginò nella luce del sole e provocò un grugnito profondo quando affondò nella carne, frantumando l’osso e recidendo completamente l’arto. La lama non si fermò, e proseguì fin dentro la spalla dell’ausiliario, facendogli esalare l’ultimo respiro, mentre il sangue spruzzava dal moncherino, proprio al di sotto del gomito. Alle spalle del soldato caduto, i suoi compagni si stavano arrampicando sulla rupe, sciogliendo gli scudi ed estraendo le spade prima che il nemico potesse scagliarsi su di loro.
Guardando oltre il guerriero, Catone analizzò la situazione. A una cinquantina di passi da loro si trovavano venti guerrieri o poco più, tutti allineati sul bordo della rupe con delle rocce tra le mani. Erano pronti a lanciarle sui legionari in arrivo. Per il momento non sembravano aver prestato ascolto alle grida di allarme del loro compagno, ma proprio allora questi si portò una mano alla bocca e gridò con quanto fiato aveva in corpo. I Deceangli a lui più vicini si voltarono per capire cosa stesse accadendo e non appena videro il manipolo di Romani senza troppi ripensamenti lasciarono cadere le loro pietre e si precipitarono verso il terreno roccioso per affrontare la minaccia alla loro posizione. Incoraggiato dall’arrivo dei suoi compagni, il primo guerriero affondò la punta della spada nella nuca della sua vittima, prima di liberarla e caricare l’ausiliario successivo. C’erano già cinque soldati accanto a Catone, pronti a sbarazzarsi del nemico. Il prefetto lanciò un’occhiata lungo la scarpata dove i suoi uomini stavano ancora scalando.
«Muovetevi! Più veloce che potete, cazzo!».
Si girò per unirsi agli altri proprio quando il guerriero si era lanciato verso di loro brandendo la spada e facendola roteare con un fendente feroce diretto al primo ausiliario che gli si parava davanti. Nonostante la fatica della scalata, il soldato sollevò lo scudo e lo scosse per deviare il colpo, avvicinandosi al nemico e assestandogli un colpo brutale con il gladio. Il guerriero si piegò in due per l’impatto e perse l’equilibrio. La punta della lama spuntò dall’altro lato del suo corpo, perforandogli la spina dorsale e il mantello di pelliccia. Le gambe gli cedettero e stramazzò al suolo, seguito dalla sua spada. L’ausiliario gli sferrò un calcio e lo fece cadere sul suolo pietroso, piantandogli un piede sullo sterno per liberare il gladio insanguinato.
«Ben fatto!», disse Catone, dandogli una pacca sulla spalla. Dopodiché estrasse l’arma e sollevò lo scudo, affiancato dai suoi uomini. Alle sue spalle si udivano gli sbuffi e le bestemmie degli altri Corvi intenti a terminare la scalata e a rimettersi in piedi prima di schierarsi davanti al nemico. Uno degli ausiliari fece per avanzare, ma Catone lo fermò. «Mantenete la posizione! Aspettate che gli altri ci raggiungano».
Quando l’ultimo uomo dello squadrone raggiunse la cima, il nemico più vicino era a meno di una lancia di distanza. Stava soppesando i Traci con uno sguardo selvaggio, la spada in una mano e un piccolo scudo delle dimensioni di un brocchiero nell’altra. Non appena i suoi compagni si furono uniti a lui, tutti con lo stessa risolutezza negli occhi, puntò il prefetto e, aprendo la bocca in un grido di guerra a denti scoperti, caricò. Catone fece appena in tempo a spingere in avanti lo scudo per assorbire il primo colpo del guerriero, che arrivò sul bordo dello scudo ovale e lo spostò da un lato, lasciandogli il petto scoperto. Senza perdere tempo, proseguì l’attacco con un colpo selvaggio sferrato con il proprio scudo. Il prefetto lo intercettò con la guardia della spada e gli diede una spinta talmente leggera da ammaccare soltanto la cotta di maglia dell’avversario. Bastò però a rimandarlo indietro di un passo, permettendo a entrambi di recuperare la propria posizione d’attacco e di affrontarsi nuovamente. Catone si rendeva appena conto degli sforzi di entrambe le parti ora che i suoi uomini e il nemico si erano uniti nella battaglia per il possesso delle rupi. Lo sferragliare e il clangore delle lame, insieme ai colpi che finivano contro gli scudi, si confondevano con i grugniti e le imprecazioni dei combattenti.
L’uomo davanti a Catone si rannicchiò e lo fissò con attenzione, aspettando la sua prossima mossa. Il prefetto sorrise cupamente, comprendendo che l’iniziativa adesso era sua, e si mosse rapido in avanti col piede sinistro. Caricò con lo scudo, costringendo il nemico a colpirlo con la spada per non perdere terreno. Catone assorbì il colpo prima di ricambiare. Sollevò la spada e scansò quella del guerriero, facendogli aprire anche il braccio. In quel momento, il romano si lanciò in avanti con tutto il suo corpo e, all’ultimo secondo, abbassò l’orlo dell’elmo e ne fece schiantare la fronte rinforzata sulla faccia del nemico. Fu un impatto duro, che scosse il collo di Catone, ma l’attacco imprevisto fece il suo dovere e l’uomo cadde all’indietro, disorientato. Troppo disorientato per salvarsi. Il prefetto infilò la lama nella gola del guerriero e la estrasse portandosi dietro un turbinio di sangue. L’avversario fece cadere l’arma e cercò di afferrarsi la gola, cadendo sulle proprie ginocchia e gorgogliando in modo orribile.
Catone gli passò accanto in cerca di un altro rivale. Intorno a lui gli uomini di entrambi i fronti era impegnati in duelli uno contro uno. Qua e là i numeri erano meno equilibrati e taluni approfittavano del caos per colpire il nemico alle spalle se questi stava guardando dall’altra parte. Il galateo dell’arena non valeva qui: uccidi o muori era l’unica regola. Il prefetto vide un guerriero alto e dalla pelle scura con i capelli tenuti all’indietro da un laccio di pelle. Brandiva un’ascia con manico lungo con entrambe le mani e la fece roteare non appena ricambiò il suo sguardo. Prima di lanciarsi contro di lui gridando a pieni polmoni, tese i muscoli delle braccia e mosse la scure sempre più velocemente.
Catone sapeva bene quanto danno potesse fare un’arma del genere e si inginocchiò, sollevando lo scudo per bloccare il colpo. Un attimo dopo la superficie esterna della sua unica difesa si infranse in un’esplosione di schegge, bronzo e cuoio. L’impatto mise a dura prova la sua presa, ma il pugno del romano era saldo e non tentennò. La testa dell’ascia rimbalzò lontano e lui colse l’occasione per piantare la spada nella coscia dell’avversario, tirandola verso lo stivale di semplice pelle e frantumandogli le ossa. L’uomo lanciò un urlo di dolore e rabbia e barcollò all’indietro. L’arma aveva ormai perso lo slancio e il secondo colpo fu così debole da essere assorbito completamente dallo scudo del prefetto, che si buttò in avanti, costringendolo a mettere il peso sul piede ferito. Seguirono un rantolo e un lamento e il guerriero cadde sulla schiena, perdendo la presa sull’ascia che tintinnò sulle rocce.
Catone mantenne sollevati lo scudo danneggiato e la spada mentre si guardò intorno. I Corvi Sanguinari se la stavano cavando egregiamente: erano caduti solo in tre, a differenza della moltitudine di nemici al suolo. In lontananza, sulla rupe dall’altro lato della gola, notò che il secondo gruppo di nemici aveva cominciato a scagliare le prime pietre contro la prima testuggine. Fece sibilare un’imprecazione. Dove diamine erano Arpagio e i suoi uomini?
Individuò un uomo più anziano e tarchiato con in testa un elmo, il quale stava dando ordini e incoraggiamenti ai suoi compagni. Il capo dei nemici si fece strada in prima linea e sollevò la spada per colpire l’ausiliario davanti a sé. Il soldato alzò lo scudo in modo istintivo e il guerriero sorrise beffardo, afferrandone l’orlo con la mano libera e scagliandolo da un lato prima di vibrare il colpo. La pesante lama sfondò l’elmo di bronzo del tracio e proseguì lungo il cranio fino ad arrivare alla mandibola. Una volta liberata l’arma e gettato il corpo da un lato, l’uomo ruggì trionfante e agitò in alto la spada insanguinata per farla vedere ai suoi seguaci.
Mandando giù la paura a fatica, Catone fece un passo avanti e parlò con voce forte e chiara, affinché i suoi uomini lo sentissero. «Non sei altro che un grasso ammasso di merda, vecchio, e tra poco ti farò a pezzi. Sono il prefetto Marco Licinio Catone, comandante dei Corvi Sanguinari». Ripeté il nome della sua coorte con le poche parole del dialetto siluro che aveva appreso dai mercanti indigeni di passaggio al forte. Provò un fremito di piacere quando vide che gli occhi dell’uomo si sgranarono brevemente al suono di quel nome. Le incursioni sanguinarie della sua unità nei territori nemici gli avevano fatto guadagnare una reputazione temibile tra le tribù montane del Sud.
Ci volle un attimo prima che il guerriero si ricomponesse e latrasse la sua risposta, carica di un disdegno più che evidente alle orecchie dei soldati romani. I suoi compagni lo acclamarono, anche se alcuni continuavano a scambiarsi colpi con i Traci. Per tacito accordo si aprì uno spazio intorno ai due capi, che si avvicinarono l’uno all’altro con cautela fino ad arrivare a una distanza molto ravvicinata. Si valutarono. Catone notò che il suo avversario non era più nel fiore degli anni, ma aveva ancora una certa possanza muscolare, insieme ai segni della bella vita. Le braccia nude erano ricoperte di vorticosi tatuaggi blu e bianche cicatrici, ricordo di molte battaglie.
Il prefetto portò in avanti lo scudo, osservando il nemico attraverso la parte danneggiata in cima, e sollevò la spada all’altezza del mento, puntandola direttamente al volto dell’uomo. Era un gesto tanto di sfida quanto di minaccia e la bocca del vecchio si arricciò per il disprezzo. Il guerriero brandì la sua lunga spada e diede una stoccata potente allo scudo. Catone rispose immediatamente colpendo la sua arma e cercando di avvicinarsi di più per infilzarlo con la sua, ben più corta. L’avversario, però, era più agile di quanto non sembrasse e si mantenne a debita distanza, allontanandosi perfino di tre passi per restituire l’attacco e frantumare brutalmente la parte superiore dello scudo romano. Catone non ebbe altra scelta che bloccare gli attacchi, senza possibilità di rispondervi. Ogni affondo lasciava un solco nel suo scudo ovale e apriva una breccia che lo indeboliva sempre più. Nel frattempo, il prefetto si impegnò per far voltare il nemico in modo da metterlo con le spalle al dirupo, togliendogli così qualsiasi via d’uscita in vista del prossimo assalto.
Il guerriero si fermò per riprendere fiato. Era affannato, ma mantenne comunque lo sguardo fisso su Catone e la sua spada, che oscillava lentamente da una parte all’altra. All’improvviso, uno squarcio tra le nuvole inondò la valle di luce e l’uomo batté gli occhi per il bagliore. Il prefetto si scagliò in avanti, alternando questa volta i colpi di scudo con quelli di spada e deviando qualsiasi tentativo di bloccare i suoi attacchi. L’avversario era talmente concentrato su quei fendenti da non rendersi conto fino all’ultimo secondo che si trovava ora sul bordo della rupe. Uno dei suoi uomini lo avvertì e il capo buttò un occhio alle proprie spalle. Fu allora che Catone lo colpì, caricando da dietro lo scudo e travolgendolo per fargli perdere l’equilibrio. Quando il suo tallone scivolò oltre la roccia, il guerriero lasciò andare la spada e si aggrappò ai lati dello scudo romano, tirando con tutta la sua forza. Il soldato, preso alla sprovvista, si sentì tirare in avanti, ma riuscì a mollare la presa sulla maniglia dello scudo e si ritrasse all’ultimo. Lo scudo cadde e l’uomo rotolò all’indietro con un grido disperato che venne interrotto quando rimbalzò su una roccia sporgente e ruzzolò fino ai piedi della rupe in silenzio, come una bambola di paglia.
I suoi sottoposti rimasero impietriti. Prima che potessero riprendersi, Catone gridò un ordine ai suoi uomini. «Sganciatevi! Adesso!».
I Corvi Sanguinari si ritirarono con cautela e il prefetto si voltò verso il nemico, parlando con fare autoritario. «Gettate le armi! Fatelo!». Indicò la sua spada e poi piantò il dito al suolo. «Ora».
Ne erano rimasti ancora dieci, e dapprima nessuno si mosse, sebbene Catone potesse vedere l’incertezza e la paura nei loro occhi. Ringuainò la sua lama e si avvicinò a quello più vicino, un giovane con una lancia tremante tra le mani. Girò la punta con calma e prese l’asta dalle sue mani.
«Siediti».
Il britanno annuì e si accasciò rapidamente. Dopo un momento, gli altri fecero lo stesso, appoggiando le proprie armi davanti a sé. Catone si rivolse a Corvino e disse: «Ordina a cinque dei tuoi di raccogliere le loro armi e di lanciarle giù dal dirupo prima di tenere sott’occhio i prigionieri. Se ci sono dei problemi, spediteli appresso al loro capo».
«Sì signore».
Una volta lasciato Corvino alle sue mansioni, il prefetto fece muovere gli altri soldati sul bordo della rupe che dava sulla gola. Mentre si facevano strada lungo la superficie sconnessa, un grido d’allarme risuonò dall’altro lato, e finalmente videro che Arpagio e i suoi avevano raggiunto la cima e si stavano disponendo in linea d’attacco per affrontare i guerrieri nemici. Visto che non poteva aiutarli in nessun modo, si avvicinò all’orlo pieno di mucchi di rocce non ancora usati. Si sporse e vide che la prima testuggine si stava aprendo in prossimità della barricata e gli uomini avevano iniziato ad arrampicarsi per raggiungere i nemici arroccati. Prima che l’intervento di Catone mettesse un freno al bombardamento dei suoi uomini, molti altri legionari erano caduti. La seconda testuggine stava passando proprio sotto di lui, ignara del fatto che i Corvi avevano conquistato una delle rupi.
Da lassù il prefetto aveva una visione chiara dei difensori barricati dietro i massi e si rese presto conto che erano più di quanto avessero previsto: ben quattrocento guerrieri, spalla a spalla e pronti a tenere la posizione all’interno della gola. Tra di loro intravide anche delle figure coperte di pelli scure e mantelli che si sbracciavano e incitavano a gran voce i propri compagni, maledicendo a tutto spiano i Romani. Druidi, dedusse. Il nemico avrebbe opposto molta resistenza e non si sarebbe arreso facilmente.
Poi sogghignò e si voltò rapido verso gli uomini che lo avevano seguito: «Riponete le armi e posate gli scudi!». Una volta eseguito l’ordine, indicò loro le rocce. «Ripaghiamo quei bastardi con la loro stessa moneta. Dateci sotto, ragazzi».
Raccolse una roccia grande quanto mezzo melone, la trasportò lungo la rupe per superare la barricata e la fece cadere oltre il bordo, osservandola mentre ruzzolava diventando un puntino sempre più piccolo prima di rimbalzare su uno scudo e finire al suolo. Borbottò frustrato e fece per penderne un’altra. Nel frattempo i Traci avevano iniziato a lanciare anche loro dei proiettili sul nemico, sfogandosi con grida di gioia o di sconforto se centravano o meno il bersaglio. Catone indirizzò il secondo colpo, o almeno ci provò, nell’area in cui i ranghi nemici sembravano più serrati e questa volta fu ricompensato con un centro perfetto sulla testa di un guerriero, che andò a terra come se ce lo avessero piantato con un martello. Quelli accanto a lui alzarono la testa, puntini bianchi avvolti da capelli neri, e non appena videro gli ausiliari, presero a indicarli e ad avvertire i propri compagni. Molti altri furono schiacciati dalla pioggia di pietre e in men che non si dica i Deceangli cominciarono a vorticare a destra e a manca nel tentativo di evitare il bombardamento, distogliendo l’attenzione dallo scontro lungo la barricata.
Catone vide uno dei Druidi caricare in avanti e spingere i propri combattenti verso i legionari. Era riuscito a raccoglierne molti prima di essere colpito lui stesso da una pietra. Gli frantumò il cranio, lasciandolo riverso al suolo con gambe e braccia divaricate all’ombra di quello sfacelo insanguinato che un tempo era stata la sua testa. La vista del druido morto innervosì non poco i Deceangli e molti cominciarono a rompere le righe, ritirandosi verso l’apertura opposta della gola, dove sarebbero stati al sicuro dalle pietre. Il panico era contagioso e ben presto solamente una manciata di difensori rimase a combattere una battaglia disperata e impari lungo la barricata. Sopraffatti e soverchiati da soldati addestrati e armati per combattere con più efficacia di qualsiasi altro uomo al mondo, i guerrieri della tribù cominciarono a cedere e furono costretti a ritirarsi dalla barricata non appena i primi Romani riuscirono a scavalcarla e ad avanzare.
Rivolgendosi ai suoi uomini, Catone disse: «Basta così, ragazzi! Mettete giù quelle rocce prima di colpire i legionari».
I Traci, lieti di essersi presi la rivincita, posarono a malincuore le pietre e rimasero a guardare mentre la Prima Centuria creava un varco sufficientemente grande nella barricata da farci passare gli altri uomini, che si unirono così alla battaglia. Il risultato non era più in dubbio e, poco dopo, un corno degli indigeni suonò tre volte. I combattenti rimasti fuggirono repentinamente dai legionari e andarono a unirsi ai propri compagni, oltre la gola. Uno dei Druidi ancora in piedi indicò il lato della valle e i Deceangli cominciarono a risalire la china. Resosi conto della loro ritirata, Catone si precipitò alla rupe che dava sulla colonna romana e si portò una mano alla bocca.
«Mirone! Decurione Mirone!».
Gli uomini della retroguardia alzarono lo sguardo e fecero esplodere un boato alla vista del prefetto che aveva scalzato la posizione nemica. Catone individuò il legato con il suo seguito e poi trovò Mirone, vicino allo squadrone principale dei cavalieri traci.
«Mirone! Fa’ montare gli uomini e cominciate l’inseguimento! Prendeteli prima che possano scappare».
Se il decurione avesse inteso o meno l’ordine, non fu dato saperlo, ma poco dopo il prefetto tirò un sospiro di sollievo vedendo che Mirone stava salendo in sella per condurre i Corvi Sanguinari al trotto dentro la gola. Oltrepassarono la barricata e si aprirono a ventaglio da entrambi i lati con le lunghe spade in mano, pronti a falciare qualsiasi nemico trovassero. I guerrieri feriti che stavano lentamente tentando di mettersi in salvo furono i primi a essere trucidati senza pietà. Gli altri erano già saliti lungo il declivio e in quel momento Catone intuì perché i loro capi avevano scelto un terreno così arduo per battere in ritirata. L’inclinazione della vallata e i pendii sassosi rendevano l’inseguimento a cavallo impossibile e dovette rassegnarsi di fronte alla realtà che non sarebbero riusciti ad acciuffare i Deceangli in fuga. Era un’amara constatazione, ma perlomeno la strada per l’avanzata romana era stata spianata e la colonna poteva ora proseguire la propria marcia. O almeno avrebbe potuto, se fosse stato ancora giorno. Osservando l’altezza del sole, Catone capì che mancavano pochissime ore al tramonto. Quintato avrebbe presto ordinato all’esercito di fermarsi per costruire l’accampamento.
Il nemico aveva raggiunto il proprio scopo, pensò Catone, guardando la loro fuga. Era stata una tattica dilatoria da manuale. Avevano interrotto l’avanzata romana per mezza giornata, infliggendo un certo numero di perdite e, cosa più importante, avevano guadagnato del tempo prezioso per ultimare chissà quali piani di attacco. Rabbrividì al pensiero che i Druidi e i loro alleati Deceangli potessero tramare qualcosa e che Quintato stesse inconsapevolmente facendo il loro gioco. Poi sorrise amaramente a se stesso. Era normale che cercassero di frenare i Romani. Quelle erano le loro terre, la loro casa, e per i Druidi Mona rappresentava il terreno più sacro di tutti. Avrebbero corso qualsiasi rischio pur di tenerli alla larga. Ci sarebbero stati altri tentativi di rallentarli quanto bastava per far arrivare l’inverno e costringere così Quintato ad abbandonare le montagne. Sarebbe stata una campagna durissima e Catone lo sapeva. Ogni passo una sfida. Lo scontro brutale di quel pomeriggio non era stato altro che un assaggio di quello che li aspettava.
Il calore del sole pomeridiano stava sollevando del vapore dalle loro tuniche, come se stessero bruciando senza fiamma. Non appena se ne resero conto, i soldati cominciarono a deridersi l’un l’altro, giacché, dopo un’incursione disperata contro il nemico, gli uomini avrebbero approfittato con piacere di qualsiasi sciocchezza. Nonostante il suo umore nero, Catone li lasciò fare. I Corvi Sanguinari avevano dato prova ancora una volta del proprio valore e si meritavano quel breve momento di riposo.