capitolo nove
Catone se ne stava tutto ricurvo sulla sua sella nel tentativo di conservare quel poco calore che gli rimaneva nel corpo. La tunica e il mantello erano bagnati fradici e la pioggia gli picchiettava senza posa sull’elmo, quasi attutendo il continuo sibilo della precipitazione tutto intorno a lui. Alle sue spalle si estendeva lo squadrone a cavallo dei Corvi Sanguinari e dietro di loro si trovava la fanteria. Sia gli uomini sia i cavalli erano zuppi di pioggia ghiacciata e nevischio, che li avevano afflitti sin dal primo giorno di avanzata. Il sentiero sconnesso che avevano seguito per addentrarsi tra le colline era diventato una trappola fangosa non appena i primi cento uomini lo avevano pestato, smuovendone il fondo, e il convoglio con le scorte doveva essere costantemente aiutato dalle truppe di scorta per permettere alle ruote dei pesanti carri di girare. Invece delle diciotto miglia giornaliere previste, erano riusciti a raggiungerne poco meno della metà, da quando avevano abbandonato Mediolanum, logorando così gli uomini e rallentandoli sempre di più quando, ogni sera, arrivava il momento di montare il campo temporaneo.
Sebbene l’avanguardia si fosse risparmiata gran parte della fatica fisica richiesta dall’avanzare su terreni così tremendi, doveva comunque sopportare lo sforzo di esplorare i territori davanti a sé per assicurarsi che Quintato e i suoi uomini non incappassero in un’imboscata o patissero una di quelle moleste incursioni tanto care ai nemici, la loro tattica preferita per rallentare l’avanzata delle legioni romane. Per i primi cinque giorni gli avvistamenti dei guerrieri indigeni erano stati sporadici: gruppi lontani di cavalieri che dalla cima delle colline osservavano la colonna in difficoltà. Si giravano e sparivano non appena Catone mandava uno dei suoi squadroni in avanti. I cavalli leggeri e la conoscenza delle colline e delle foreste permettevano loro di sfuggire molto prima che i suoi riuscissero a stabilire un contatto.
Quel giorno, però, il nemico aveva deciso di opporre resistenza. La valle in cui l’esercito stava avanzando si era ristretta fino a raggiungere le dimensioni di una gola incastrata tra due rupi rocciose. Lì, avevano costruito una barricata primitiva di massi e un centinaio di guerrieri si era arroccato dietro le difese improvvisate. I perlustratori romani erano tornati per fare rapporto non appena avevano incontrato i membri della tribù e ora Catone teneva una mano sopra agli occhi per ripararsi dalla pioggia e cercare di carpire i dettagli della posizione nemica.
«Crispo e i suoi dovrebbero essere in grado di sbarazzarsene velocemente», commentò il decurione Mirone mentre anche lui passava in rassegna i guerrieri Deceangli. Si girò sulla sella e guardò alle proprie spalle. «Eccolo che arriva, signore».
Il centurione a capo dei legionari stava cercando di avanzare accanto alla colonna, ma il terreno imbevuto d’acqua gli risucchiava gli stivali pesanti, già di per sé appesantiti dal fango, e fu costretto a camminare, a tratti scivolando. La pioggia aveva infradiciato il cimiero del suo elmo e i rigidi crini di cavallo sembravano ora fronde di palme avvizzite, appuntite e ricurve. Si fermò poco lontano dalla pelle luccicante della cavalcatura di Catone e deglutì nel tentativo di controllare il fiatone.
«Mi hai fatto chiamare, signore?»
«Abbiamo compagnia». Il prefetto indicò la gola. Crispo strizzò gli occhi nell’oscurità finché non vide gli ostacoli che bloccavano la strada e al di là le file silenziose di guerrieri.
«Finalmente, cavolo. Volevo proprio sapere quando quei bastardi si sarebbero degnati di lottare, signore».
«È solo una tattica dilatoria, centurione. Stanno semplicemente cercando di rallentarci per far guadagnare tempo al grosso del loro esercito».
«Rallentarci?». Crispo rise mestamente, sollevando uno dei suoi stivali e producendo un suono di suzione. «Se rallentassimo ancora un po’, ci staremmo ritirando».
«Allora vediamo di non perdere tempo. Questo è un lavoro per la fanteria. La tua coorte ripulirà la gola. I miei ausiliari saranno una riserva. Li scacceremo non appena avrete penetrato le loro difese».
«Non dovremmo metterci troppo, signore».
Catone si rivolse a Mirone. «Manda un uomo al legato e digli che abbiamo stabilito un contatto con le forze nemiche e abbiamo dovuto fermarci. Poi fa’ spostare i tuoi soldati dal sentiero e falli passare avanti la fanteria».
«Sì signore». Mirone salutò e si chinò da un lato per passare l’ordine a uno dei suoi cavalieri. Si rimise dritto sulla sella e portò una mano alla bocca per essere sicuro che tutti lo sentissero nonostante il frastuono della pioggia. «Seconda Coorte Tracia… smontare! Formare una linea lungo il sentiero!».
I cavalieri affaticati smontarono e ricaddero a terra tra gli schizzi di fango prima di condurre i propri animali sulla striscia d’erba che fiancheggiava l’antico sentiero. Catone si soffermò un attimo ancora per osservare la posizione nemica, ma non ci furono movimenti. Sapeva che dovevano avere delle sentinelle sulle colline e che erano consapevoli della presenza romana già da prima che fossero arrivati nelle vicinanze della gola. I membri della tribù sembravano pronti a combattere e non poté non provare una fugace ammirazione per il loro stolido coraggio. Avevano affrontato i legionari una marea di volte ormai ed erano stati sempre sconfitti duramente, eppure non si erano ancora arresi. Continuavano a lottare. Era coraggio, si domandò Catone, o idiozia ostinata? Era più probabile che fosse il fanatismo suscitato dai Druidi. Ora che i Romani si erano messi in marcia contro i Deceangli, sarebbero presto arrivati a minacciare i sacri boschi druidici sull’isola di Mona. Se l’avessero fatto, li avrebbero motivati a combattere con rinnovata determinazione.
Catone smontò e passò le redini a Trasso. «Lega Annibale e portami il mio scudo».
Il suo servo lo guardò sorpreso. La pioggia scorreva in rigagnoli sulle fattezze scure. Non era però così ingenuo da interrogare il proprio superiore. «Sì signore. Prendo anche il mantello?».
Catone annuì e aprì la spilla smaltata che si era fissato sulla spalla. Era un regalo di Giulia e infatti la riagganciò con attenzione al di sotto del suo fazzoletto da collo, dove sarebbe stata al sicuro. Dopo aver dato il mantello a Trasso, raggiunse Crispo pochi passi più avanti, in testa alla colonna. La sua sensibilità all’acqua e al freddo si affievolì e cominciò a concentrarsi sul da farsi. La bocca della gola era a meno di quaranta passi da loro e le barricate superavano gli uomini in altezza. Avrebbero dovuto scalare i massi per arrivare ai difensori, un’impresa niente affatto facile con quelle armature pesanti addosso, rese ancora più ingombranti dall’acqua che era penetrata fino alla tunica.
«Sarà un lavoro caotico», disse a bassa voce.
Crispo fece spallucce. «Quando mai non lo è? E questa cazzo di pioggia non ci aiuterà di certo».
Un momento dopo, i due furono raggiunti da un’altra persona. Livonio si tolse il cappuccio del suo mantello in pelle di capra. Era stato trattato molto bene con del grasso per renderlo impermeabile, notò Catone con un pizzico d’invidia.
«Tu dovresti essere nelle retrovie dell’avanguardia, tribuno».
«Volevo solamente vedere perché ci eravamo fermati, signore. Ho sentito dire da un uomo di Mirone che ci sono i nemici. È la prima volta che ho l’occasione di vedere una delle tribù montane da vicino. Sono loro, quelli dietro le rocce?»
«Sono loro».
Livonio osservò con attenzione i guerrieri in lontananza e poi si voltò nuovamente verso i due ufficiali. «Qual è il tuo piano per sconfiggere il nemico, signore? Conti di aggirarli?»
«Non oggi, tribuno. Quelle rupi mi sembrano fin troppo a strapiombo. Ci metteremmo delle ore a farle scalare dagli uomini e perderemmo tutta la giornata. Oggi facciamo un attacco frontale. Crispo e la sua coorte li costringeranno a spostarsi in men che non si dica e poi mi lancerò al loro inseguimento con i miei ragazzi. Se avremo fortuna, riusciremo a fare qualche prigioniero».
«Capisco». Il tribuno rimase in silenzio per un attimo con la mano appoggiata sull’elsa d’avorio della sua spada. «E immagino che io non possa…».
«Tu rimarrai qui», lo interruppe Catone. «Avrai la tua occasione a tempo debito», aggiunse gentilmente.
«Signore, con tutto il dovuto rispetto, ho già avuto modo di dimostrare il mio valore sul campo di battaglia e sono stato mandato qui per imparare a essere un soldato».
«Ogni cosa a suo tempo. Per ora, i tuoi ordini sono di disegnare le mappe dell’esercito. È un compito importante e non possiamo permetterci di intralciarlo. A proposito, come sta andando?»
«Non è così semplice come speravo, signore. Con questa pioggia esaminare il terreno da entrambi i lati della linea seguita per avanzare è stato molto difficile. Così come lo è stato registrare con precisione la distanza che abbiamo percorso. Non c’è modo di mantenere un passo costante in queste condizioni e abbiamo dovuto segnare i numeri al meglio dei nostri calcoli».
«Non puoi farci nulla, tribuno. Prendila come una importante lezione militare. La prima vittima di una guerra sono sempre i piani».
«Niente di più vero», aggiunse Crispo.
La Prima Centuria di legionari si inerpicò lungo il sentiero e Crispo le ordinò di disporsi a un centinaio di passi davanti alla colonna. Le cinque unità rimanenti arrivarono di lì a poco, finché la coorte non fu disposta in due file da tre centurie. Gli ufficiali diedero l’ordine di rimuovere le coperture in pelle dagli scudi e le curve ampie e decorate delle loro linee diedero ai soldati infangati un aspetto più uniforme. I Traci si disposero alle loro spalle in un’unica fila con gli scudi ovali e le lance alla mano. Catone si voltò verso Trasso per prendere il proprio scudo e avviarsi verso gli uomini in attesa, con Crispo al suo fianco.
«Buona fortuna», gridò Livonio.
Crispo sogghignò. «La fortuna non c’entra niente. È tutta una questione di acciaio, fegato e anni di addestramento massacrante. Ma non lo capirà mai. Una volta finito il suo anno di servizio, tornerà a Roma a svolgere un lavoro facile facile come controllare le fogne o i mercati o qualche cazzata del genere».
Catone era più che abituato ai toni rancorosi che i centurioni serbavano per i giovani che entravano nell’esercito solo per compiere una delle tante tappe nella loro scalata al successo e chiese con fare beffardo: «Vorresti forse cedere i piaceri della vita da soldato per andare a ispezionare le fogne di Roma, centurione?»
«Neanche morto, signore».
«Allora vediamo di darci da fare».
Le loro strade si divisero quando arrivarono vicino ai soldati in attesa. Crispo si diresse alla destra della prima linea, dove la Prima Centuria della coorte era pronta all’azione. Dopo aver sollevato lo scudo e averlo fatto roteare in direzione del nemico, sguainò la spada e la agitò verso le nuvole cupe. La pioggia seguì il filo della lama, facendolo brillare leggermente.
«Quarta Coorte! In marcia! Avanzare!».
Le centurie erano disposte in linee da dieci uomini, quanto bastava per entrare nella bocca della gola rocciosa. Le otto file avrebbero dato tutto il peso necessario all’assalto. Se tutto fosse andato per il verso giusto, la seconda linea non avrebbe nemmeno dovuto combattere, ragionò Catone. Il centurione al comando delle tre rimanenti centurie, prima di dare ordine ai suoi uomini di muoversi, attese che si aprisse il giusto spazio tra le due unità. Il prefetto, invece, attese più a lungo e poi gridò ai Traci di avanzare. L’erba sotto i suoi piedi era zuppa e il terreno morbido e cedevole. Quando gli ausiliari cominciarono a seguire i passi della fanteria pesante, il suolo divenne presto un ammasso informe di fango scivoloso.
Mentre si avvicinavano al nemico, che nel frattempo era rimasto immobile e in silenzio, un enorme ruggito scaturì dalla gola dei Deceangli e le loro armi si sollevarono in aria, agitandosi contro il muro di scudi in movimento. La pioggia, pensò Catone, forniva almeno una benedizione. Era troppo bagnato per poter usare gli arcieri e lo spazio angusto in cui si sarebbe tenuta l’imminente schermaglia non avrebbe facilitato l’utilizzo delle fionde. Sarebbe stata una battaglia diretta, quindi, tra la disciplina ferrea delle legioni e il coraggio fanatico dei guerrieri indigeni. Non c’era dubbio su chi avrebbe prevalso.
L’aria si riempì del rumore di stivali nella fanghiglia e dei pesanti grugniti degli uomini stanchi che, mentre si avvicinavano alla barricata, si impegnavano per mantenere la formazione. Tra le teste dritte davanti a sé, Catone riuscì a intravedere al di là dei massi i volti dei guerrieri con le loro bocche aperte in un ruggito di sfida. All’improvviso un movimento turbinante solcò le plumbee gocce di pioggia e Crispo gridò un avvertimento.
«Su gli scudi!».
I ranghi anteriori della coorte sollevarono i loro scudi e li indirizzarono verso l’alto per deviare i proiettili in arrivo. Giavellotti. Anche Catone fu in grado di vederli, adesso che scendevano sui legionari. Colpirono il loro bersaglio con un coro diseguale di clangori e tonfi. Quando il frastuono della prima raffica si fu spento, uno degli uomini di Crispo ululò: «Avrete quello che vi meritate, stronzi Britanni!».
«Chiudi quella bocca!», esplose Crispo. «Silenzio in quei cazzo di ranghi!».
Gli uomini proseguirono il loro attacco, seguendo l’avvertimento del loro centurione, e Catone provò un brivido lungo tutto il corpo davanti a un tale spettacolo. Non c’era niente di più impressionante e spaventoso di quel gruppo di soldati ben addestrati che avanzava senza fiatare in file ordinate all’ombra dei loro stendardi zuppi. A quanto pareva, anche i nemici la pensarono così e le loro grida cominciarono ad affievolirsi. I volti si fecero severi, proprio come quelli dei loro avversari romani. Un’altra raffica caotica di giavellotti fu lanciata sulle loro teste, insieme a pietre abbastanza piccole da essere scagliate oltre la barricata. Da entrambi i lati, le rupi si stagliavano scure e minacciose e il suono della pioggia e delle grida dei difensori riecheggiavano con forza tra le rocce.
«Serrate i ranghi!», ordinò Crispo. «Serrate i ranghi!».
I suoi uomini erano a meno di dieci passi dalla base della barricata e l’ufficiale al comando della seconda unità li fece fermare. Catone sollevò un braccio.
«Corvi Sanguinari! Fermi!».
Gli ausiliari smisero di muoversi, fermandosi a venti passi dagli ultimi legionari. Il terreno presentava una leggera salita che permise al prefetto di avere una visione chiara della gola. Dopo essersi liberato della pioggia che gli colava sugli occhi dall’orlo dell’elmo, vide che le prime file di legionari avevano iniziato ad arrampicarsi sulla barricata tenendo gli scudi sopra le loro teste. Le lunghe spade degli indigeni fendevano le superfici curve degli scudi. Alcuni di loro avevano delle asce e i loro colpi andavano a segno con tonfi di legno frantumato che giungevano chiaramente alle orecchie di Catone, il quale non aveva smesso di osservare la scena. La maggior parte degli uomini di Crispo riusciva a malapena a muoversi sotto l’intensità di quella pioggia di lame, ma qua e là alcuni legionari erano riusciti ad arrivare abbastanza in alto da poter rispondere ai colpi, e la battaglia ora infuriava per tutta la lunghezza della barricata.
«Spingete! Spingete!», gridava il centurione con voce roca, e la sua impavida grinta per sconfiggere il nemico a Catone ricordò Macrone. «Continuate a spingere, ragazzi!».
Un numero sempre maggiore di legionari riuscì ad aprirsi la strada verso l’alto e a unirsi ai commilitoni che si battevano disperatamente nella pioggia. Le spade baluginavano tra colpi selvaggi e gli uomini cercavano di colpirsi con i propri scudi. Alcuni guerrieri Deceangli afferrarono le difese dei legionari e cercarono di spostarle da un lato per permettere ai loro compagni di affondare un colpo. Dietro la linea d’attacco, i ranghi di rincalzo delle prime tre coorti erano densamente ammassati, vista la forma a imbuto della gola. Per il momento, l’attacco era in una fase di stallo mentre i due lati si battevano per il controllo della cima della barricata.
Un corno risuonò oltre i guerrieri nemici, lanciando una nota ragliante che riecheggiò sulle due rupi. Non appena sentirono quel suono, i nemici esultarono di nuovo con voci orribilmente amplificate. Un qualcosa di oscuro precipitò dalla cima della gola e il movimento catturò lo sguardo del prefetto. Sollevò la testa e vide chiaramente il primo di una serie di grandi massi che superava la sporgenza e roteava su se stesso fino a sfracellarsi tra i legionari ammassati davanti alla barricata. Ne seguirono altri e Catone vide diversi uomini stagliarsi contro il cielo grigio. Erano intenti a raccogliere altre rocce e a scagliarle verso il basso. I legionari cominciarono ad alzare lo sguardo e a rendersi conto del pericolo, ma erano così ammassati che la fuga era impossibile.
Il prefetto si precipitò verso di loro facendosi strada tra i ranghi della seconda unità e sbraitò: «Ripiegare! Ripiegare!».
Gli ultimi uomini a essere entrati nella gola si guardarono intorno e cominciarono ad allontanarsi, diminuendo la pressione su chi li precedeva mentre le rocce continuavano a cadere, gettando i legionari al suolo, sfondando crani e frantumando ossa. Davanti a loro, Crispo continuava a incitare i suoi uomini, all’oscuro di quello che stava succedendo alle sue spalle.
«Ripiegare!», continuò a urlare Catone, infuriato con se stesso per aver permesso ai suoi uomini di cadere in quella trappola. «Ripiegate!».
Altri soldati si unirono alle sue grida e i legionari si ritirarono uno a uno verso la seconda fila, assottigliando i ranghi e permettendo ai propri compagni di sfuggire al pericolo dall’alto.
Catone non si lasciò trascinare via dalla ressa di uomini e gridò ancora una volta: «Centurione Crispo!».
Finalmente l’ufficiale percepì che qualcosa non andava. Dopo aver affondato lo scudo sul muso di uno dei nemici, si guardò rapidamente alle spalle e vide per la prima volta la quantità di uomini maciullati dalle rocce. Intuì immediatamente il pericolo e si rivolse ai suoi legionari che ancora combattevano sulla barricata.
«Ripiegare!».
Uno alla volta i soldati abbandonarono la battaglia e tornarono verso il basso. Sebbene fossero lontani dal pericolo dei guerrieri nemici, dovevano ancora affrontare la pioggia di pietre. Il prefetto vide cadere altri tre uomini mentre Crispo gli faceva segno di allontanarsi dai massi. Solo quando l’ultimo dei suoi si fu allontanato abbastanza dalle rupi, mettendosi così in salvo, il centurione cominciò la sua ritirata, sempre con un occhio rivolto verso il nemico. Fu per questo motivo che non notò la roccia che stava precipitando tra la pioggia. Catone la vide troppo tardi per dirgli di stare attento e Crispo finì in ginocchio a causa del colpo che rimbalzò sul lato del suo elmo prima di sfondargli spalla e petto. Barcollò un momento prima che lo scudo e la spada gli scivolassero dalle mani, per poi finire faccia a terra.