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Il bambino era fra le sue braccia.

Nudo, privo di sensi, ma ancora vivo. Respirava a fatica e Daria temeva che le morisse fra le mani da un momento all’altro. Avrebbe voluto coprirlo, proteggerlo, ma non riusciva a muoversi. Il filo di ferro la costringeva nella posizione che il suo carnefice aveva disegnato per lei. Guardava quell’anima innocente senza riuscire ad arginare le lacrime che scorrevano in un pianto perpetuo e silenzioso.

L’uomo aveva sistemato il grande mantello di velluto per fare in modo che ogni particolare di quella grottesca opera tridimensionale corrispondesse al dipinto. Poi si era allontanato per contemplare il suo lavoro.

«Perfetta» disse compiaciuto. «È davvero un’opera perfetta.»

«Per favore» disse Daria con un filo di voce. «Non fare del male al bambino. È innocente, non fargli questo.»

«Sei commovente» rispose. Si era accovacciato a terra e iniziò a riempire un borsone di tela con un trapano e altri attrezzi da lavoro sparsi sul pavimento. «Ci conosciamo bene io e Sandrino, sai? Abitiamo porta a porta nello stesso condominio, abbiamo giocato spesso insieme. La sua mamma, Luciana, si fida di me a tal punto che mi ha lasciato una copia delle chiavi di casa. Vorrebbe che mi mettessi con lei. E pensa che ha dieci anni più di me! Io le faccio credere di essere interessato, qualche volta me la sono anche scopata, le ho raccontato una storia triste su una fidanzata di Pisa, gravemente malata… Luciana ci ha goduto a credere di farmi tradire questa tizia che non esiste. Magari pensa di vendicarsi del destino che l’ha resa cornuta e abbandonata, con un figlio a carico. E invece fa tutto parte del mio piano. Un piccolo tassello nel disegno finale. È stato facile entrare di notte a casa sua e narcotizzarla nel sonno. Lo stesso con Sandrino. Forse con lui ho un po’ esagerato. Dorme da ieri notte e non s’è più svegliato, ma in fondo è meglio così. Si fosse messo a frignare, diobòno, mi toccava ammazzarlo subito. E col rigor mortis sai quanto avrei faticato a sistemartelo in braccio per benino?»

Daria chiuse gli occhi. Doveva farlo parlare, prendere tempo. Non sarebbe riuscita a impietosirlo, ma se qualcuno li stava cercando, anche pochi minuti avrebbero potuto fare la differenza. «Perché tutto questo? Perché queste morti?»

L’uomo scoppiò a ridere. Una risata fragorosa, profonda. Indossava jeans e sneakers neri e un giubbotto di pelle scuro. «Ma te davvero pensi che ci sia un motivo? Uno che tu possa capire? Diobòno, se sei patetica… Però una cosa te la posso dire, via! Se ho pensato a te è stato per quel tuo innamorato, quel capitano dei Carabinieri. Vedi, da quando è arrivato, da quando ha messo piede in paese… non lo so, è come se avesse tracciato una linea per dire: “Io sono un grande investigatore e voi siete paesani ignoranti. Questo caso lo risolvo con la mano sinistra e una benda sull’occhio”. Maremma impestata, che gusto dimostrargli il contrario. Certo, se ne troverà presto un’altra da scopare, non ci piangerà sopra più di tanto, ma sono sicuro che quando ti vedrà morta gli roderà il culo a Mauro Rambaldi.»

Due colpi sordi risuonarono nella penombra della chiesa facendo trasalire Marcellini. Si mosse con rapidità. Estrasse dalla borsa di tela un grosso taglierino per moquette e fu subito accanto alla tavola sulla quale Daria e il bambino impersonavano la versione vivente dell’opera del Beato Angelico.

«Sono Albis. Sono da solo. Se c’è qualcuno sto entrando con le mani alzate.»

L’assassino si era accovacciato accanto a Daria, stringendosi a lei al punto da soffocarla. La lama premuta sul collo della ragazza le aveva già causato una ferita superficiale dalla quale iniziò a scorrere un sottile rivolo di sangue. Era indeciso se reciderle subito l’arteria. Lo tratteneva il dispiacere di imbrattare di sangue la sua opera d’arte. Sarebbero dovuti morire per asfissia, lei e il bambino. Era lui che doveva premergli una benda sulla faccia con una quantità di cloroformio sufficiente a non farli svegliare più. Col taglierino puntato alla gola di Daria e i loro corpi così vicini, si sentiva al sicuro.

«Entra. E richiudi. Se fai una cazzata muoiono tutti e due.»

La porta della chiesa si aprì lentamente. Angelo Crespi si muoveva piano, tenendo una mano alzata. Richiuso il portone alzò anche l’altra e rimase così, fermo nella penombra.

«Metti la sbarra alla porta, poi avvicinati» gli urlò Marcellini. «Vieni fino alla luce ma tieni le mani alzate.»

Crespi eseguì l’ordine, bloccando il portone. Poi avanzò piano fino alla luce delle due lampade a gas che diffondevano un lieve ronzio nel silenzio lugubre della chiesa.

«Immagino che il tuo amichetto abbia già fatto circondare questo posto… Ma è troppo tardi, perché loro due stanno per morire.»

«Il capitano Rambaldi sta cercando di tenere a bada il giudice di Pisa. Sono qui da solo. Se così non fosse li avresti sentiti arrivare.»

«Pensi di fregarmi con codesti trucchetti, vecchio? Invece hai fatto il mio gioco… Li vedrai morire e forse riuscirò ad ammazzare anche te, prima che i tuoi amici in divisa facciano irruzione.»

«Non ci sarà nessuna irruzione. Sono qui perché ho seguito una mia sensazione ma non ho coinvolto i Carabinieri dato che non avevo nessuna prova. La scomparsa della donna e del bambino mi ha fatto pensare a una nuova… opera d’arte. E mi è venuto in mente questo posto. Sono vecchio e disarmato. Stasera aggiungerai un terzo cadavere all’elenco.»

«Perché sei qui?» Il viso parve contrarsi nell’incavo del collo di Daria come quello di una belva pronta a cibarsi.

«Per capire. Perché Gino Palombini? È un messaggio per me, una questione personale… Che cosa ti ho fatto, ragazzo? Cos’è che ci unisce?»

«Cosa ci unisce?» rispose Marcellini. Aveva uno sguardo feroce e sorrideva. Daria aveva chiuso gli occhi. La speranza che l’arrivo di quell’uomo aveva destato in lei, lottava con la certezza che stesse per morire. La lama premeva sul collo e la mano dell’uomo tremava.

«Vuoi saperlo? Vuoi che ti dia questa soddisfazione, lo capisco. Risolvere i misteri, trovare le risposte, per te è sempre stata questa la priorità. È così che ti ho rintracciato, caro il mio Cacciatore di anime. Ho studiato i file, gli articoli, i filmati. Una ricerca durata anni. E alla fine ho scovato la registrazione di quella trasmissione televisiva. Risaliva a pochi mesi prima che scoppiasse il caso della Bestia della Val Seriana. Parlavate della morte di uno scrittore caduto dal campanile, quella storia di venticinque anni fa. L’ho capito subito, dal tuo sguardo, dall’aria di superiorità che avevi, mentre ascoltavi quel presentatore che parlava di suicidio. Non te la sei bevuta… Nemmeno la storia dell’incidente ti ha mai convinto. Era un piccolo fastidio quel caso per te, vero? Aveva un che di irrisolto… ma nella tua vita non c’è spazio per i casi irrisolti. Così, cinque anni fa ho pensato di venire a fare un salto e ti ho trovato seduto al bar della piazza, a bere un caffè. Sai cosa stavi facendo? Fissavi quel campanile. Mi è bastato un video su YouTube per scoprire il tuo grande segreto, la tana del cacciatore di serial killer.»

«Non hai risposto alla domanda. Perché io? Vuoi dimostrare di essere più intelligente di me? Vuoi provare al mondo di essere il migliore, battendo il migliore? Non c’è onore ad accanirsi contro un vecchio. E io non sono più Angelo Crespi, il cacciatore di serial killer. Sono Valerio Albis, un anziano che si è ritirato dopo aver visto morire sua moglie e sua figlia. Cosa vuoi dimostrare prendendotela con me?»

«Io non devo dimostrare niente… io so di essere migliore di te. Scomparire è stato facile, vero? Così la tua fama è rimasta immutata. Ma grazie a me tutto il mondo saprà che ti sei rintanato in questo posto come un topo di fogna, e che non hai fatto niente per evitare che venissero commessi questi omicidi sotto al tuo naso. Prima di uccidere te, ucciderò il tuo mito, signor Angelo Crespi.»

«Continui a eludere la mia domanda. Non posso pensare che tu mi abbia scelto a caso.»

«Vuoi sapere perché proprio tu? Per rimettere le cose in pari. Perché tu hai ucciso mio padre e hai segnato la mia vita per sempre.»

«Tuo padre? Ma io…»

«Luigi Garrani. Era mio padre.»

«Tu… tu sei il bambino.»

«Proprio così, il bambino trovato vivo dal vicino che sentì la puzza di gas e fece irruzione nell’appartamento, scongiurando l’esplosione che avrebbe raso al suolo la palazzina.»

«Io sapevo… credevo che ti avessero dato in adozione e che tu… che non sapessi di…»

«Che non conoscessi il nome del mio vero padre. Ma vedi, vecchio, c’è un particolare che è sfuggito a te e a tutti gli altri… Mia madre, la mia vera madre, che aveva deciso di portarmi con sé all’inferno, aveva lasciato un diario. E quel diario non fu scoperto dagli investigatori, finì insieme a quaderni di disegni, giochi e altra roba. Al tempo del suicidio di mia madre, quando la nostra casa fu svuotata, non sapevano ancora che lei fosse collegata a Luigi Garrani. Così il diario rimase nelle mani dei miei genitori adottivi per più di dieci anni. Pensa, quei due idioti progettavano di venderlo e ricavarci un sacco di soldi. Allo scopo di farmi studiare, di darmi un futuro… Poi accadde che lo scoprii e lo lessi. Avevo solo quindici anni, ma da quelle pagine capii tutto. Capii perché i miei pensieri sono sempre stati diversi da quelli delle altre persone. Capii perché la morte e la vita non hanno significato… perché la sofferenza degli altri non mi ha mai turbato. E perché tutto il mondo mi appare nella sua orribile essenza di totale e incontrollabile follia. Una cacofonia senza senso, un caos doloroso che necessita di grande disciplina, rigore, assenza di sentimenti, per poter essere governato. Distrussi il diario e… feci in modo che i miei genitori non potessero parlarne con nessuno. L’incendio della casa nel quale persero la vita fu davvero un tragico incidente… Ma i soldi dell’assicurazione mi garantirono la possibilità di studiare e concentrarmi sul progetto del mio vero padre. Solo un uomo eccezionale come lui poteva concepirlo… Ecco, io sono mio padre. Sono come lui. Nel diario, nelle pieghe di quel suo racconto, ho capito. L’ho interpretato alla luce degli altri resoconti. Dei libri, degli articoli che narrano le imprese della Bestia della Val Seriana. Che nomignolo stupido e infamante… indegno della sua grandezza. Io solo l’ho compreso, l’ho visto nella sua complessità. La sua ricerca di una esistenza ordinata e rigorosa, progettata per lui, me e mia madre… il suo studio sui limiti della sopportazione del dolore… la sua lucida e misericordiosa ricerca sulla morte e la vita. Sull’attimo che precede l’una e che conclude l’altra. Il suo lascito intellettuale è in quelle pagine, che mi hanno mostrato la mia vera essenza, la mia strada. Mi hanno fatto capire qual è il mio destino. Proseguire e concludere la sua opera.»

«Quindi vuoi vendicarti di me, perché l’ho ucciso. Ma sai che lui aveva ucciso mia figlia.»

«Io sto ristabilendo l’ordine naturale delle cose. Le stagioni del dolore hanno un’alternanza naturale, che deve essere rispettata. Tu hai scontato la tua. Io ho vissuto la mia per una vita intera. Ora tocca di nuovo a te. E l’unico modo di interrompere questo ciclo è la tua morte.»

«Ma perché non prendertela solo con me? Che c’entrano gli altri? Le persone che hai ucciso?»

«Uccidere te non bastava… Avrei potuto farlo anni fa, quando ho scoperto che ti eri rifugiato a Peccioli. Invece ho voluto costruire la mia vendetta in modo da dimostrare che non sei nessuno. Una serie di omicidi sotto ai tuoi occhi in un piccolo paese… E tu a vagare nel buio, insieme agli altri sbirri. Poi la morte del tuo unico amico. E infine tu, ma solo dopo averti reso consapevole di aver fallito per l’ennesima volta.»

«Hai commesso un errore» esclamò Crespi. «Il tablet. Quella donna, Giuditta Natale… lo aveva sottratto lei alla prima vittima. Perché lo ha fatto? Era tua complice? Si è ribellata?»

Marcellini accusò il colpo. Ma riacquistò subito il suo feroce sorriso. «Giuditta? Un piccolo inconveniente. Ha rubato quel tablet a Roberta senza un vero motivo, forse per una intuizione. Doveva riportarmelo, la notte che l’ho uccisa. Probabile che nemmeno lo abbia fatto apposta a confonderlo col suo, quella cretina. No, ti sbagli, lei era completamente succube. Me l’ero lavorata a dovere. Da quando, cinque anni fa, appena laureato, mi sono trasferito qui ho iniziato a pianificare tutto nei minimi particolari. L’ho scelta con cura, la più debole e disponibile… Lei mi ha assicurato i contatti che mi servivano con la Fondazione, mi ha rivelato tutti i segreti di questo paese. Poi ho adocchiato Roberta, la vittima perfetta. Ho impiegato giusto qualche settimana a sedurla. Un po’ di messaggi romantici e c’è cascata in pieno. Sono riuscito a organizzare un incontro con lei, al museo, nella massima segretezza. Così ho potuto lavorare indisturbato alla mia prima installazione. Erano solo due schiave soggiogate al mio volere, due pedine ignare nella architettura del mio piano.»

«Però Giuditta Natale ti ha fregato. E ora il tablet di Roberta Savio è nelle mani di Rambaldi.»

«No!» urlò Rodolfo Marcellini. «Non l’ha fatto di proposito! Lei deve averli confusi, deve… ma non ha nessuna importanza. Questo piccolo inconveniente ha solo accelerato le cose. Il mio piano si compirà lo stesso, esattamente come lo avevo programmato.»

«E le foto degli spacciatori? Sei stato tu a metterle sul pc della Savio?»

«Sì, quello è stato il classico colpo di fortuna. Durante i sopralluoghi qui, ho notato quei buffoni che spacciavano. Li ho fotografati di nascosto e ho usato quelle immagini per confondere un po’ le acque, per depistarvi. È stata una buona idea a quanto pare. Vi ho avuto in pugno dall’inizio.»

«E Serse Barani? Perché lui?»

«Perché era un nome di richiamo qui in paese. Un cornuto consapevole… Avevo saputo da Giuditta della tresca di sua moglie col sindaco. Un cadavere eccellente, ottimo per il mio piano. Poi viveva in quella villa enorme senza sistemi di allarme. Ho potuto lavorare su di lui con la massima tranquillità. È stato faticoso sotterrarlo all’anfiteatro, ma l’ho fatto perché sapevo che quello è un luogo che frequenti di prima mattina. Era divertente che fossi proprio tu a scoprire il corpo… anche se poi hai inventato quella storia col tuo amico, Palombini. Anche lui ha avuto quello che meritava. Dissanguato nella vasca da bagno dentro al suo tugurio di casa.»

«È vivo. L’ho trovato in tempo e l’ho salvato.»

Rodolfo Marcellini cambiò espressione. «Davvero? Bene, grazie per avermi avvertito… completerò l’opera allora. Peccato che tu non potrai assistere, perché non uscirai vivo da questa chiesa.»

«Sai un cosa, ragazzo?» disse Angelo Crespi «Sei più folle di tuo padre… Il tuo piano non mi interessa, i tuoi vaneggiamenti mi lasciano indifferente. E adesso me ne andrò per la mia strada.»

Si voltò, dandogli le spalle.

Marcellini non credeva ai suoi occhi. Era una mossa senza senso. Si alzò d’istinto puntando il braccio che brandiva il taglierino, verso il vecchio ex poliziotto. «Fermo!»

L’esplosione rimbombò nella navata e Mauro Rambaldi rischiò di volare di sotto.

Aveva fatto fuoco col fucile di precisione Accuracy International AW. Una sola possibilità, un solo proiettile calibro 7,62 nel momento esatto in cui la mano con il taglierino si era staccata dal collo di Daria. Non era un colpo facile, data la luce scarsa e la posizione instabile in cui si trovava. Mentre Angelo Crespi parlava con Marcellini, il capitano, fucile in spalla, aveva scalato l’impalcatura esterna di tubi innocenti, con una lentezza esasperante, per evitare ogni rumore che potesse mettere in allarme l’assassino. Contava sul fatto che parlare con la sua nemesi lo distraesse. Lui, intanto, aveva raggiunto la finestra semicircolare in alto, alla destra dell’ingresso. Era un punto rimasto completamente in ombra. I vetri dovevano essere sostituiti. Attraverso quello spazio vuoto, si era messo in posizione di tiro, ancorandosi in modo precario, con le gambe, all’impalcatura metallica.

Il proiettile trapassò la tempia sinistra di Marcellini fuoriuscendo dal lato opposto, nella parte bassa della mandibola.

L’assassino ruotò su se stesso e cadde per terra con le braccia larghe.

Uno schizzo di sangue imbrattò Daria e il bambino e lei riaprì gli occhi. Angelo Crespi le corse incontro e una voce dall’alto urlò il suo nome. Era la voce di Mauro. Con la coda dell’occhio, Daria riuscì a vedere anche il corpo di Marcellini sul pavimento a quadri, prima di cedere e cadere svenuta.