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L’area era illuminata da due torri-faro telescopiche con lampade allo iodio da 4000 watt, arrivate da Pisa. Tre agenti del nucleo rilievi scientifici, con le attrezzature nelle ingombranti valigie di alluminio, attendevano che le operazioni di recupero fossero completate per esaminare l’auto e il suo contenuto. Con le tute bianche, le mascherine e i copriscarpe, sembravano spettri che osservano il mondo dei vivi con malinconia. Erano invece solo tre uomini depressi per il lavoro straordinario imposto dal loro ufficiale comandante.

Nella zona si era radunata una piccola folla di persone del posto tra cui Rodolfo Marcellini che si affannava per superare il cordone di sicurezza protetto dagli agenti Surricchio e Varricchio.

«Capitano! Capitano Rambaldi!» urlava il giovane reporter agitando le braccia. «Di chi è la macchina che state recuperando? C’entra qualcosa con i delitti di Peccioli? Capitano, do ut des, diobòno!»

Il sindaco di Peccioli era avvolto nel suo elegante impermeabile e se ne stava in disparte, serio e imbronciato. Era in attesa di aggiornamenti dall’ufficiale che, però, non lo degnava di attenzione. Il brigadiere Corda aveva agganciato il cavo del carro attrezzi al semiasse posteriore della Clio e ora, immerso fino allo stomaco nell’acqua stagnante del laghetto di irrigazione, attendeva che si completasse l’operazione di recupero. Indossava la tuta da sommozzatore ma senza la maschera e le bombole che si era tolto non appena riemerso. Attese il cenno d’assenso del capitano e mostrò il pollice in alto a Luciano Serraiocco, dell’omonima autofficina, per fargli azionare il motore e riavvolgere il cavo che avrebbe estratto l’auto dall’acqua. C’era la possibilità che la Clio fosse sprofondata nel fondo limaccioso del laghetto. In quel caso, per l’effetto ventosa, sarebbe stato difficile recuperarla, a meno di non impiegare una gru molto più potente. Il verricello iniziò a riavvolgere il cavo, che si tese sollevandosi lentamente. Corda, dotato di guanti da sommozzatore, lo afferrò con entrambe le mani come se avesse voluto estrarre l’auto a forza di braccia.

«Corda, esci di lì» gli disse Rambaldi. «Se il cavo si spezza ti prende in pieno. Non mi servono a niente due mezzi brigadieri, preferisco averne uno intero.»

Il sottufficiale sorrise e fu anticipato nella risposta dal tipo ossuto sulla quarantina – gli occhi sporgenti alla Marty Feldman e la salopette d’ordinanza, chiazzata di olio motore – che sopraintendeva alle operazioni in piedi sul pianale del carro’ attrezzi. «’Un si preoccupi dottore, ’un si spezza! È acciaio al titanio… piuttosto fonde il motore, o trascina me in acqua con tutto il carro… ma spezzare ’un si spezza di sicuro.»

«Sarà…» disse Rambaldi per nulla convinto.

Dopo una breve esitazione durante la quale il verricello sembrò perdere colpi, il cavo iniziò a scorrere, anche se molto lentamente. Pochi minuti e il paraurti posteriore della macchina riemerse dal fondo. Quando anche la targa fu visibile, Rambaldi constatò che si trattava dell’auto di Giuditta Natale.

Fu allora che Corda lo vide e cambiò colore in viso.

Scomposto sui sedili anteriori c’era il cadavere della donna.

Scosse il capo e fece un gesto di assenso a Rambaldi.

Il capitano si rivolse a un agente del nucleo radiomobile. Era di una delle pattuglie dislocate a Peccioli, arrivata a dare manforte al team del maresciallo Santamaria. «Fate allontanare tutti per un raggio di almeno cinquanta metri. Qui ci voglio solo la Scientifica.»

«Mi dispiace» disse Agnese Sinibaldi. «Non so dove altro cercare. Probabilmente sono dati che Sergio tiene nel computer ma la sua password non la conosco. E al telefono non mi risponde, è in viaggio per il Canada.»

La donna era negli uffici della Fondazione dove, per più di un’ora, aveva rovistato tra schedari, scaffali e cassetti, alla ricerca di una lista che potesse rivelare di chi fosse il tablet ritrovato a casa di Giuditta Natale. Il maresciallo Santamaria l’aveva aiutata a spulciare nella montagna di documenti amministrativi che per lo più riguardavano contratti, fatture, corrispondenza relativa agli eventi organizzati a Peccioli.

«Non fa niente» disse Santamaria. «Ormai il tablet ce l’ha il maggiore Tosti. Se riesce ad aggirare la password sapremo se era quello di Giuditta Natale o quello di Roberta Savio.»

«Sono un disastro. Non vi sono stata utile, ho fatto la donnetta isterica. Voi state facendo il vostro mestiere.»

«Non ti devi preoccupare. Siamo tutti nervosi, nessuno si aspettava di vivere un incubo del genere.»

«Dirigo questo posto da tanti anni, ma è come se fossi un’estranea qui dentro. Non so nemmeno come vengono archiviati i dati e da chi… Sono inutile.»

«Sei una donna splendida. Sei l’anima della Fondazione, e sai perfettamente che senza di te non accadrebbero le cose meravigliose che accadono in questo paese.»

Santamaria aveva parlato d’istinto, spinto da un sentimento che si sforzava di reprimere da tempo. Agnese lo osservò, stupita, con una luce diversa nello sguardo. Si avvicinarono, Santamaria, in preda a un’emozione che lo sopraffaceva, posò le mani, con delicatezza, sulle braccia di lei e si chinò leggermente con l’intenzione di baciarla. Agnese non si oppose, socchiuse gli occhi.

Fu nello stesso momento in cui le loro labbra si sfiorarono che il telefono del maresciallo iniziò a squillare. Si staccarono indietreggiando entrambi di un passo, come se una sveglia li avesse destati da quella tempesta di emozioni simile a un sogno a occhi aperti. Era stato tutto troppo bello per essere reale. «Pronto? Sì… sì capitano… Maledizione… Va bene. Sissignore, sto arrivando. Cosa? Ah, no… No, nulla di fatto, abbiamo esaminato centinaia di documenti ma nulla sui tablet. Va bene, ci vediamo lì tra pochi minuti.» Santamaria chiuse la telefonata e guardò Agnese che di colpo sembrava spaventata. Si stringeva le spalle con le mani, come per ripararsi da una corrente d’aria fredda, in attesa di una brutta notizia che non tardò ad arrivare. «L’hanno trovata. È l’auto di Giuditta Natale. E dentro c’è il suo corpo.»