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Daria restò a casa tutta la mattina. Era di pessimo umore, continuava a ripensare a ciò che Agnese le aveva detto il giorno prima: “Il tuo comportamento è stato tutt’altro che professionale. Mi hai delusa”. Quelle parole le bruciavano dentro, perché sapeva che contenevano un fondo di verità.
La sua vita era stata un susseguirsi di esperienze d’amore fallimentari. Era figlia unica, orfana di padre sin dall’infanzia. Sua madre, una donna buona ma ingenua, aveva tentato più volte di rifarsi una vita, con nuovi compagni, ma non era stata fortunata né accorta.
Spesso, si era gettata con troppa disinvoltura fra le braccia di uomini cui aveva anche aperto le porte della sua casa. Uomini che l’avevano sfruttata per poi abbandonarla.
Per Daria quelle convivenze forzate erano state deleterie. Aveva covato sin da piccola la smania di liberarsi da un ambiente familiare infelice, si era impegnata negli studi con una dedizione assoluta, considerandoli l’unica possibile via di fuga per prendere il volo appena raggiunta la maggiore età, senza guardarsi indietro.
Ma con gli uomini aveva avuto la stessa sfortuna di sua madre.
Oggi, superati i trent’anni, si riteneva una donna libera, proclamava questa indipendenza anche nel modo di vivere i rapporti con l’altro sesso, ma in realtà sognava un compagno che la amasse profondamente e, soprattutto, la rispettasse. Scontava l’assenza di quella figura paterna a cui aveva dovuto rinunciare troppo presto.
Anche stavolta, con Mauro, sentiva di aver sbagliato. Si era gettata fra le sue braccia senza esitare, senza riflettere sul rapporto professionale che li legava. E si sentiva vulnerabile perché lui le mancava da morire. Avrebbe voluto stringerlo, abbandonarsi a quel sentimento che la rendeva prevedibile, scontata. La infastidiva sentirsi così fragile, non era quella l’immagine di sé che avrebbe voluto guardare allo specchio. Ma era quella vera.
Aveva perseguito l’indipendenza economica e sentimentale da sempre, aveva combattuto per ottenerle, e ora che iniziava a tracciare i primi bilanci, le sembrava di dover gettare alle ortiche gli sforzi di una vita intera. Si sedette sul bordo del letto, mentre i suoi gatti, un Bengala tigrato e un Persiano dal pelo grigio, la osservavano immobili. Non poteva andare avanti per molto. Meglio chiarire la situazione con lui, mettere sul piatto i suoi sentimenti. E se Mauro si fosse tirato indietro? Pazienza, si disse. Anzi, meglio così. Mi leccherò le ferite come ho fatto altre volte, una bella sbronza di tequila e via. Ho la pelle dura io! Ogni volta che cado mi rialzo più forte di prima. Ma stavolta faceva fatica a crederci davvero.
Aveva addosso una maxi T-shirt che utilizzava come pigiama, era arrivato il momento di vestirsi. Pensò a qualcosa che la rendesse desiderabile agli occhi di lui e le desse un piccolo vantaggio nella partita che si apprestava a giocare.
No, era l’approccio sbagliato.
Jeans, felpa e giacca di pelle. Non voleva farne una questione di attrazione, era di altro che avrebbero dovuto parlare. Anche se in fondo, l’attrazione fisica c’entrava sempre. Aveva un peso indiscutibile nel groviglio di sensazioni solitamente bollate col termine “amore”. E se Daria avesse dovuto descrivere ciò che provava in quel momento, non avrebbe esitato ad ammettere che si era innamorata di Mauro Rambaldi.
La perquisizione dell’appartamento di Giuditta Natale non aveva portato a nulla. Il brigadiere Alessandro Corda e l’agente Remo Varricchio avevano cercato dappertutto un indizio che facesse pensare all’intenzione della donna di allontanarsi volutamente da casa. Ma l’armadio conteneva tutti i vestiti e nel frigorifero c’erano cibi deperibili. Persino la lavatrice era piena di panni lavati che attendevano di essere stesi.
Le operazioni si erano svolte sotto l’occhio vigile della signora Santini, di settantaquattro anni, la proprietaria dell’appartamento. La donna si era imposta di tenere un’espressione preoccupata e afflitta, mentre in realtà era eccitata e curiosa della strana situazione nella quale era stata coinvolta. L’unico particolare che effettivamente le dava da pensare era che se Giuditta non fosse tornata per il 5 del mese, non le avrebbe pagato l’affitto. E quella sì che sarebbe stata una bella seccatura.
Prima di andare via, Corda fece un ultimo giro nell’appartamento. Lo sguardo gli cadde sull’antico comò di noce, le linee semplici e squadrate, il ripiano in marmo. Un pezzo notevole che stonava nel contesto di quell’alloggio arredato con mobili di poco conto. «Varricchio, hai controllato nei cassetti del comò?»
«Sì brigadiere, solo biancheria.»
Corda notò un’esitazione appena percettibile nella risposta dell’agente. Remo Varricchio era un ventottenne di origini campane, un ragazzo alto e occhialuto, di grande cuore e dalla spiccata intelligenza. Era stato trasferito a Peccioli pochi mesi prima e si era subito dimostrato un elemento volenteroso e capace. L’unica cosa che lo fregava era la scarsa attitudine ad agire nelle situazioni di emergenza, unita a una educazione formale e rigida che a volte sfociava in una indecisione cronica. Aveva preso a cuore questo caso in modo particolare, sin dalla morte di Roberta Savio. Eseguiva le disposizioni del suo comandante con impegno e concentrazione e appariva particolarmente turbato dagli eventi che si erano susseguiti negli ultimi giorni.
Corda era invece dotato di un innato senso della misura umana. A cui però non si dovette appellare per intuire che Varricchio aveva esitato di fronte alla biancheria intima della donna. Aprì il primo cassetto e iniziò a rovistare. Il silenzio di Varricchio gli dimostrò che almeno la prima intuizione era giusta.
Nel secondo cassetto c’erano slip, reggiseni e calzamaglie. Corda ci affondò le mani e ne estrasse un oggetto. Bianco. Un Samsung Galaxy Tab A6. Proprio il modello che era stato sottratto a Roberta Savio.
Mauro Rambaldi e Angelo Crespi si erano lasciati con l’accordo di risentirsi entro fine giornata per fare il punto sugli sviluppi. Ovvero, sull’intuizione comune che gli omicidi, in qualche modo, riguardassero la presenza dell’ex poliziotto a Peccioli. Non c’erano indizi veri e propri che indicassero quella strada, solo supposizioni. Ma era una possibilità a cui erano arrivati entrambi ed era un motivo sufficiente per approfondirla.
Rambaldi si dedicò ai due arrestati dai quali né lui né Santamaria riuscirono a ottenere una dichiarazione utile. Sembrava che i Nómadas avessero un alibi, almeno per il secondo omicidio. Quella notte l’avevano passata in un locale di Scandicci, di proprietà di un loro conoscente. Si erano ubriacati e poi addormentati nel magazzino sul retro. C’erano diverse persone pronte a testimoniarlo. Negarono ogni accusa riguardo al rapimento e al tentato omicidio di Marra, asserendo di essersi recati a Ghizzano per liberarlo dopo aver ricevuto una telefonata anonima. Ma erano stati colti in flagrante e la vittima li aveva chiaramente riconosciuti, quindi non avrebbero avuto scampo di fronte al giudice. Quando decisero di chiudersi a riccio e invocare la presenza dell’avvocato, minacciando querela per maltrattamenti, Rambaldi decise di averne abbastanza e dispose che fossero trasferiti al carcere Don Bosco di Pisa. Non aveva altro tempo da sprecare con quei due idioti.
Mentre addentava un trancio di pizza fredda, che l’agente Simona Balugani aveva portato in caserma con delle bibite, Rambaldi, per la prima volta da quella mattina, si rilassò e vagò per qualche secondo in territori estranei alla sua indagine. E il suo pensiero non poté fare a meno di tornare a Daria. Perché non si era più fatta viva? Cosa stava facendo in quel momento, dov’era? Gli mancava come una via di fuga. Era da lei che sarebbe voluto tornare, appena risolto il casino nel quale si trovava. Roma non era più il suo porto sicuro, il suo rassicurante approdo finale. Erano le braccia di quella ragazza che aveva conosciuto pochi giorni prima e della quale non sapeva praticamente nulla. Lasciò la pizza nella scatola di cartone e si pulì le mani con un tovagliolo di carta. Decise che l’avrebbe chiamata per farle sapere che le mancava, che nonostante gli eventi concitati delle ultime ore, lei era rimasta sempre presente nei suoi pensieri. Nient’altro, solo questo. Per mantenere vivo il legame fra loro, per farle capire che presto si sarebbero visti, avrebbero parlato e affrontato, in un modo o nell’altro, questa cosa che li aveva coinvolti entrambi inaspettatamente e con la forza di un tornado estivo. Cercò il numero in rubrica e premette il tasto di chiamata.
Daria si era preparata, aveva dato da mangiare ai gatti, aveva passato quasi mezz’ora davanti allo specchio a ripetere le parole che avrebbe voluto dire a Mauro. Sapeva che era occupato e avrebbe avuto poco tempo da dedicarle, quindi doveva giocarsi bene le carte. Evitare di sembrare patetica o disperata. Semplicemente dire ciò che provava, senza richieste sottintese. Avrebbe capito subito se erano le stesse cose che provava lui. Ma prima di presentarsi a Peccioli, decise che lo avrebbe chiamato, per avvertirlo. Cercò il numero in rubrica e fece scorrere la pallina verde. Occupato.
Occupato. Daria stava parlando con qualcuno. Mauro non poté fare a meno di provare un fastidio istintivo, qualcosa di molto simile alla gelosia.
Santamaria entrò senza bussare. «Capitano, Corda è tornato. Si tenga forte: ha trovato il tablet!»
Rambaldi lasciò il telefono e si alzò di scatto. «Andiamo» disse seguendo il maresciallo. La porta dell’ufficio si chiuse e lo smartphone si accese vibrando lento sul ripiano della scrivania.
Daria.