15
Angelo Crespi sentì bussare alla porta. Aspettava quel momento da molto tempo, come si aspetta una condanna. Quando una mattina, giorni prima, aveva incrociato lo sguardo di Rambaldi, aveva capito che prima o poi sarebbe stato scoperto. Non ne aveva la certezza, ma le sue intuizioni si erano sempre dimostrate vincenti. Era riuscito a eludere l’inevitabile per più di vent’anni ma non si era mai illuso di prolungare quell’oblio per sempre.
Aveva preso in considerazione varie possibilità, durante gli ultimi giorni. Trovare un nuovo nascondiglio, ripiegare all’estero, cambiare nuovamente nome.
Ma a Peccioli aveva raggiunto un equilibrio magico. Valerio Albis, lo pseudonimo che si era scelto, era un uomo schivo e solitario, e tutti, in quel paese fuori dal tempo e dagli schemi, rispettavano il suo esilio volontario.
I suoi quadri, i suoi libri, lo avevano salvato dalla follia che all’inizio era apparsa l’unico sbocco a un dolore troppo grande per la sua mente limitata e debole.
Dopo la morte della moglie, il pensiero del suicidio lo aveva accompagnato come un fratello. Ma c’era qualcosa di osceno in quel gesto, qualcosa di irreparabile e distante dalla sua natura che lo aveva frenato. Era la paradossale vittima dell’impronta salvifica che il suo mestiere gli aveva lasciato addosso? Forse, i tanti anni passati a cacciare assassini avevano modificato il suo dna rendendolo naturalmente incompatibile con quel gesto estremo e volontario.
Ogni alternativa, però, era altrettanto inaccettabile. Nei momenti peggiori, la sofferenza e il senso di colpa per la morte dei suoi due unici amori erano intollerabili. Soprattutto perché non aveva mai fatto affidamento, né chiesto un qualsiasi sostegno, alla cosiddetta sfera del divino.
Angelo Crespi era un uomo abituato a riflettere, a programmare, ad affrontare le situazioni con la logica e la strategia. Erano queste le armi che lo avevano reso l’unico investigatore italiano capace di catturare tre assassini seriali e gli erano valsi l’appellativo di Cacciatore di anime, il titolo che aveva voluto dare al suo libro.
Dopo lo sbandamento iniziale, era riuscito a confinare il buio in una stanza chiusa, giusto il tempo necessario per studiare un piano. Quel buio premeva forte contro la porta, e lui sapeva che di lì a poco sarebbe riuscito a rompere gli argini, a tornare libero di aggredirlo da ogni lato, per soffocarlo e condurlo alla follia. Per questo aveva predisposto le sue contromosse.
Un luogo tranquillo, isolato, dove le persone fossero riservate per natura. Una attività che gli permettesse di esplorare l’abisso dei suoi sentimenti, l’orrore che lo aveva aggredito e che minacciava di condurlo all’autodistruzione. L’aveva trovata nella pittura. Nei quadri esprimeva la disperazione che lo consumava. Sulle tele finiva la parte peggiore dell’inferno che lo bruciava ogni giorno, ora minuto e secondo da più di vent’anni.
Leggeva, anche. E le pagine dei classici della letteratura e del teatro, che gli raccontavano il dolore, lo smarrimento, l’impossibilità, per l’uomo, di convivere con il creato e di trovare risposte alle proprie domande sull’esistenza, lo tenevano a galla. Perché in fondo, quelle storie senza tempo erano la prova che il male di vivere era un’emozione conosciuta, condivisa, e meno gravosa da portare sulle spalle. Non aveva mai ceduto alla lusinga di sette o religioni che raccoglievano adepti, clienti, intorno a qualcosa di impalpabile e incomprensibile. I suoi libri, invece, lo scaldavano al fuoco di una consapevolezza che partiva da sé stesso. Raccontavano la lunga marcia, personale e universale, di tante anime verso un destino segnato ma comune e, forse per questo, meno difficile da sopportare.
La porta si aprì e Mauro si trovò di fronte a quell’uomo dai tratti asciutti, regolari, con i capelli bianchi cortissimi e la barba curata. Qualcosa in quel viso gli ricordò suo padre, il generale di Divisione Egidio Rambaldi. Non tanto i tratti somatici, quanto la pacata durezza dello sguardo, la dignità e la forza che quel corpo anziano emanava senza bisogno di artifici, come doni naturali e inscalfibili dal tempo.
Mauro non era mai riuscito ad avere un rapporto di vera confidenza con suo padre che era morto dieci anni prima, stroncato da un tumore maligno. Non avevano mai realmente comunicato. I reciproci sentimenti, quelli veri, profondi, si erano sempre rivelati un terreno irraggiungibile per entrambi. A volte pensava che tutta la sua vita sarebbe stata un lungo, infinito esame, per dimostrare al suo vecchio, o al ricordo che serbava di lui, di essere degno erede del nome e del retaggio di una intera dinastia di alti ufficiali nelle forze armate.
Si fissarono per qualche secondo senza dirsi niente. Non ce n’era bisogno.
Angelo Crespi si spostò facendogli cenno di entrare. Rambaldi si trovò al piano terra di una casa che ne contava tre. Quello che aveva di fronte era un salone grande, arredato in maniera spartana con un angolo cottura pulito e ordinato. C’erano un divano, un piccolo televisore e una scrivania. E i libri. Libri dappertutto. Scaffali stracolmi, pile ordinate per terra e sui pochi mobili, tomi aperti, uno sull’altro, sul tavolo da lavoro.
Sembrava il retro di una grande libreria o di una biblioteca, dove i volumi venivano suddivisi, catalogati e smistati.
«Non ho molto spazio» disse Angelo Crespi. «Può sedersi sul divano, se vuole.»
Mauro Rambaldi annuì come un ragazzino di fronte al centravanti della sua squadra del cuore. La penombra rendeva quell’incontro ancora più misterioso, inquietante.
«Devo chiamarla Valerio Albis? O preferisce il suo vero nome?»
«È quello il mio vero nome, adesso. È il nome della persona che ho scelto di essere.»
Rambaldi rimase in silenzio.
Angelo Crespi spostò la sedia della scrivania e si accomodò di fronte a lui.
«Mi dica quello che deve dirmi. Dopodiché la prego di andarsene e di non tornare più.»
Rambaldi rifletté bene prima di scegliere le parole adatte.
«Vorrei il suo parere sull’indagine che sto seguendo. Non sarà necessario che lei partecipi ufficialmente, resterà fra me e lei. E non rivelerò a nessuno di aver scoperto la sua vera identità.»
Crespi era seduto in posizione eretta con le mani intrecciate sulle gambe. Aspettò ancora qualche secondo, per lasciare a Rambaldi il tempo di aggiungere altro. Poi parlò: «La mia risposta è no. Non sono interessato. E la prego di non insistere».
Mauro Rambaldi inspirò. Se lo aspettava ma non ci stava a mollare il colpo così facilmente.
«È morta una donna. Mio malgrado sto arrancando in una palude di ipotesi e di incertezze. Forse la conosceva, il paese è piccolo e l’avrà vista in giro. Si chiamava Roberta Savio, ed era una brava ragazza. In passato lei ha reso giustizia a tante vittime innocenti. Le chiedo di aiutarmi a farlo ancora.»
«Il passato.» Angelo Crespi scosse il capo. «Col passato ci combatto da tanti anni. Li ho impiegati tutti, giorno dopo giorno, ad allontanarmi da ciò che ero, tentando di diventare una persona diversa. E lei, capitano Rambaldi, lei viene qui a propormi cosa? Di rinunciare a ventitré lunghi anni di sofferto lavoro quotidiano?»
«No, io non pretendo… Non voglio che lei rinunci alla vita che si è scelto. Le chiedo un parere, nient’altro. So che lei è stato il più grande, lo sappiamo entrambi. Ha preso tre assassini decifrando il codice delle loro menti malate. Lasci solo che le mostri quello che abbiamo, mi dica cosa ne pensa e la lascerò in pace. Se è davvero un uomo diverso, cosa può costarle darmi una mano?»
«Vede, capitano, il problema è che nonostante mi sia sforzato di lasciarmi tutto alle spalle, qualcosa mi ha seguito fin qui, nel mio rifugio. Una cosa che speravo scioccamente di eludere. Si tratta della memoria. E visto che non sono riuscito a eliminarla, ho deciso di conviverci, di adattarmi. Lo sa… il dolore che quella memoria provoca muta nel tempo, non rimane sempre lo stesso. Nel mio caso, per esempio… All’inizio è stato come un inverno tempestoso e gelido. Una paralisi impossibile da superare. Ma in qualche modo ci sono riuscito e allora ho dovuto prepararmi ad affrontare le altre mutazioni. Ognuna ha le sue insidie, ognuna ha rischiato di farmi franare nel baratro. Se oggi le sembro una persona diversa, uno che ha trovato una strada alternativa non vuol dire che io sia immune dal rischio, perché quel dolore potrebbe tornare ad aggredirmi in un’altra forma e trovarmi impreparato. Spingermi una volta per tutte verso l’autodistruzione.»
«Non è questo che voglio. Io voglio fare giustizia, prendere l’assassino di quella ragazza. E per qualche ragione, mi dia dell’ingenuo, io sono certo che anche lei lo vuole. È solo che ha paura di ammetterlo.»
«Lei mi parla di paura ma per me anche la paura non è più la stessa di quando facevo il suo lavoro. Chi non ha nulla da perdere e nulla da guadagnare, ha un punto di vista diverso, soprattutto sulla paura. Sa di cosa ho davvero paura io? Di scoprire che esiste una vita dopo la morte. Perché se così fosse, non troverei pace nemmeno dall’altra parte. Probabilmente è per questo motivo che ventitré anni fa ho deciso di non seguire mia moglie giù da quel balcone.»
Rambaldi non aveva argomenti più forti di quelli dell’uomo che gli stava davanti, per sostenere oltre quella conversazione. Nella sua professione era abituato ad azzannare al collo la preda e a non mollarla fino a quando non ne aveva avuto ragione. Ma il rispetto e la compassione che provava per lui avevano avuto la meglio. Era svuotato, sconfitto. Decise di chiuderla lì. Si alzò dal divano.
«Posso chiederle una cosa?»
Angelo Crespi lo fissò senza parlare.
«Posso vedere i suoi quadri?»
«Nessuno può vederli.»
«Ho capito. Mi scusi ancora per il disturbo. Non svelerò la sua identità, può stare tranquillo. E… non volevo turbarla. La proposta resta valida. Se cambia idea, sa dove trovarmi.»
Angelo Crespi salì al secondo piano della casa. Era un sottotetto con un’ampia finestra a lucernaio, dove dipingeva ogni giorno. Dappertutto, contro le pareti, decine di tele bianche. Sopra una tavola di legno grezzo retta da due supporti di ferro, colori a olio, acrilici, pennelli di varie forme e dimensioni, stracci sporchi di pittura.
Su un cavalletto, al centro della stanza, il quadro che aveva appena terminato. Una figura umana rannicchiata, al centro di una piccola imbarcazione. Il volto invisibile, incassato nelle spalle nude, le ossa premute contro un sottile strato di pelle. Intorno alla barca un mare in tempesta. Viola, rosso scuro, nero. Pennellate come grida di paura, dolorose richieste d’aiuto. La tela grondava di una solitudine disperata, lasciava presagire una sorte tragica e inevitabile. Angelo Crespi rimase a osservarla, appoggiato al suo sgabello da lavoro. Poi, lentamente, si alzò, la afferrò staccandola dal cavalletto e si avvicinò al camino sul lato opposto della stanza. Dove sarebbe finita divorata dal fuoco, come accadeva con ogni tela che dipingeva. Da ventitré anni.