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Mauro aveva deciso di fare due passi per il paese e rimandare il momento in cui sarebbe stato costretto a ritirarsi in quella solitudine che non aveva scelto. Aveva smesso di piovere da poco, i muri dei palazzi erano fradici e le strade piene di pozzanghere. I cornicioni gocciolanti scandivano un ritmo anomalo, accentuato dalle strade deserte e dalle facciate austere di mattoni. Un altro particolare che rendeva Peccioli un luogo fuori dal tempo.

Senza rendersene conto, l’ufficiale si ritrovò sul corso che da piazza del Popolo arrivava al museo, sulla cui porta erano stati apposti i sigilli dell’indagine. Invece di puntare a sinistra, verso il vicolo dove lo attendeva il suo letto, affrontò la salita a destra, dietro al museo. Era la strada che conduceva a casa della vittima.

La perquisizione non aveva dato esiti, sembrava che Roberta Savio vivesse un’esistenza solitaria e monotona e che il suo principale svago fossero i romanzi rosa, soprattutto quelli della collana Lovely. A casa sua ne avevano trovate parecchie copie. A giudicare dal numero di titoli che possedeva il suo scrittore preferito doveva essere H.D. Glide, autore di romanzi come Brivido d’oriente e Sensazioni perdute. Per il resto nulla. Niente profilattici, contraccettivi, qualcosa che potesse far pensare che Roberta Savio conducesse una vita sessualmente attiva.

Mauro non aveva voglia di ritirarsi in quell’appartamento enorme e il bar La terrazza era ancora aperto. Una sensazione di vuoto lo prese allo stomaco e si ritrovò a immaginare un volto e un corpo.

Monica, dove sei?

Era la proprietaria di una boutique di Pisa dove si erano conosciuti. Lui era alla ricerca di un foulard da regalare alla madre per Natale. Si erano scambiati i numeri, avevano iniziato a messaggiarsi e dopo pochi giorni si erano visti a casa di Mauro. Trent’anni, occhi neri, capelli lunghi e curati. Un seno perfetto, valorizzato da una scollatura generosa che aveva subito catturato l’attenzione di Mauro. Sin dall’inizio c’era stata un’intesa sessuale travolgente. Poi, come spesso accadeva, un senso di colpa latente. Era fidanzata con un ingegnere di Firenze e stavano programmando una convivenza stabile. La storia con Mauro era andata avanti per un paio di mesi, fra alti e bassi, fino a quando nei loro incontri clandestini l’amarezza del dopo aveva iniziato a superare il desiderio del prima.

Era un campanello d’allarme che Mauro conosceva. E aveva preferito lasciarla morire lì. Durante una discussione, al termine di uno dei loro incontri a base di sesso, le aveva detto: “Hai ragione tu, Monica. Questa storia non può darti nulla, può solo toglierti qualcosa… e io preferisco andarmene piuttosto che diventare motivo di infelicità”. L’ennesima rielaborazione del celeberrimo “Ti ho fatto male per non farne alla tua vita” da un classico di Claudio Baglioni.

Quelle parole avevano spento la luce negli occhi di Monica. D’altra parte, Mauro sentiva sulla pelle quel tipo di insofferenza inquieta che assale chi tradisce il partner. La volontà di mettere alle strette l’amante di turno, farlo sentire in colpa per portarlo a esporsi, a fare una scelta da dentro o fuori. In pratica per spingerlo a impegnarsi. Monica avrebbe voluto coinvolgerlo in un rapporto stabile e duraturo, sostituire il suo fidanzato di Firenze con lui. Mauro ci era già passato e non le aveva lasciato margine di trattativa.

Quella storia era finita male, ma lui sognava di averla accanto, in quel momento, per una notte di sesso, forse. Di certo per scacciarsi di dosso il senso di vuoto che lo stava vincendo. Ora voleva solo tenerla stretta a sé, in un abbraccio disperato, per ripararsi dal vento glaciale che gli flagellava l’anima.

Solo un pensiero fugace, si disse. Come sempre. Era durato il tempo che Mauro impiegava a richiamare a rapporto razionalità e cinismo. Si consolava in fretta, certo del fatto che lo attendessero altri abbracci, altre donne con cui difendersi da quel freddo, e una carriera piena di soddisfazioni. Ammesso che fosse riuscito a scoprire l’assassino di Roberta Savio e scappare, finalmente, nella sua Roma.

Nel bar c’erano tre tipi seduti davanti ad altrettante birre, stavano discutendo con una certa foga. Al suo ingresso ammutolirono obbedendo a un richiamo silenzioso. Una tv a schermo piatto da 50 pollici trasmetteva la replica di una partita della Premier League.

In fondo al locale c’era un cliente solitario. Gli avambracci sul tavolo, teneva stretto fra le mani un bicchiere, pieno di un liquido scuro. Rambaldi non poté fare a meno di notare il suo aspetto dissonante con la fauna del bar di paese. Capelli lunghi, barba incolta, fisico decisamente sovrappeso. Giubbotto smanicato di pelle nera da bikers, tempestato di borchie e patch, indossato sopra a una T-shirt nera degli Iron Maiden. Sembrava uscito da una puntata di Sons of Anarchy.

«Buonasera» lo salutò una barista occhialuta sui quaranta, asciugando un bicchiere con uno strofinaccio. «Desidera?»

«Buonasera. Mi dia… un chinotto.»

La donna sollevò le sopracciglia, posò il bicchiere con cui stava armeggiando e lo servì senza parlare. Il bar era molto grande e in fondo sulla destra c’era una ampia porta finestra dalla quale, con ogni probabilità, si accedeva alla famosa terrazza alla quale il locale doveva il suo nome.

Appoggiato al bancone, Rambaldi gettò un’occhiata alla partita mentre cercava di inquadrare il tipo col gilet da motociclista. Questi, di rimando, lo fissò sorseggiando lentamente la sua Guinness.

«Si sa qualcosa della povera Roberta?» domandò la barista, un attimo prima che Rambaldi chiedesse all’uomo cos’avesse da guardarlo in quel modo.

«Cosa? Ah… no… Niente per ora. La conosceva?»

«Certo, abitava qui di fronte. Veniva a fare colazione. Una ragazza di poche parole, seria… senza grilli per la testa.»

Rambaldi sapeva che la proprietaria del bar era già stata ascoltata dagli uomini di Santamaria, ma fece lo stesso un tentativo.

«Sa se frequentava qualcuno in paese… aveva una relazione? Ogni informazione può esserci utile per trovare il colpevole.»

«No, mi spiace. L’ho già detto ai suoi colleghi. Era sempre da sola, una ragazza un po’ triste.»

«Triste?»

«Non lo so, non era il tipo a cui piace divertirsi, ecco. Non la vedevi mai con le altre della Fondazione che vengono spesso a bere e a fare casino. Lei era diversa.»

«Capisco.»

«Trovate chi le ha fatto del male, per favore. Siamo un paese di persone oneste. Non vogliamo che si pensi il contrario. E anche se era una ragazza un po’…» la barista fece spallucce. «Insomma, le volevamo bene.»

«Lo troveremo. Ma abbiamo bisogno che tutti collaborino.»

Rambaldi si girò verso l’uomo col gilet da motociclista e si accorse che questi lo stava ancora fissando. Con gesti calmi, estrasse il portafogli dalla tasca interna del suo giubbotto e pagò la consumazione. Poi, afferrata la lattina di chinotto e lasciato il bicchiere sul bancone, si avvicinò all’uomo.

«Salve. Posso?»

«Prego.»

Rambaldi sedette di fronte a lui e iniziò una specie di gara all’ultimo sguardo. Entrambi sembravano decisi a non mollare.

«Lei è di Peccioli?»

«Nato e cresciuto.»

«Posso chiederle come si chiama?»

«È un interrogatorio ufficiale?»

«Niente affatto. Solo due chiacchiere al bar. Io sono Mauro Rambaldi.»

«Saverio Marra.»

«Conosceva Roberta Savio?»

«La conoscevo, sì. L’era una brava ragazza, una che ’un faceva male a nessuno.»

«Stiamo cercando l’assassino. Ho bisogno di informazioni. Lei può dirmi qualcosa sul conto di Roberta? In che rapporti eravate?»

«Ci vedevamo qui al bar. Ogni tanto due chiacchiere.»

«Lei lavora a Peccioli?»

«Ci vivo.»

«E che fa per vivere?»

«Meno male che ’un l’era un interrogatorio» fece un lungo sorso e si asciugò con il braccio.

«Non è tenuto a rispondere.»

«Infatti ’un rispondo.»

«Perché?» Lo fissò con occhi duri.

«Se potessi aiutarla a scoprire chi ha ucciso Roberta sarei venuto spontaneamente in caserma a riferire. Purtroppo non è così, quindi non abbiamo niente da dirci.»

Mauro Rambaldi annuì. Poi estrasse un biglietto da visita da una tasca interna e lo mise sul tavolo. «Se dovesse venirle in mente qualcosa, mi chiami.»

Saverio Marra lo fissò, rimase in silenzio e lasciò il biglietto dov’era.

Rambaldi scese la scomoda scalinata del vicolo Tuccini, resa ancor più scivolosa dalla pioggia. Armeggiò con la chiave nel portoncino blindato, poi si fermò. Percepì un movimento alle sue spalle. Qualcuno, spuntato da un angolo buio, si era avvicinato e gli aveva poggiato una mano sulla spalla. Il capitano ruotò su se stesso, bloccò il polso dell’estraneo mentre lo afferrava per il collo e lo sbatteva con violenza contro il muro. Una ginocchiata al basso ventre neutralizzò l’uomo che emise un gemito e si accasciò a terra proteggendosi l’incavo dei pantaloni con le mani. Un attimo prima di estrarre l’arma dalla fondina alla cintura, Mauro Rambaldi comprese con chi aveva avuto a che fare.

«Cristo… vuoi farti uccidere?»

«Vera… veramente no… Dio che male alle palle.» Era il giornalista che aveva provato a intervistarlo quella mattina.

«Alzati.» Mauro Rambaldi afferrò il giovane per un braccio aiutandolo a sollevarsi. Questi, a fatica, ritrovò la posizione eretta.

«Lei non è normale!» berciò. «M’ha massacrato i coglioni… ora che racconto alla mi’ ragazza?»

«Ti pare normale arrivare alle spalle di uno sbirro, in un vicolo, a notte fonda? Sei fortunato che non ti ho sparato. Vieni dentro.»

Qualche minuto dopo, Rodolfo Marcellini uscì dal bagno, claudicante, mentre Mauro lo aspettava, preoccupato, nell’ingresso soggiorno.

«Tutto regolare…» esclamò il ragazzo alzando una mano «dovrebbe funzionare ancora!»

«Cosa credevi di fare con un gesto del genere?» il tono era duro.

«Solo strapparle una dichiarazione. Sono il caporedattore dell’unico giornale del paese, non vorrà che riporti le notizie da TelePisa o lette sul “Tirreno”! Mi venga incontro diobòno…»

«Ma che dici? È mezzanotte! E non ho niente da aggiungere al comunicato stampa della procura. Fatti bastare quello.»

«E se facessimo un bel do ut des

«Spiegati.»

«Sono la persona adatta per riferirle vita, morte e miracoli di ogni singolo abitante di Peccioli. Anzi, di più, di tutta la Valdera. Mi metta alla prova. Io aiuto lei e lei aiuta me con qualche dritta.»

«Scordatelo.»

«O’vvia capitano! Perché ce l’ha con me? M’ha polverizzato i gioielli di famiglia, un aiutino me lo deve.»

Rambaldi scosse la testa. Quel tipo gli era simpatico. «Cosa sai di un certo… Marra. Saverio Marra.»

«Il Saverio? C’ha a che fare con la morte di Roberta?»

«No. L’ho conosciuto stasera e voglio metterti alla prova per capire se sei informato come dici.»

«Un test per diventare informatore ufficiale? Allora, il Saverio ha quarantase… no, quarantanove anni. È stato per parecchio tempo a capo di un noto gruppo di motociclisti in Valdera, i Nómadas.»

«Mai sentiti.»

«Be’, comunque due anni fa si è staccato dal gruppo. Ha litigato con tutti, non si sa perché, e da allora passa le giornate tra bar e scorribande sulla sua Harley. Sta quasi sempre da solo, è una specie di orso. E spesso parte per lunghi viaggi. Pare che vada negli Stati Uniti, a far cosa non so.»

«Sì, ma di che campa?»

«Ah, questo non lo sa nessuno. Gira voce che abbia delle rendite di famiglia, visto che non fa un beneamato cazzo tutto il giorno. Però, se vuole, posso informarmi a breve.»

«Ecco, bravo, informati e fammi sapere. E ora torna a casa perché sono stanco.»

«E no! Io la mia parte l’ho fatta, adesso tocca a lei!»

«Tocca a me cosa?»

«Darmi qualche dritta! Domani vado in stampa con “L’eco di Peccioli e della Valdera” e mi serve un titolo che sbaragli la concorrenza!»

«Io non ho niente da dirti.»

«Ma non è giusto!»

«Anzi, sì, una cosa te la dico. Quando la notizia non c’è, un giornalista con le palle la inventa. In questo caso è la mancanza di indizi a fare notizia. Roberta non aveva un fidanzato, non aveva un social account, non frequentava nessuno. Tutti la conoscevano, la vedevano in giro, ma nessuno sa nulla di lei. Era un fantasma già in vita.»

«Un fantasma? Okay, capito. Ci lavorerò sopra. Però ricordi che mi deve sempre una dritta!»

«Portami qualcosa sul motociclista e ne riparliamo. Ora fammi il piacere e levati dalle palle.»

«Eh, già. Beato lei che ce le ha ancora, le palle!»

Col portoncino aperto, Mauro Rambaldi lo vide allontanarsi per la scalinata del vicolo Tuccini. Fece per entrare e si bloccò. Anni di servizio gli avevano messo addosso quel sesto senso, il terzo occhio, lo chiamavano in gergo. Qualcuno lo stava seguendo? Si sentiva osservato. Doveva rientrare o mettersi a caccia di quello sguardo? Rimase in silenzio, in attesa. Niente. Era tardi e di certo era lo stress che iniziava a farsi sentire. Richiuse il portoncino dietro di sé e decise che forse aveva bisogno di una buona dormita. Perché stavolta, in quel vicolo, non c’era nessuno.

Dalla finestra al terzo piano della casa ad angolo, due occhi continuarono a fissare il portoncino. Due occhi azzurri e profondi. Gli stessi che lo avevano scrutato con attenzione da un tavolino del bar sotto il portico, solo qualche ora prima.