“Tre cose non possono essere nascoste a lungo: la luna, il sole e la verità”.
- Gautama Buddha
Aspettai più che potevo. Quando non potei più aspettare, mi scappò: «Dove stiamo andando?»
«Ho un’idea». I suoi occhi sfrecciarono su di me, poi tornarono sulla strada. «Più precisamente, una sorpresa».
Era il tardo pomeriggio di martedì. Eravamo nella macchina di Cletus, nella Geo, non nella Buick ed eravamo partiti dalla pasticceria perché voleva portarmi in un posto di cui non aveva fatto menzione. Cletus era venuto in pasticceria dopo il lavoro come promesso e aveva detto che voleva portarmi da qualche parte prima che facesse buio.
In quel momento, viaggiavamo da dieci minuti in direzione di Cades Cove.
«Una sorpresa alle quattro e mezza?»
Il sole stava tramontando e aveva incendiato il cielo: i sette gradi di temperatura facevano splendere ancora più vividi i rossi, i rosa e gli arancioni delle nuvole gonfie. Il freddo aveva qualcosa che rendeva il tramonto più intenso in questo periodo dell’anno.
«Questa sorpresa non dipende dall’ora del giorno». Rallentò, mettendo la freccia. «E siamo arrivati».
Io aguzzai lo sguardo fuori dal finestrino, e riconobbi il lungo vialetto e il casolare bianco alla fine di esso. «È casa di Claire McClure».
«Sì». Cletus parcheggiò proprio davanti alla casa e spense il motore.
«Che ci facciamo qui?»
Immediatamente ribatté: «Le svaligiamo casa».
Ciò detto, usci dall’auto, poi fece il giro fino al mio lato, mentre io scuotevo la testa alle sue buffonate. Aprii lo sportello ma lo afferrò lui, e mi offrì la mano mentre mi alzavo.
«Cosa ci prendiamo per prima cosa?» Indicai il portico anteriore. «I vasi di fiori o i numeri civici?»
Lui sorrise, prendendo la mia mano, e premette il palmo contro il mio, mandando un brivido di emozione lungo il mio braccio. Cletus mi trascinò fino ai gradini del portico. «I vasi dei fiori sono sporchi e questa è la mia tuta da meccanico migliore».
«Cletus. Le tue tute sono coperte di macchie di grasso».
«Sì. Ma non di macchie di terra. Non voglio creare disordine con troppi tipi di sporco».
«Oh, santa pazienza». Alzai gli occhi al cielo, ridendo delle sue sciocchezze.
«E i numeri civici sono sia incollati che inchiodati allo stipite. Perché invece non ci prendiamo l’intera casa?»
Io inciampai sul primo gradino, il sorriso mi scomparve e tirai Cletus perché si fermasse. «Cosa?»
«Claire cerca di affittare questo posto da quando è partita». Si schiarì la gola e guardò ogni cosa tranne me. I suoi occhi percorsero il portico, i vasi appesi alle finestre pieni di viole del pensiero e la ringhiera bianca. «Ho badato io alla casa mentre Jethro era via con Sienna per il suo ultimo film. Lui ha ripreso il suo compito da quando è tornato, ma sta per nascergli un figlio. Conosco la casa ed è ben tenuta. E attorno ha della terra. Coltivare un orticello non sarà un problema».
Finalmente rivolse lo sguardo verso di me, e la sua voce si fece più bassa e gentile. «Così avremmo un posto nostro, solo mio e tuo. Non devi trasferirti, a meno che tu non lo voglia».
Lo fissai sbalordita, al mio cervello occorsero parecchi secondi per assorbire le sue parole.
A dire il vero, al mio cervello occorse un intero minuto.
Meno di una settimana fa pensavo non mi volesse, ora era innamorato di me e voleva convivere con me. Le parole di Isaac mi avevano ferita, afflitta. L’inseguimento in macchina mi aveva scosso. Qualche brutto tiro o rappresaglia degli Iron Wraiths, per quel che ne sapevo, erano ancora possibili. Non riuscivo a stare dietro a tutti i cambiamenti.
«Vuoi che andiamo a vivere insieme? Qui?» squittii incredula.
Un cipiglio pensieroso apparve tra le sue sopracciglia, sotto il sole morente i suoi occhi astuti luccicavano con un desiderio accanito. Mi condusse su per gli ultimi due gradini fino alla porta, all’ombra del portico.
«Non sarò mai soddisfatto dei momenti rubati nella pasticceria della tua famiglia. E non parlo solo del tempo da passare con il tuo corpo». Le sue mani risalirono le mie braccia e poi scesero ai miei fianchi, tirandomi a lui. «Anche se quello è un fattore. Voglio della vera privacy, un posto in cui possiamo parlare e stare tra noi».
Parlare e stare tra noi. Beh, se la mette in questo modo…
Se fosse possibile infatuarsi di un’idea, allora io mi sarei infatuata di quella. Svegliarsi ogni mattina accanto a Cletus? Parlare ogni sera della mia giornata con Cletus? Passare ogni giorno con lui?
SÌ GRAZIE, NE PRENDO ANCHE UN ALTRO!
Eppure…
Eppure mi andava bene convivere con lui? Senza essere sposati? Era qualcosa che desideravo? Nelle mie fantasie, prima di fare quel passo c’era sempre il matrimonio. Ma perché? Perché mi ero sempre immaginata sposata? Era perché volevo il matrimonio? O lo volevo perché i miei genitori avrebbero odiato l’idea che convivessi con qualcuno prima del matrimonio?
Non sapevo come rispondere a quelle domande. Le cose tra noi si stavano evolvendo a rotta di collo. Per quanto volessi essere pronta a buttarmi in una relazione seria con quest’uomo intelligente, bello e complicato, c’erano altre considerazioni da fare. Cercando di pensare razionalmente, al di là della mia opinione in merito alla faccenda, il problema maggiore era che i miei genitori non avevano idea che io frequentassi Cletus. Non ancora. Avevo intenzione di dirglielo, ma prima volevo parlare con Cletus.
Poi c’è la piccola questione dei soldi…
«Jennifer?»
Alzai lo sguardo nel suo. L’incertezza nel suo sguardo, di chi si stava preparando al peggio, e il suono del mio nome sulle sue labbra risvegliò una calda onda di tenerezza dentro di me.
Lo rassicurai in fretta. «L’idea mi piace. Mi piace moltissimo». Misi una mano sulla mascella di Cletus e mi meravigliai di quanto mi sembrasse naturale e giusto toccarlo, essere tra le sue braccia. «Ma prima di prenderla in considerazione, le cose devono sistemarsi. E io devo consolidare alcune questioni ancora in sospeso».
Sentii il suo sguardo su di me, che mi studiava, prima che indovinasse: «I tuoi genitori».
«Sì, i miei genitori». Tuttavia, più che i miei genitori, anche se erano decisamente una parte del problema, mi preoccupava la mia situazione finanziaria. Naturalmente volevo la loro benedizione, ma non ero tanto sciocca da pensare che me l’avrebbero data di buon grado. Avrei dovuto lottare per ottenerla ed ero preparata a farlo, usando come arma anche il mio posto alla pasticceria e il mio personaggio, la Regina della torta alla banana.
Seguendo il consiglio di Anne-Claire avevo contattato un commercialista a Knoxville, gli avevo lasciato un messaggio sabato mattina riguardo al proposito di creare la mia azienda. La mia amica di penna francese aveva avuto ragione sin dall’inizio. Dovevo formalizzare il mio rapporto di lavoro con la pasticceria, perché senza un regolare rapporto di lavoro non avevo alcuna libertà. Non avevo alcuna scelta.
Volevo avere fede che mia madre sarebbe stata giusta. Tuttavia, alla luce del fatto che cambiare il colore dello smalto era stato visto come un insulto (nel migliore dei casi) o un atto aggressivo di ribellione (nel peggiore dei casi) a cui era stato naturale rispondere con recriminazioni e isterismo, dovevo pensare più seriamente al mio futuro finanziario. Dovevo iniziare a pianificare, invece di permettere agli altri di dettare il mio cammino.
«Non credo che i tuoi genitori saranno un grosso problema». Cletus fece passare la mano sulla mia schiena, aggiungendo casualmente: «Gli Oliver da queste parti sono una famiglia antica quanto i Payton e i Donner. Sono sicuro che i tuoi genitori saranno ragionevoli, quando verrà il momento».
Le sopracciglia mi schizzarono in alto sulla fronte, lo fissai con pura e semplice incredulità. «Cletus, io voglio bene ai miei genitori. Ma non sono ragionevoli. Mia mamma la settimana scorsa ha fatto una scenata quando le ho detto che non mi piaceva indossare i vestiti gialli. E mio padre ha sempre avuto un’idea molto precisa del genere d’uomo che vuole che sposi».
Il crepuscolo e l’ombra del portico mi rendevano difficile vederlo bene, ma lo sentii irrigidirsi, le sue mani si tesero sulla mia schiena. «Che genere d’uomo sarebbe?»
«Una combinazione di varie cose» risposi in tono piatto. «Innanzitutto e soprattutto, credo vorrebbe qualcuno che abbia, o possa riuscire a guadagnarsi, moltissimi soldi e fama. Ma anche se non avesse una impressionante fama, allora una abbondante ricchezza basterebbe. So che tu potresti ottenere entrambe, se ti mettessi in mente di farlo, ma io non desidero affatto abbondanti ricchezze o fama. E mi piace, beh, soprattutto mi piace, che nemmeno tu lo desideri».
Cletus era un musicista di talento, ma non si era mai impegnato per farsi conoscere. Non aveva mai permesso che i riflettori si puntassero troppo su di lui. Non desiderare di stare sotto i riflettori era una cosa, ma se lui temeva la luce dei riflettori, se temeva il rifiuto o il non avere controllo… beh, quella era tutta un’altra faccenda.
Cletus mi studiò. Alla fine, le sue mani scivolarono via dalla mia schiena e afferrarono nuovamente la mia mano, per condurmi alla porta.
«Quindi gli andrebbe bene chiunque, purché sia ricco?»
Sospirai triste. «Quando ero più giovane, consideravo diversamente le sue priorità. Lui mi diceva che mi avrebbe trovato un principe, qualcuno che si sarebbe preso cura di me». Deglutii, mi sentivo il retro della mia gola inspiegabilmente bollente e irritato. «Credo mi abbia sempre considerata una debole».
«Non è questo che vuoi ora? Non era questo che volevi ottenere con tutta la faccenda della ricerca di un marito? Qualcuno che si prendesse cura di te?» Cletus iniziò a tastare sopra la porta e sembrò armeggiare con qualcosa che non riuscivo a vedere.
«No! Non è affatto questo il punto, non lo era prima e non lo è adesso. Io volevo qualcuno, io voglio qualcuno, di cui io possa prendermi cura. Non il contrario. Ho dentro tutta quest’energia e affetto e nessuno con cui condividerli, nessuno a cui donarli. Passo tutti i giorni nella pasticceria e anche le notti. L’unica cosa che mia mamma vuole da me è che reciti un ruolo. Mio fratello finge che non esista. E mio padre pensa che sia un’idiota».
Cletus si girò, come per contraddirmi, ma poi rimase in silenzio.
«Sai che è vero. Pensa sia una sempliciotta. E non è il solo a pensarla così in città». Studiai la sua schiena, o quanto riuscivo a vederne in così poca luce. «Scommetto che anche tu pensavi che mi mancasse qualche rotella».
Recuperato quel che stava cercando, Cletus si girò verso di me. «Non pensavo fossi una sempliciotta».
«Allora cosa pensavi?» La sua sagoma si mosse e io avvertii che faticava a trovare le parole. Lo sentii infilare la chiave nella serratura. Per aiutarlo, gli fornii io delle parole: «La ruota gira ma il criceto è morto?»
«No».
«Se avesse un altro cervello, si sentirebbe molto solo?»
Si girò per guardarmi in volto. «Jenn...»
«Anche le zucche del suo orto sono tutte vuote?»
«Potresti...»
«Non ci arriva o non parte proprio?»
Cletus avvolse le braccia attorno ai miei fianchi e mi tirò a sé, la sua bocca catturò facilmente la mia. Mi fece girare, mettendomi con la schiena contro il muro esterno della casa e mi baciò con dovizia.
Quando mi sentii ufficialmente la testa leggera e mi fui accaldata sotto gli strati di vestiti, lui si scostò e spiegò burbero: «Non ho mai pensato che fossi una sempliciotta. Mi sentivo dispiaciuto per te».
Lo stomaco mi precipitò fino ai piedi.
Non mi piacque. Io non mi sentivo dispiaciuta per me stessa, non più. Il festival del dispiacere era ufficialmente finito. Mi ero presa la responsabilità della mia inerzia e ora vedevo le cose più chiaramente. Eppure il fatto che fossi stata una persona che gli suscitava pietà mi stringeva la gola di un furioso imbarazzo.
Ma prima che la mia mortificazione potesse cristallizzarsi completamente, aggiunse: «Ma ora capisco che avrei dovuto sentirmi dispiaciuto per me». Inclinò la testa di nuovo, sfiorando le mie labbra con un bacio adorante e poi sussurrò: «Ero io quello che non sapeva cosa si stava perdendo».
La casa di Claire era magnifica. Ed essere lì con Cletus era magnifico. E l’intera serata che seguì fu magnifica.
Cletus ci riportò alla pasticceria, dopo avermi fatto fare un breve giro della casa di Claire. Mentre io lavoravo e preparavo dolci, discutemmo di mille cose, dai nuovi esperimenti chimici che lui mi aveva trovato da far provare alle mie Girl e ai miei Boy Scout, a una ricetta che avevo trovato in un vecchio libro di cucina per un tortino alla salsiccia.
Decidemmo di preparare un tortino alla salsiccia insieme. Io avrei preparato la sfoglia e lui l’avrebbe riempita con la sua salsiccia.
Non gli permisi di aiutarmi a preparare i miei ordini. La sua barba violava le norme igienico sanitarie e l’idea gli strappò un enorme sorriso.
«Sono una violazione delle norme sanitarie» ripeteva, come se quello status fosse qualcosa di piacevolmente ironico. Io colsi l’ironia quando mi ricordai di una delle nostre prime conversazioni sull’essere pasticceri che non cucinavano con tutti indiscriminatamente ed evitare chi infrangeva le norme di igiene sanitaria.
Appena dopo le undici di sera, mentre mi aiutava a mettere via gli ingredienti, saltò fuori dalla dispensa sul retro e schioccò le dita. «Quasi mi dimenticavo!»
«Cosa?» Stavo pulendo i banconi. La ditta delle pulizie sarebbe passata prima delle tre di notte per sterilizzare tutto, ma mi piaceva lasciare le cose pulite. Il mio impasto per il giorno dopo era stato preparato e i lievitati erano pronti per lo staff del mattino.
«Jennifer Anne Sylvester,» il suo tono era eccessivamente formale e mi fece sorridere: «Mi faresti l’onore di accompagnarmi al matrimonio di mio fratello?»
«Ne sarei...»
«Ritirando pertanto la tua promessa al deplorevole e pruriginoso Jackson James».
Strinsi le labbra per mostrare la mia disapprovazione, portando le mani ai fianchi. «Devi riconsiderare quello che stai facendo a Jackson».
«Non posso. È già stato fatto. E non me ne pento. Merita le sue piaghe. Ho vissuto con un bullo per molti anni, senza dubbio, e Darrell Winston mi ha reso la persona che sono. Non posso tollerare le persone che si approfittano della loro posizione di potere per i propri desideri personali e meschini».
«Credi che Jackson sia malvagio? Irrecuperabile?»
Non rispose subito, preferendo invece guardarmi male. Per cui lo guardai male a mia volta. Infine, disse: «No. Ma fa il gradasso in panni troppo grossi per lui. Per questo io glieli ho resi pruriginosi».
«Non puoi sapere cosa potrebbero causare le tue azioni, che effetto potrebbero avere sulle persone. E considera questo: se parlassi a Jackson? Se voi due ne parlaste seriamente e faceste pace? Lo stai privando della scelta e non gli stai concedendo il beneficio del dubbio. E se invece provassi a parlargli prima? Poi, se si rifiuta di ascoltarti o si comporta come un bullo, allora potrai scatenare le tue piaghe. Fai pure. Ti darò persino la mia benedizione».
Un’altra volta cominciammo a scambiarci occhiatacce, ma lui sbatté le palpebre per primo.
«E va bene. Metterò in pausa le piaghe. Parlerò a Jackson James. Gli darò la possibilità di scegliere».
«Bene». Trattenni un sorriso vittorioso, rivolgendogli invece un calmo cenno del capo.
«Non hai ancora risposto alla mia prima richiesta».
«Quale richiesta?»
«Tu. Io. Il matrimonio di Jethro. Bere appena un po’ troppo. Fare del dolce amore nella mia stanza mentre gli altri fanno il ballo del pollo fuori. Questa richiesta».
«Oh, sì. La risposta è sì. Ho chiamato Jackson lo scorso sabato e gli ho detto che non sarei più andata con lui».
Le sopracciglia gli schizzarono in alto, a sottolineare la sua sorpresa. «L’hai fatto davvero?»
«Naturalmente». Gli rivolsi una rapida occhiata di incredulità. «Non riuscivo nemmeno a immaginarmelo. Temo che tutti gli altri siano una noia in confronto a te. Sarebbe come offrirmi del pollo fritto congelato quando posso mangiare il tortino alla salsiccia».
Il sorriso di Cletus si impadronì lentamente di tutto il suo volto e i suoi occhi si mossero su di me, facendosi sempre più affettuosi finché lui non fu raggiante. Chiuse la distanza tra noi e mi avvolse tra le sue braccia. Non mi baciò. Mi guardò e basta, come se fossi qualcosa di meraviglioso e fantastico.
«Sono pazzamente innamorato di te, mia Jennifer» disse.
Aprii la bocca per dirgli che anche io lo amavo. Ma lui mi bloccò, con un bacio lento e adorante.
Un bacio che mi fece tremare le ginocchia.
Un bacio che mi fece venire le farfalle allo stomaco.
Un bacio che rese il mio mondo migliore e più luminoso di quanto lo fosse prima.
Cletus Winston è pazzamente innamorato di me.
Cletus mi accompagnò alla macchina e mi guardò andar via. Le mie labbra pizzicavano ancora per i suoi eccellenti baci. Io amavo e odiavo che ogni volta che mi baciava non vedevo l’ora che lo rifacesse. Proprio come ogni volta che ci lasciavamo non vedevo l’ora di rivederlo.
Nonostante volessi sempre di più di lui, fluttuavo ancora su una nuvoletta felice e non riuscivo a smettere di sorridere. Mi sentivo davvero beata, davvero fortunata. Avrei dovuto alzarmi tra meno di tre ore, ma non mi importava.
Avevo dormito per ventidue anni. Mi sembrava di essere finalmente sveglia per la prima volta in vita mia. Finalmente la mia vita aveva avuto inizio. Io vi avevo dato inizio.
Mi tolsi silenziosamente le scarpe nell’ingresso ed entrai in punta di piedi in casa, proprio come avevo fatto la notte prima, ma rimasi sorpresa nel trovare mio padre sveglio in cucina. Mi accigliai vedendolo lì e lui si accigliò guardando me, dal suo posto al tavolo.
Mi guardai attorno per la stanza, alla ricerca di qualche indizio che spiegasse perché fosse ancora sveglio. Mio padre doveva essere al lavoro per le sei di mattina e non l’avevo mai visto sveglio così tardi.
«Ho chiamato mamma, prima, e le ho lasciato un messaggio» spiegai, sentendo il bisogno di difendermi preventivamente. Non era insolito che rimanessi fino a tardi alla pasticceria. Se prima avvertivo, poi non avrei svegliato i miei genitori per dir loro che ero a casa. «Le ho detto che sarei tornata verso mezzanotte».
Lui annuì con un cenno, mentre due rughe di infelicità gli incorniciavano la bocca. «Lo so».
Io mi accigliai, lasciando trasparire la mia confusione. «Va tutto bene?»
«Vieni. Siediti». Accennò alla sedia di fianco alla sua, con volto severo. «Dobbiamo parlare».
Esitai, nella mia mente risuonavano tutte le cose di cui avrebbe potuto voler discutere. Non ricordavo quand’era stata l’ultima volta che io e mio padre avessimo parlato di qualcosa. Forse una volta, quando avevo sedici anni e avevo vinto la gara di torte della fiera dello stato per la prima volta. Mi aveva ricordato che l’orgoglio era un peccato.
Mia mamma gli aveva detto di tacere, guardandolo torva quando lo aveva sentito per caso, poi subito aveva continuato dicendomi quanto fosse orgogliosa.
Ma in quel momento non mi veniva in mente niente di cui dovesse parlarmi.
Forse del viaggio a New York? Forse vuole ricordarmi che l’orgoglio è ancora un peccato.
Scartai quella teoria. Fintanto che il mio successo faceva arricchire la famiglia a lui sembrava non importare se fosse o meno un peccato.
«Jennifer, siediti». Il suo tono era duro. Era arrabbiato.
Esitai. Cos’avevo fatto per farlo arrabbiare? Cercai di pensare.
A meno che…
E improvvisamente lo capii. La stanza si inclinò appena e io appoggiai una mano sul bancone al mio fianco. Mio padre sapeva di Cletus. Terrore e paura iniziarono a scorrere nelle mie vene.
Ma tu non permetterai alla paura di controllarti. Tu hai il controllo della tua vita e delle tue decisioni. Nessun altro.
«Jennifer!»
Il mio nome fu pronunciato come un ordine e mi fece sobbalzare; mi spronò anche ad andare avanti. Lo raggiunsi con passi lenti e strascicati, raccogliendo coraggio e risolutezza durante il tragitto. Avanzai con calma fino alla sedia offertami e mi sedetti, congiungendo le mani sul tavolo.
«Di cosa vorresti parlare?» chiesi, con lo sguardo fermo come la mia voce. Ciononostante i miei nervi erano tesi e mi preparavo a un’aspra discussione.
Credo che lo sorpresi, perché il suo cipiglio si fece più severo. «Voglio parlarti del tuo comportamento degli ultimi mesi».
Digrignai i denti e strinsi le labbra per non dire qualcosa di spiacevole.
Quando mi fidai di me stessa abbastanza da essere quasi certa che sarei riuscita a parlare senza mancare di rispetto, dissi: «Mi trasferisco».
Non lo avevo deciso che ora. Ma questo momento, tornare a casa e trovare la disapprovazione di mio padre, la sua eterna disapprovazione, era stato sufficiente a farmi trovare la risposta. Me ne sarei andata di casa.
Qualcosa lampeggiò dietro i suoi occhi, un lampo simile a derisione, e disprezzo. «Oh? Ma davvero?»
Annuii. «Sì».
«Vai a vivere con Cletus Winston?»
Annuii di nuovo. «Esatto».
«E come farai a vivere? O ti farai mantenere da un uomo più anziano?»
Non mossi un muscolo, ma le sue parole furono come uno schiaffo. «Farò quello che ho sempre fatto. Preparerò dolci».
Lui si sporse in avanti, improvvisamente, arrivando a pochi centimetri dal mio volto. «Tua mamma non ti pagherà nemmeno un centesimo, signorina. Se te ne vai, se vai a vivere con quel ragazzo, allora per noi sarai morta. Hai capito?»
Lo guardai sbattendo le palpebre, il volto all’improvviso mi bruciava, le mani all’improvviso mi sudavano.
Deglutii a fatica. Quella era la sola casa in cui avessi mai vissuto. Pensai a cosa avrebbe significato essere ripudiata.
Mio padre aveva ripudiato Isaac. Non parlava mai di lui. Mia mamma lo faceva ancora. Vedevo che era ancora addolorata per la perdita del suo bambino. Ma per mio padre era come se non fosse mai esistito.
Volevo bene ai miei genitori.
Volevo bene a mio padre.
Ma per la prima volta in vita mia mi chiesi perché. Perché volevo bene a quell’uomo? Non lo sapevo. Non sapevo perché gli volessi bene. A lui non ero mai piaciuta particolarmente. E non era mai stato particolarmente amorevole.
Mi alzai, schiarendomi la gola, e mi allontanai dal tavolo. Rimisi al suo posto la sedia. Il tutto mentre mio padre mi seguiva con i suoi occhi, e la rabbia gonfiava le vene della sua fronte.
Gli ultimi mesi mi avevano portata a questo, ed era un momento terribile. Ma sapevo cosa dovevo fare. Alzai il mento, mantenendo la compostezza per pura forza di volontà.
«Se è questo che vuoi, allora così sia». La mia voce era instabile, tremante, ma non piansi. Non avrei pianto. «Non intendo permetterti di controllarmi. Non più».
I suoi occhi si spalancarono, come la sua bocca. L’avevo sorpreso.
Frettolosamente ritornò in sé, e mi indicò col dito. «Non credo tu capisca. Te ne vai di qui senza niente. Se prendi la macchina, io ne denuncio il furto. Te ne andrai di qui con quei vestiti vergognosi e nient’altro».
«Capisco perfettamente. Non sono stupida».
«Sì. Tu sei una stupida». Il suo tono era piatto e pieno d’odio. «Sei sempre stata una stupida. Perché pensi che tua mamma sia stata costretta a educarti in casa? Pensi davvero che Cletus Winston, Cletus Winston, rimarrà al tuo fianco? Che riuscirà a provvedere a te? Credi che rimarrà con te? Non lo farà. Ti pianterà in asso, come suo padre ha fatto con sua mamma, e tu resterai senza niente. Niente».
Scossi la testa, mentre dentro di me scendevano il gelo e l’insensibilità. «Non serve che lui mi mantenga. Se mamma non mi vuole alla pasticceria, allora posso andare in un altro posto».
«Lo credi davvero?» La sua mascella si contrasse dalla frustrazione e i suoi occhi si socchiusero, minacciosi. «Ti faremo causa. Ti faremo causa e non troverai mai più un lavoro. Mai».
«Non ti capisco. Non capisco perché sei così pieno d’odio. Perché fai così?»
«Mi sta ricattando!» urlò, battendo il pugno sul tavolo, ogni sillaba era impregnata di furia. «Quello stupido bastardo mi sta ricattando e non vincerà».
Sobbalzai, il volume violento della sua promessa mi fece irrigidire.
Mio padre usava la cinta su di noi, quando eravamo bambini, ma mamma l’aveva fatto smettere quando avevo dieci anni. Da allora non aveva più alzato un dito su di me, ma la follia nel suo sguardo mi diede motivo di sospettare che potesse provare a rifarlo.
«Vuoi stare con un uomo del genere?» Si alzò e mi caricò, costringendomi a indietreggiare di parecchi passi incerti. «Eh? Un uomo disposto a ricattare il tuo stesso padre? Dici che io sono dispotico? Io non sono niente, niente in confronto a quel malvagio figlio di puttana».
Incrociai le braccia, abbracciandomi, allontanandomi un centimetro alla volta da lui. «Cosa stai dicendo? Come fa a ricattarti?»
«Questo non è importante». Si coprì la bocca con mano tremante, pulendosi le labbra. Qualcosa nel suo gesto mi fece pensare che fosse in preda al panico. «Non lo capisci? Sto cercando di salvarti».
«Non ho bisogno di essere salvata». Feci un altro passo indietro, prontissima ad andarmene. Prontissima a farla finita con tutto ciò. «Non ho mai avuto bisogno di essere salvata».
«Ma davvero? Allora di cosa pensi di aver bisogno, Jennifer?»
«Quello di cui ho bisogno non puoi darmelo tu».
Sobbalzò, raddrizzandosi. Mio padre faticava a trovare le parole e alla fine disse: «Tua mamma e io, noi ti amiamo. Come può non significare niente, dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?»
Lo fissai e, per la prima volta, fu come se lo vedessi realmente. Lui non mi amava. Usava la parola amore come un’arma, come un mezzo per controllarmi, come un modo per assicurarsi la mia cieca obbedienza.
Lui insozzava quella parola.
Lui non mi amava.
Lui amava i soldi che guadagnavo nella pasticceria.
Lui amava lo stile di vita confortevole che mamma aveva costruito.
Lui amava il suo stato e la sua reputazione.
Mi tornarono in mente le parole di Cletus di così tante settimane fa: Tuo padre è orribile, e non parlo solo del suo aspetto.
Aveva ragione. Aveva davvero ragione. Ne avevo abbastanza di lui e di quanto fosse orribile.
«Addio» dissi semplicemente, e lo intendevo davvero.
Mio padre doveva aver colto la verità del mio addio perché mi guardò sbattendo le palpebre, preso alla sprovvista, esterrefatto. La sua bocca si apriva e chiudeva, come se fosse troppo scioccato per rispondere.
Approfittando della sua sorpresa, me ne andai in fretta. Ma riuscii a trattenere le lacrime a malapena quanto bastava per uscire dalla cucina, correre alla porta e volare lungo il vialetto.
Iniziai a piangere sulla strada principale, quando realizzai di essermi lasciata alle spalle le mie scarpe.
E tutte le lettere dei miei amici di penna.
E mia madre.
E la sola casa che avessi mai conosciuto.