Capitolo 4

“I più grandi segreti sono sempre nascosti nei posti più improbabili.

Coloro che non credono nella magia non potranno mai trovarla.”

- Roald Dahl

Cletus

Mi serviva un minuto.

Durante quel minuto, feci elenchi vari ed eventuali. Elenchi su elenchi.

Jennifer Sylvester sembrava aver compreso che non ero ancora incline a parlare, per cui mi diede il minuto che mi serviva. Apprezzai il suo silenzio. Alla fine, il battito del mio cuore rallentò fino a un tranquillo e normale intervallo di pulsazioni e i puntini rossi della rabbia che punteggiavano la mia vista sparirono. Non avrei perso le staffe.

«Dunque...» Mi schiarii la gola, assumendo l’aria più calma possibile considerando che questa debole marionettina minacciava di mandare a monte in un sol colpo mesi di meticolosi, per non dire rischiosi, sforzi.

«Dunque» squittì lei, schiarendosi la gola a sua volta, ma non aggiunse altro. I suoi occhi erano incollati sulle sue unghie lunghe e rosa, che stava affondando nei jeans all’altezza del ginocchio.

La esaminai minuziosamente. Era chiaramente nervosa, spaventata, persino. Il suo carattere di poco fa sembrava si stesse disintegrando. Quella messinscena da donna sicura di sé era stata del tutto fuori dal personaggio della docile e umile Jennifer Sylvester.

Bisognava ammettere che non la conoscevo molto bene. Non ne avevo bisogno. Lei era una persona debole. Come la maggior parte delle persone che conoscevano i suoi genitori, sentivo una certa pietà per lei, anche se mi godevo enormemente la sua torta alla banana. Preparava anche un ottimo pane al lievito naturale, muffin alle zucchine e quiche.

A dire il vero, ogni cosa che cucinava, e che io avevo provato fino ad allora, era deliziosa fino all’ultimo morso. Aveva un dono. I suoi numerosi fiocchi blu e i grandi trofei con cui era stata premiata alla Fiera dello stato erano meritati. Ma era anche un avversario semplice. Era completamente schiacciata sotto il tallone della sua ambiziosa madre e del suo zelantemente irragionevole padre. Il modo in cui l’avevano cresciuta unito al suo debole temperamento faceva di lei uno strumento, un mezzo per raggiungere un fine.

E questo era triste.

Ma non erano nemmeno affari miei.

Come viveva la sua vita, o come permetteva agli altri di viverla per lei, non erano affari miei. Avevo appeso il mantello al chiodo, avevo rinunciato a salvare cause perse. Le persone non volevano essere salvate. Tutti i miei sforzi per intromettermi erano ora concentrati sulla mia famiglia e sul renderla felice, che a loro piacesse o no.

Il che mi riportò al presente e alla volubile Jennifer Sylvester. Il suo disagio era una buona svolta per me.

Mi preparai a sfoderare il mio cenno di assenso austero. «Ascolta, Jennifer, non credo tu voglia davvero andare fino in fondo.»

Le sue dita si contrassero sulle sue gambe, lei alzò il mento, poi parlò a denti stretti. «Non dirmi cosa voglio.»

Ok. Approccio errato.

Provai qualcos’altro, abbassando la voce fino a suonare sinistro. «Dammi la tua parola che cancellerai il video e potremo dimenticarci di tutto questo.»

Tra le sue sopracciglia apparvero due rughette scontente. «È troppo tardi, ormai.» Ebbi l’impressione che non stesse parlando con me. «E poi, non mi fido della tua parola. Perdonare e dimenticare? Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così. No… Voglio andare fino in fondo.»

La fissai, probabilmente a bocca spalancata. Ero sconcertato.

Prima o poi ti vendicherai, tu sei fatto così.

Come poteva saperlo? Mi appoggiai allo schienale e fissai fuori dal parabrezza, e nel frattempo molto di quello che sapevo dell’ordine dell’universo trovava un nuovo assetto. Forse Jennifer Sylvester non era poi così debole. Forse Jennifer Sylvester era agguerrita.

Non ha alcun senso. Nessuno è tanto bravo a fingersi un opossum. Beh… nessuno tranne me.

In passato avevo spesso pensato che assomigliasse a un cucciolo trascurato, desideroso di compiacere gli altri. Questo aveva reso difficile restare ad assistere al modo in cui era trattata dai suoi parenti. Così, avevo smesso di guardare.

I miei occhi scivolarono di lato e la esaminarono di nuovo. La mascella di Jennifer era stretta dalla determinazione, la fermezza le aveva reso affilata la piccola collina del mento. Il suo volto era solitamente triste o timido.

Un pizzico di senso di colpa divampò, come una vecchia ferita. Lo spensi velocemente, improvvisamente ansioso di porre fine a questa peculiare conversazione e tornare a un mondo che aveva senso.

«Va bene, cos’è che vuoi?» chiesi senza girarci intorno, rinunciando a ogni finzione. «Perché sono qui fuori? Perché hai girato quel video e cosa intendi farci?»

Lei esalò un sospiro tremante e poi mi guardò. I suoi occhi erano in ombra, per via della visiera del berretto. Mi sembrava di ricordare che Beau una volta aveva detto che i suoi occhi erano viola. Avevo liquidato quell’affermazione perché, a meno che Jennifer non fosse albina, cosa che non era, le sue iridi non potevano essere viola.

In ogni caso, non l’avevo mai notato prima, ma la forma dei suoi occhi era sorprendentemente attraente. In quel momento, costretto a rivalutare quanto conoscessi di quella donna, mi sorpresi a cercare di scoprire il colore delle sue iridi mentre lei parlava.

«Non l’ho registrato apposta. Ero lì per riprendere lo sceriffo per una… Beh, questo non ha importanza. Ma non ti ho registrato di proposito. Quando ho riguardato il video, più tardi, dopo aver sentito quanto era successo alla stazione, è stato allora che ho realizzato che c’eri anche tu.»

«Ok, va bene. Ti credo. Non mi hai registrato intenzionalmente. E ora?»

«Ho bisogno del tuo aiuto» disse, con tono più dolce, timido; i suoi occhi erano spalancati e speranzosi.

Questa era la Jennifer Sylvester che conoscevo, non quella di granito e col fegato.

«Uhm…» Socchiusi le palpebre, scontento della possibilità che quella donna potesse avere due facce. Di regola, non credevo ai lati nascosti, ove lati nascosti indicava qualità ammirevoli ma precedentemente passate inosservate. Io notavo ogni cosa nella mia osservazione.

Lati costruiti? Sì.

Lati camuffati? Forse.

Ma non nascosti.

Jennifer deglutì nervosamente sotto il mio esame. Colsi il tremore appena accennato delle sue mani prima che le stringesse a pugno.

«Cosa vuoi?» chiesi. Sarebbe stato inutile menare il can per l’aia.

Lei raccolse una gran quantità d’aria nei polmoni, chiuse gli occhi e poi ruggì: «Voglio un marito.»

Mi accigliai.

Lei aprì un occhio.

Io sbattei le palpebre.

Lei aprì l’altro occhio.

Aprii le labbra per chiedere un chiarimento, ma poi ci riflettei e cambiai idea, e mi tappai la bocca.

«Uhm...» Feci un cenno d’assenso estremamente austero.

Ancora una volta mi aveva colto di sorpresa. Jennifer Sylvester non era agguerrita. Era più pazza di un impasto impazzito.

«Già» continuai ad annuire, spostando la mia attenzione sull’oscurità oltre il parabrezza, poi ripetei: «Già.»

«Tu pensi che io sia pazza» disse d’un fiato, afferrandomi il braccio e stringendolo come se io fossi un salvagente.

«Sì. Sì, lo penso.»

Un verso di disperazione le sfuggì dalla gola, poi disse: «Voglio un bambino.»

Oh Dio santo!

Chiusi gli occhi, aggrottando il volto e scuotendo la testa. «Stai scherzando, vero? Ha organizzato tutto Jethro? Vuole vendicarsi perché l’ho costretto a raccontare la storia delle gemelle Tanner a Natale.»

«No. Non è uno scherzo. So che sembro una pazza, lo sembro anche a me stessa. Voglio dire, ho ventidue anni e vivo a casa con mamma e papà. Guardami. Sono una barzelletta. Sono la signora della torta alla banana. Nessuno vuole sposare la signora della torta alla banana. Però, Cletus, io lavoro almeno settanta ore alla settimana. Quando potrei mai incontrare qualcuno che non conosco già? Qualcuno che non mi ritiene una barzelletta? E poi mio padre non mi permetterebbe mai di uscire di casa se sapesse che sto andando a un appuntamento.» La voce di Jennifer si incrinò dall’emozione.

Cavolo. Sta per mettersi a piangere.

Era un’eventualità che andava scongiurata. Misi la mano sulle sue a le strinsi una volta.

«Su, su.» È alla frutta quando una torta alla frutta. «Calmati...»

«Non dirmi di calmarmi!» strillò, strappando via le mani. «Sono sempre calma. Faccio sempre quello che mi dicono di fare. Voglio solo questa cosa, quest’unica cosa per me stessa. Non è quello che vogliono tutti, trovare qualcuno? Non mi serve l’amore, mi basta il semplice rispetto. E la maggior parte delle persone non vuole forse una famiglia? Allora perché è sbagliato quando sono io a volerla? Perché fa di me una pazza?»

«Non è il fatto che la vuoi a far di te una pazza. È la parte in cui mi ricatti perché ti sposi e faccia un figlio con te che mi fa dubitare della tua sanità mentale.»

Jennifer raddrizzò la schiena, le sue labbra piene si aprirono in quella che mi sembrò dapprima confusione e poi orrore. «Oh no, Cletus. No, no. Non voglio sposare te. No, non te. Mi hai fraintesa, voglio che tu mi trovi un marito. Non ti sposerei mai.»

Non sapendo se a questa rivelazione dovesse seguire sollievo o risentimento da parte mia, fissai la signorina Jennifer Sylvester in completo sconcerto.

Lei sbuffò con una risata stanca e si nascose il volto tra le mani. «Scusami, mi è uscita davvero male.»

«No, ti è uscita giusta. Nemmeno io vorrei sposarmi.»

Lei rise ancora, questa volta sembrò un tantino isterica. «Sai, sei sempre stato molto spiritoso.»

«Come fai a dirlo?» La guardai contrariato. Era una domanda seria. «A quanto ricordo, non ci siamo mai parlati direttamente prima di ora.»

«Sì, ma io ascolto.» La sua risposta mi giunse attutita da dietro le sue dita. «Nessuno parla con me, allora ascolto.»

«Jennifer, non stai migliorando la tua situazione, a meno che tu non intenda sembrare una pazza maniaca.»

Lei rise di nuovo, meno isterica, ma forse un po’ più disperata, mentre lasciava ricadere indietro la testa sul poggiatesta. «Forse sono una pazza maniaca. Forse non è destino che abbia una famiglia. Forse sono una causa persa. E, se così fosse, a me sta bene. Ma devo provarci.»

Jennifer riportò gli occhi nei miei. Anche nell’ombra del suo cappello la profondità della sua tristezza e della sua risolutezza mi lasciarono sbigottito. «E tu mi aiuterai a farlo.»