“Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute vanno scivolando sott’acqua, quasi del tutto invisibili, e nascoste perfidamente sotto le più amabili tinte d’azzurro.”
- Herman Melville, Moby Dick
«Com’è possibile che una trasmissione costi tanto? Non ho tutti questi soldi da spendere in una nuova trasmissione!»
Nonostante i miei migliori propositi, avrei dovuto dire a Deveron Stokes una menzogna.
«Il conto non è solo per la trasmissione. Le faremo uno sconto su quello, signor Stokes. Ecco, qui, vede? La sua marmitta ha bisogno di nuovi cuscinetti. E il fluido dei battistrada era quasi finito, è pericoloso. Per non parlare delle candele del telaio e della manovella tutta ridacchiata.»
Manovella ridacchiata era una novità. Me l’ero inventata su due piedi. Beau era più bravo di me in queste cose, ma in questo momento non c’era. Il cretino.
Deveron sospirò, guardando il conto sul bancone tra noi e sbattendo le palpebre velocemente. La sua espressione aggrottata si fece più accentuata. Scosse la testa. «Allora, d’accordo. Voglio dire, immagino che alla macchina serva un bel po’ di lavoro. Apprezzo lo sconto sulla trasmissione».
Io annuii, con un cenno austero. Ero bravo ad annuire con cenni austeri. Era probabilmente il mio cenno migliore e meglio ricevuto. Le persone si tranquillizzavano sempre quando glielo rivolgevo, per cui ne facevo un ampio uso.
Il signor Stokes alzò lo sguardo. «Sei davvero un amico, Cletus».
Annuii con un cenno austero una seconda volta, ma non dissi niente.
Il signor Stokes non era mio amico.
Il signor Stokes non era una brava persona.
Non pagava l’assegno di mantenimento ai figli da sei anni, ma riusciva sempre a non farsi mancare whiskey, donne e sigarette. Tuttavia, quest’uomo non mi piaceva da ben prima di scoprire questo fatto ripugnante.
Non mi piace giudicare le persone.
Lo adoro.
Decidere di non considerare affatto qualcuno era liberatorio.
Le prime impressioni sono solitamente corrette. Le mie prime impressioni erano sempre corrette. Questo perché utilizzavo un approccio molto scientifico per farmi un’impressione e io ero nato con una logica infallibile. Concedevo dieci minuti. Se non avevo dieci minuti, rimandavo l’idea di farmi un’impressione finché tale lasso di tempo non fosse stato disponibile. Non avevo mai infranto la mia regola dei dieci minuti. Una volta avevo aspettato sei mesi prima di farmi un’opinione sul nuovo pastore perché non ero riuscito a trovare i dieci minuti richiesti.
A mamma non era piaciuto che mi fossi rifiutato di guardare il nuovo pastore durante quei mesi, ma non si poteva piegare o distorcere il metodo scientifico. Era sacro. E dieci minuti erano quanto mi era sempre servito per valutare il carattere di qualsiasi persona.
Per i primi cinque minuti, non guardavo lui o lei. Chiudevo gli occhi o mi studiavo i piedi, o spostavo lo sguardo da un’altra parte. In questo modo non mi facevo subito un’impressione basata sull’aspetto esteriore.
Poi allungavo la mano, ogni singola volta, e giudicavo il tipo di stretta che ricevevo da lui o lei. Troppo molle? Troppo decisa? Esitante?
Ascoltavo la voce della persona e il suo vocabolario, il lessico dei suoi pensieri. Era sicura di sé? Erudita? Pomposa? Quali argomenti tirava fuori? Era interessata a parlare solo di se stessa? O preferiva non essere al centro dell’attenzione?
Dopo cinque minuti in ascolto passivo, interrompevo la conversazione per chiedere che tipo di macchina lui o lei guidasse. Allora, e solo allora, rivolgevo lo sguardo alla persona. La macchina non era importante. Quello che contava era come lui o lei parlava della macchina. Si capiva molto di una persona da come parlava della propria macchina. Era orgogliosa? Imbarazzata? Incerta?
La risposta a tale domanda richiedeva solitamente un tempo compreso tra i dieci secondi e i cinque minuti. Per il termine del monologo sui motori, avevo raggiunto la mia conclusione.
Naturalmente io amavo il prossimo mio. Mamma mi aveva cresciuto come si deve. Senza dubbio comprendevo la saggezza dell’amare il prossimo, del fare agli altri ciò che vorremmo venisse fatto a noi, ed essere gentile per il solo piacere di esserlo. Solo, preferivo amare il prossimo a una certa distanza. Mi piacevano le relazioni a distanza, quelle in cui parlare e ascoltare non accadeva di frequente.
Nella mia vita c’era posto solo per ventiquattro persone (al massimo) e avevo già sei fratelli. Ventiquattro persone significava una media di due compleanni al mese. E nessuno aveva tempo per più di due feste di compleanno al mese. Sarebbe stata una quantità eccessiva di torta di compleanno e io ero molto esigente riguardo le torte.
Ma torniamo a Deveron Stokes e alla sua trasmissione.
Si sfregava il collo, accigliandosi mentre guardava il conto. «Il fatto è, Cletus, che… ecco, io in questo momento non ho i soldi per pagare tutti questi lavori.»
Annuii, più pensieroso che austero. «Allora, Deveron, hai due opzioni. Puoi chiamare un carro attrezzi e far portare via la macchina dal parcheggio a tue spese finché non hai i soldi. O forse possiamo cercare di trovare un accordo.»
La cosa non mi sorprendeva. In realtà, contavo sul fatto che si sarebbe tirato indietro al momento di pagare.
La campanella sopra la porta suonò mentre si apriva, annunciando l’ingresso di un nuovo cliente. Io mi piegai di lato, guardando oltre Deveron per vedere chi fosse entrato.
Era Jethro, il mio fratello più grande. Accanto a lui c’era una donna alta che non riconobbi. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo prima di dedurre troppo in base al suo aspetto esteriore.
«Che genere di accordo?» chiese Deveron, con aria estremamente sfuggente.
«Oh, niente di sconveniente, signor Stokes.» Era un’altra menzogna.
Il signor Stokes lavorava come stiratore alla lavanderia a secco e come cameriere al Front Porch, anche se era pagato in nero e non faceva ufficialmente parte dello staff, un altro trucchetto per non pagare il mantenimento dei figli. In un altro momento, molto più tardi, gli avrei spiegato che il primo dei favori che mi doveva sarebbe stato di cospargere l’uniforme inamidata di Jackson James di polvere pruriginosa. L’agente James aveva commesso l’errore di fermarmi con la macchina, la settimana scorsa, senza alcun valido motivo e in un momento in cui non ero dell’umore per essere fermato.
Una piccola serie di piaghe si sarebbe abbattuta sul vicesceriffo nel corso delle prossime settimane. Avevo considerato di attaccargli la lebbra tramite un’infestazione di armadilli, ma poi avevo scartato l’idea. Magari un’altra volta.
Il signor Stokes deglutì nervosamente. «Allora… immagino si possa fare. Qualunque cosa ti serva, Cletus.»
Presi un mazzo di chiavi da dietro il bancone assieme alle scartoffie per la macchina a noleggio e le piazzai fra noi. «Bene. Ho in mente qualche favore da chiederti. Parleremo dopo dei dettagli, ma ho bisogno che tu me li faccia prima di iniziare a lavorare al tuo furgone. Nel frattempo, ti offrirò con piacere una delle macchine dell’officina al prezzo di dieci dollari al giorno, da pagare in anticipo e in contanti».
Deveron Stokes annuì nervosamente. Non era una brava persona, ma non era nemmeno privo di neuroni. Estrasse il portafoglio, mi tese una banconota da cento dollari (come avevo detto, non si faceva mancare whiskey, donne e sigarette) prese la chiave e le scartoffie. Si girò verso una delle sedie sparse nella piccola sala d’attesa e iniziò a scribacchiare sul foglio.
Tutte le nostre macchine di cortesia erano berline Dogde Neon del 1990. Ne avevo un intero parco, pronte a partire e in buone condizioni per clienti come Deveron Stokes. Avevamo molti clienti come Deveron Stokes. Senza alzare lo sguardo, feci cenno a mio fratello e alla donna alta di avvicinarsi, mentre mi tenevo occupato scrivendo appunti sul preventivo per la riparazione del veicolo del signor Stokes. «Saluti, Jethro. Qual buon vento ti porta nel nostro umile negozio di riparazione di veicoli?»
«Ciao, Cletus. Volevo presentarti Shelly Sullivan. È appena arrivata in città e cerca lavoro come meccanico.»
Mi accigliai in automatico: non perché fossi contrariato, ma perché ero sorpreso. Riuscii a malapena a trattenermi dall’effettuare una valutazione visiva della donna meccanico. Erano una specie rara, che non si vedeva spesso.
«Piacere di conoscerla, signorina Sullivan» dissi al bancone.
«Signor Winston.»
Mi accigliai ancora di più perché la sua voce era… a essere completamente onesti, era strana. Diretta, roca, come se non fosse abituata a parlare e non gradisse farlo. Veniva dal nord. Decisi da Boston. Ma il suo accento era leggero, quasi impercettibile. Mi finsi molto impegnato a controllare il preventivo davanti a me. «Mi dica qualcosa di lei, signorina Sullivan.»
Sapevo che Jethro stava ghignando senza bisogno di alzare lo sguardo. Conosceva bene il mio modus operandi e spesso lo trovava divertente. Non mi avrebbe sorpreso se avesse preparato la signorina Sullivan all’intero processo, perché lei non sembrò per nulla offesa dalla mancanza di contatto visivo diretto.
«Faccio lavori di saldatura da quando avevo quattordici anni e riparo macchine più o meno da allora. Ho imparato da sola tutto quello che so, ho appreso sperimentando sul campo o facendo ricerche. E sono molto brava.»
Alzai le sopracciglia, aspettando che continuasse. Non lo fece.
«Altro?» la invitai.
«Niente di rilevante» rispose.
Nonostante la mia tendenza a controllare strettamente tutte le mie espressioni esteriori, sorrisi. Mi piacque come aveva usato la parola rilevante. Implicava che considerava cosa fosse rilevante prima di fornire volontariamente informazioni. Era una cosa che non si poteva insegnare alla gente.
Jethro intervenne. «Ti ricordi Quinn Sullivan? Il marito di Janie, l’amica di Ashley? Quella rossa molto carina?»
«Quinn non è una rossa carina. A quanto ricordo, lui ha una bella chioma di capelli castani.»
«No, scemo» brontolò Jethro. «Janie era la rossa carina, non Quinn. Shelly è la sorella di lui.»
«Ah.» Annuii, senza alzare lo sguardo. Non mi dispiaceva il nepotismo, l’importante era che le sue radici fossero ben consolidate nella meritocrazia. Quinn era un tipo pratico, che preferiva agire piuttosto che sprecare parole. Mi piaceva abbastanza. Se fosse vissuto nei paraggi, forse sarei andato alla sua festa di compleanno.
Era giunto il momento di stringerle la mano, per cui le tesi la mia e lei vi fece scivolare il palmo. Aveva una mano grande, per una donna, lunghe dita irruvidite da calli. La sua stretta era decisa, coincisa e sicura di sé. Ma io notai distrattamente questi dettagli, perché una misteriosa scossa di qualcosa mi risalì il braccio non appena la nostra pelle si toccò.
Violai le mie sacre regole scientifiche perché ero sorpreso.
Alzai lo sguardo. Alzai lo sguardo e guardai la signorina Shelly Sullivan.
E per l’oscillatore a vapore di Tesla! Era una donna bellissima.
«Perché fai quella faccia?» Jethro agitò l’indice di fronte ai miei occhi.
Non mi piacque. Gli afferrai il dito e, torcendolo, lo scacciai.
«Quale faccia?»
«Come se fossi arrabbiato e costipato. So che non sei costipato. Bevi quel tuo disgustoso caffè ogni mattina con l’aceto di mele e lo sciroppo d’acero.»
«Non è sciroppo d’acero.»
«Miele, scusa.» Alzò le spalle.
«È melassa nera grezza. L’unica somiglianza tra il miele e la melassa è la loro viscosità.»
«Sì, va bene». Alzò di nuovo le spalle. «Perché fai quella faccia?»
«Ovviamente perché sono irritato» brontolai. Non brontolavo in pubblico se potevo evitarlo, lo facevo solo di fronte alla mia famiglia perché mi fidavo di loro… il più delle volte.
«Perché sei irritato?» Jethro continuò a punzecchiarmi e io avvertii un sorriso tra le sue parole. «Non ti piace la signorina Sullivan?»
Contro la mia volontà, i miei occhi si spostarono verso il punto in cui la donna alta e il mio fratello più piccolo Duane erano piegati sotto il cofano di una Ford Focus. La studiai. La sua espressione era assorta mentre lo ascoltava, il suo atteggiamento mostrava sicurezza e naturalezza. Non pensava che al lavoro. Sì. Ancora perfetta.
«Naturalmente mi piace la signorina Sullivan.»
«Quanto ti piace?»
«Molto.» Feci una smorfia. Non facevo nemmeno le smorfie, in pubblico. Ma non avevo smesso di farne una dietro l’altra da quando lei era arrivata. Non era un buon momento per incontrare la donna della propria vita. Avevo troppo da fare, troppa carne al fuoco. Alcuni esempi:
1. Giocarmi la rivincita a shuffleboard con il giudice Payton sabato.
2. A ottobre avevo un talent show a Nashville e non avevo ancora iniziato con le prove.
3. A novembre c’era il matrimonio di Jethro e Sienna.
4. Verso il Ringraziamento, sarei dovuto andare in Texas: le mie riserve di salsiccia di cinghiale selvatico erano pericolosamente scarse.
5. Entro Natale, dovevo smantellare e annientare una pericolosa organizzazione criminale con l’aiuto dei fratelli King… solo che mi stavano aiutando a loro insaputa.
6. Domenica dovevo preparare il sugo per gli spaghetti.
Jethro ridacchiò e mi mise una fastidiosissima mano sulla spalla. «Beh, che io sia...»
«Un babbuino con la dissenteria.»
Rise più forte. «Non avrei mai pensato di vedere questo giorno. Sei cotto».
«Già» ammisi senza problemi, perché era la verità. Per i miei standard, ero bello cotto. Inutile negarlo. Se si prendevano in esame i fatti, io e Shelly Sullivan eravamo una accoppiata perfetta. Era una questione di scienza.
Lei era un meccanico. Era diretta. Era intelligente. Era competente. Non sembrava avesse sentimenti che potevano essere feriti. Era chiaramente oculata nella scelta delle sue frequentazioni.
Inoltre, come bonus, quando avevo alzato lo sguardo troppo prematuramente durante la presentazione e avevo incontrato i suoi occhi, dalla sua bocca erano uscite, molto prosaicamente, le seguenti parole: «Che strano. Come fate voi Winston a essere tutti così belli?»
Capite? Era diretta.
A me piaceva il suo aspetto e a lei piaceva il mio. Era solo una questione di tempo. Saremmo stati perfettamente pratici, insieme.
«Se ti sei preso una cotta, perché sei irritato?»
«Perché non mi sbaglio mai. E questo significa che Shelly Sullivan è la donna giusta. E quello attuale non è un buon momento per me per incontrare la donna giusta.»
Il sorriso di Jethro sparì e alzò quasi gli occhi al cielo. Quasi. Ma si fermò appena in tempo, probabilmente perché sapeva che non tolleravo le alzate di occhi al cielo.
«Oh, fratello mio. Una donna non può piacerti e basta, senza essere per forza la donna della tua vita?»
«No.»
«Sono cavolate, Cletus. Sei stato con altre donne e nessuna di quelle era la donna giusta».
Lo fissai in cagnesco, senza alcuna intenzione di spiegargli l’ovvio. Chiaramente mio fratello non capiva il concetto di ricerca: l’importanza di raccogliere dati, la necessità di sperimentare teorie e l’importanza dell’analisi post-coitale. Alcune cose non si possono scoprire in laboratorio. Conoscere qualcosa nella teoria non serve a niente se non si ha esperienza con l’applicazione nella vita reale.
«Forse lei non è la donna giusta» suggerì, forse sfinito dalla mia occhiataccia silenziosa. «Probabilmente sei solo attratto da una signorina eccezionalmente bella. Non ci hai pensato?»
«No. Lei è la donna giusta per me.»
«Mamma diceva sempre che il tuo problema è che ti fissi sulle cose. Quando ti metti in testa qualcosa, non riesci a smettere di pensarci. Uno di questi giorni, questo tuo prendere decisioni troppo in fretta ti farà finire in un mucchio di guai».
Gli risposi con un grugnito evasivo. La nostra mamma diceva spesso che ero un “fissato”. Aveva ragione. Ero un fissato. Mi fissavo. Mi concentravo. Era un buon tratto caratteriale in quanto riuscivo sempre a raggiungere senza troppe difficoltà un obiettivo, una volta fissatolo. Ma era un pessimo tratto caratteriale perché a volte non riuscivo a smettere di concentrarmi su qualcosa, nemmeno quando avrei voluto farlo.
«Perché deve essere tutto o bianco o nero?» insistette Jethro. «Perché ogni persona deve essere uno zero o un dieci nella tua scala di valori? Forse lei è un sette, o un quattro.»
Alzai le spalle. «Non ho tempo per quattro o sette, ho troppe cose da fare. Se qualcuno non è un dieci, allora è uno zero».
Sospirò sonoramente, sembrava una camera d’aria che si sgonfiava. Non un suono molto genuino. «Va bene, come vuoi. Fai come ti pare. Tanto fai sempre come ti pare».
«Lo farò. Ora, cos’è che vuoi?»
Alzò un sopracciglio. «Cosa vuoi dire?»
«Se sei ancora qui a bighellonare, non lo fai per l’aria buona. Vuoi chiedermi un favore.»
Il sopracciglio si abbassò e ora Jethro stava stringendo le palpebre, sospettoso, il che significava che avevo ragione.
«Come fai a sapere queste cose?»
«Io so tutto. Chiedi, allora. Ho da fare.»
«Stai già pianificando le nozze?» Mi punzecchiò Jethro.
Socchiusi le palpebre a mia volta, non apprezzavo i suoi punzecchiamenti. «Qualcosa del genere.»
Colse la mia irritazione e cambiò argomento. «E va bene. Senti, Sienna...»
«Vuoi dire la tua futura sposa».
«Sì, Sienna...»
«Dovresti chiamarla la tua futura sposa.»
«Cosa? Perché?»
«Perché lei è questo per te. Io sono tuo fratello e allora tu dici ‘Mio fratello’. Sienna è la tua fidanzata e futura sposa e ha meritato questo titolo nella tua vita. Sopporta il tuo brutto muso e le tue pessime maniere, il minimo che tu possa fare è chiamarla con il titolo appropriato».
Jethro fece un fischio basso prima di dire: «Caspita, allora sei davvero irritato.»
«Mi sto solo meritando il mio titolo di fratello. Ora, torniamo alla tua promessa sposa».
«Va bene, vecchio mutandone. Allora, la mia futura sposa e io ci trasferiamo nella rimessa dei carri quando torna a casa, la prossima settimana.»
«Non le piace vivere con noi?» Ero dispiaciuto. Mi piaceva Sienna. Mi faceva ridere e spesso mi sorprendeva con pagliacciate e scherzetti. Poche persone erano capaci di sorprendermi. «È per i turni al bagno? Non le piace l’idea?»
«No. Non le dispiace, anzi, voleva inserire anche lei il suo turno nella programmazione.»
Sorrisi. «Divertente».
Jethro si accigliò. «No, non è divertente. E non dirlo nemmeno. Non mi piace vivere con Sien...» Si interruppe, sbuffando, appena mi vide alzare le sopracciglia nella sua direzione, e ricominciò da capo. «Non mi piace vivere con la mia futura sposa e i miei cinque fratelli, ognuno dei quali si è più che meritato il titolo, nella mia vita. Per cui ci trasferiamo nella rimessa dei carri.»
«Non vivi con cinque fratelli. Roscoe è tornato alla scuola dei cavalli.»
«Vuoi dire la facoltà di veterinaria».
Annuii con un cenno. «È quello che ho detto, no? E Duane e Jessica partiranno prima del Ringraziamento per l’Italia. E chi lo sa quando torneranno? Quindi vivresti con solo tre dei tuoi fratelli».
Lui ignorò questo dettaglio. «Tornando alla rimessa dei carri. Posso fare io il lavoro grosso, finire la struttura di sostegno e il resto. Ma ho bisogno del tuo aiuto con i lavoretti: mettere su il cartongesso, far passare i cavi nei muri. Se avessi più tempo a disposizione, non te lo chiederei».
Scacciai la sua spiegazione con una mano. «Perché non ti trasferisci a casa di Claire? Non te l’ha offerta prima di lasciare la città?»
Claire McClure era, sotto tutti gli aspetti, una persona di alta qualità. Un dieci senza dubbio. Avevo dovuto sudare sette camicie, ma ero riuscito a indurla con l’inganno a partecipare con me a un talent show a Nashville il mese prossimo. Lei avrebbe cantato e io avrei suonato il banjo. Non volevo vincere il talent show, ma volevo comprare una macchina da uno dei giudici.
Era la gemella perfetta di una macchina già in mio possesso, e la volevo. La macchina era troppo vistosa, non si mimetizzava, tutti sapevano che apparteneva a me e pertanto possederne una seconda mi avrebbe permesso di essere in due posti diversi contemporaneamente.
Sfortunatamente, il giudice non sapeva ancora di volermela vendere.
Claire era anche una buona amica di Jethro, ma si era trasferita da poco a Nashville dopo aver accettato una cattedra, anche se era solo una delle ragioni. Il vero motivo per cui aveva lasciato la città era per evitare mio fratello Billy. Ma questa è una storia troppo lunga e troppo deprimente.
«Sì, Claire mi ha offerto casa sua. Ma non mi piace l’idea di lasciare completamente la nostra proprietà. Dopotutto, è casa mia. Mamma l’ha lasciata a me. E io voglio che i nostri figli ci vivano fin dalla nascita.»
«Hai intenzione di avere dei bambini la settimana prossima?»
Gli occhi di Jethro si allontanarono dai miei e iniziò a muovere nervoso i piedi, mentre un sorriso compiaciuto e colpevole gli si dipingeva in volto.
E io capii.
«Aspetta un attimo...»
Jethro si premette un dito sulle labbra. «Shhhhh...»
«Sienna è incinta!»
«Piano!» Jethro mi tappò con la sua fastidiosissima mano la bocca, accompagnando al gesto uno sguardo severo. «Tappati la bocca».
«Erfrenmafma» dissi. Era una parola senza senso, naturalmente. La sua mano mi copriva la bocca, dunque non potevo parlare.
Lui socchiuse le palpebre, ammonendomi silenziosamente e poi abbassò la mano. «Cos’hai detto?»
«Era ora che mettessi incinta quella donna».
«Cletus. Siamo fidanzati ufficialmente da solo due mesi.»
«Lo so, ho tenuto il conto. Beh...» Mi sfregai le mani: era un’ottima notizia. La migliore delle notizie. «Quando iniziamo con la rimessa? Stasera? Aggiungeremo una stanza per il bambino. Giallo è un bel colore. Forse questo spingerà Ashley e Drew a darsi una mossa. Io sarò il padrino, naturalmente. Cletus è un bel nome.»
A quel punto lui alzò gli occhi al cielo, ma sorrise anche. Gli concessi l’alzata di occhi perché aveva appena creato un discendente Winston. «Se ti piacciono così tanto i bambini, perché non ne fai qualcuno di tuo?»
Il mio buon umore si smorzò. Non fu un annichilimento completo della mia felicità, ma una leggera attenuazione.
«Oh, io non avrò mai bambini» risposi, ma prima che lui potesse pensare bene o troppo a lungo a quanto avevo detto, aggiunsi, con un sorriso eloquente: «Ma questo non significa che non possa viziare i tuoi.»