Capitolo 18

“Amore alle labbra era un tocco

Dolce quanto reggevo;

E parve una volta troppo;

Io dell’aria vivevo”

- Robert Frost

Cletus

Le sue labbra erano morbide e deliziose. Cazzo, quanto erano deliziose.

Se fossi stato in condizione di pensare, sarei rimasto sorpreso dalla sua reattività, da come aveva avvolto le braccia attorno al mio collo, era entrata completamente nel mio spazio personale e aveva incollato completamente sia la sua bocca che il suo corpo contro i miei. Da come voleva essere il più vicina possibile anche se io ero freddo e sporco, e lei era calda e pulita. Ma non ero in condizione di pensare. Ero solo in condizione di bramare. Ero in condizione di soddisfare desideri.

Alzai la testa per mordicchiarle piano il labbro inferiore, per passarci poi sopra la lingua. E volevo assaggiare di più di lei, ogni parte di me lo pretendeva. Lei gemette, sollevando il mento, schiudendo la bocca e spostandosi senza sosta. Leccai tra le sue labbra e la sua dolce lingua saettò fuori, sfiorando la mia.

E sostanzialmente, bastò quello. Fu tutto ciò che ci volle a farmi perdere la ragione.

Ricatturai la sua bocca, incurante della sua inesperienza, e la divorai come desideravo fare da settimane. La assaporai da ogni angolazione. Feci scivolare le mani lungo il suo corpo, traendo piacere dalla sensazione delle sue curve e della sua cedevole flessuosità.

La feci indietreggiare in cucina, fermandomi quando le sue gambe incontrarono il bancone. Le afferrai il fondoschiena, la sollevai sul piano da lavoro e mi misi in mezzo alle sue ginocchia aperte. Lei annaspava, ansimava pesantemente, mi affondava le unghie nella pelle della nuca e nelle spalle. Era eccitata e la sua eccitazione alimentava la mia follia.

Nelle mie fantasie, a quel punto le avrei infilato le mani sotto la gonna, l’avrei sollevata facendo strisciare la punta delle dita su per le sue cosce mentre lei si sbottonava il davanti del vestito. Poi mi sarei piegato in avanti e…

Sì, insomma. Poi le cose sarebbero progredite.

I lampi peccaminosi di quella fantasia erano un eccellente promemoria del vecchio adagio: troppo, troppo presto. Forse lei mi avrebbe permesso di toccarla. Se l’avesse fatto, allora sarebbe venuta, a gambe spalancate, col vestito aperto. Avrebbe palpitato attorno alle mie dita sul bancone della cucina dove preparava le sue torte.

Se ne sarebbe pentita, dopo? Probabilmente sì.

Io me ne sarei pentito… per lo più.

Ma una parte di me non l’avrebbe fatto. Una parte di me avrebbe fatto tesoro di quel ricordo prezioso. Una parte di me avrebbe insistito per avere di più, per stenderla sulla schiena mentre era ancora confusa e sopraffatta. Le avrebbe sollevato le gambe per metterle sulle mie spalle, con una carezza lievissima avrebbe passato le dita all’interno delle cosce, facendola rabbrividire; avrei assaporato la sua eccitazione sulla mia lingua, le sue palpitazioni sulle mie labbra, e l’avrei portata di nuovo all’orgasmo. Avrei fatto tesoro anche di quel ricordo. E forse, avrei voluto ancora di più.

Forse mi sarei abbassato i pantaloni e l’avrei riempita, l’avrei presa, l’avrei fatta mia.

Perché lei si fida di me, e me lo permetterebbe, e si sentirebbe così divinamente bene, così eccitata e così mia…

«Cazzo.»

Le diedi le spalle, strappando la bocca dalla sua, a malapena riuscii a sottrarmi all’impeto delle mie cattive intenzioni. Tremavo, bruciavo ed ero davvero duro. La cucina era troppo stretta, lo spazio soffocante, il ritmo del suo respiro mi riempiva le orecchie, come un faro gentile e allettante. Non avevo il totale controllo di me, non ancora, e odiavo non avere il controllo.

M’incamminai con decisione verso la porta, la aprii e uscii. Una folata glaciale del vento tardo autunnale fu una distrazione benvenuta e mi aiutò a tornare lucido. Ironicamente, proprio la stessa ossessione che mi aveva condotto a questo momento era all’origine della mia attuale lucidità, alla fine.

Era tempo di un discorsetto severo. Chiaramente mi serviva una bella ramanzina e un incisivo promemoria che mi ricordasse cosa diavolo stessi facendo.

Il solo scopo della mia presenza lì, di quelle lezioni, era di aiutare quella donna a imparare come camminare con le proprie gambe, come compiere le sue scelte, e non compierle io per lei. Non sarei diventato l’ennesima persona di cui si fidava e che prendeva senza chiedere, che prendeva per lei le decisioni e alimentava il vuoto della sua ignoranza.

Tu non farai lo stronzo, Cletus Byron Winston. Non te ne approfitterai. Non lo farai.

«Perché ti sei fermato?»

Una breve esplosione di risate mi sfuggì dal petto. Lei era proprio dietro di me. Non l’avevo sentita avvicinarsi. Avevo le difese abbassate, per cui risposi senza artifici.

«Credimi, se fossi stata una qualsiasi altra donna non l’avrei fatto.» Una volta che le parole mi furono uscite, un dolore sordo si espanse nel mio petto. Ebbi la strana e fugace impressione che il cuore mi si stesse scagliando contro le costole, in cerca del suo.

«La pratica… giusto.» Sembrava che Jennifer parlasse a se stessa. La sentii fare un passo strascicato all’indietro.

Scossi la testa, ma non la corressi. Seguì un momento di tensione, durante il quale io mi tirai il labbro inferiore tra i denti, e sentii anche lì il suo sapore. Pensai per un momento di raccontarle una menzogna, ovvero che le serviva un altro po’ di pratica con i baci.

Lei ruppe il silenzio schiarendosi la gola. «Torna dentro. Ho, uhm, qualcosa da darti. Vuoi un tè o del caffè?»

Mi salì l’acidità allo stomaco sentendo l’allegria forzata nella sua voce. Quando fui certo che non correvo il rischio di saltarle addosso nuovamente, questo finché fossi riuscito a mantenere le distanze, mi girai e la seguii in cucina, chiudendo a chiave la porta dietro di me.

Jenn spinse verso di me una biscottiera a forma di gatto, poi si voltò per mettere l’acqua a bollire sul fornello. «Ho bisogno che tu mangi questi biscotti.»

Io adocchiai la biscottiera. «Sembra uno di quei gatti giapponesi portafortuna.»

«Un maneki neko. Sì. La zampa si muove, vedi?» Jennifer toccò lievemente la zampa e, subito il gatto portabiscotti la agitò.

«Dove l’hai preso?» chiesi, sorprendendomi da solo perché volevo realmente saperlo.

«Mangia i biscotti. Me l’ha mandato una mia amica di penna.» Ancora non aveva incontrato il mio sguardo, si teneva occupata in attività a caso, come pulire il bancone con uno strofinaccio o ordinarmi di mangiare i biscotti. Non mi piaceva la sfumatura cinerea della sua pelle o la linea rigida delle sue labbra.

«Ci è stata? In Giappone?» Presi un biscotto dalla cima della pila nella biscottiera e ne assaggiai un morso, però riuscii a fermarmi prima di gemere di piacere. Il biscotto aveva esattamente lo stesso sapore di Jennifer. Sapeva di vaniglia e noce moscata e meraviglia.

«No. Lei è giapponese. Vive lì. Devi mangiare tutti i biscotti, ora.» Il tono di Jenn era inusualmente piatto, i suoi occhi erano fissi sulla teiera davanti a lei.

Una fitta strana, come nostalgica ma anche carica di frustrazione, mi spinse a riflettere sulla scelta delle mie parole successive. Volevo vedere i suoi occhi ma lei non me li concedeva.

«Perché?» chiesi.

«Perché cosa?»

Ne presi altri due. «Perché devo mangiare tutti i biscotti?»

«Perché sì.»

Perché sì. Non offrì altra spiegazione. E ora guardava accigliata la teiera. Il suo mento tremò e quella vista spinse il mio cuore a scagliarsi nuovamente contro le costole. Digrignai i denti, lei strinse le labbra in una linea testarda.

Era infelice. Io l’avevo resa infelice. Rendere Jennifer infelice era ufficialmente la sensazione peggiore al mondo, al primo posto insieme al deludere mio fratello Billy e vedere mia sorella piangere.

Per cui buttai fuori, senza pensare: «Hai mai fatto una verticale di biscotti?»

Lei scosse la testa, tirando su col naso, e si voltò per prendere due tazze.

«Cos’è?» La sua voce era spezzata.

«È come una verticale di birra, ma con i biscotti.»

I suoi movimenti si bloccarono. Sbatté le palpebre. Un nuovo cipiglio le affiorò sulla fronte, ma questo era assorto, non triste.

«Intendi quando le persone fanno la verticale e bevono così la birra?»

«Esatto. Ma con i biscotti.»

«Sembra una pessima idea.»

«Almeno non ti cadono le briciole sulla maglietta.» Addentai il terzo biscotto.

«Sì… ma,» Jenn scosse la testa, mentre un sorriso esitante si impadroniva delle sue labbra sensuali, «poi ti andrebbero su per il naso.»

«Quella è la parte migliore. Le puoi tenere per dopo.»

Lei fece una buffa espressione di disgusto e scosse la testa. I suoi occhi balzarono nei miei per una frazione di secondo e poi si allontanarono, posandosi sui fornelli per recuperare l’acqua.

Passò un altro minuto prima che dicesse: «Se vuoi fare una verticale di biscotti, ti tengo io per le gambe. Perché ne hai ancora un sacco da mangiare».

Io alzai un sopracciglio guardando la biscottiera. Aveva ragione. Secondo la sua richiesta, avevo ancora una dozzina di biscotti da mandare giù. Non erano una tonnellata, ma erano più che abbastanza.

«Spiegami di nuovo perché devo mangiare tutti i biscotti.»

«In fondo al barattolo c’è una cosa che voglio darti.»

«Perché non li rovesci tutti fuori e basta?»

Jenn torse le labbra da un lato; i suoi occhi, rivolti verso il basso, si accesero per una qualche emozione e poi lei sbuffò. «Va bene. Se non vuoi i miei biscotti, li butto via e basta.»

Ebbi l’impressione che non si stesse riferendo solo ai biscotti. Ma prima che potessi farle domande, lei prese la biscottiera. Con movimenti scattosi e agitati, rovesciò i deliziosi biscotti alla vaniglia sul bancone e frugò tra essi per recuperare quattro chiavette USB grigie lunghe un paio di centimetri, poi spazzò via con un braccio tutti i biscotti in un bidone della spazzatura in attesa lì accanto.

Io emisi un verso di sorpresa, a bocca spalancata.

«Buon Dio, donna. Hai appena buttato via quei biscotti squisiti?»

Lei ignorò la domanda, digrignando i denti, e spinse le chiavette USB verso di me. «Tieni, sono tue.»

«Ma di che cosa parli?» La mia mente stava ancora elaborando la perdita di quegli eccezionali biscotti. Potrei non riprendermi mai più.

Finalmente, finalmente, lei sollevò gli occhi nei miei e quello che vi vidi mi colpì come un pugno nello stomaco. Erano di ghiaccio e di fuoco insieme, rossi e azzurri, furibondi e addolorati.

«Il video in cui tu prendi le prove è in queste chiavette. Le avevo nascoste qui dentro, nella cucina. Ora sono tue. Non le voglio più.»

La mia bocca mi si spalancò così come gli occhi. La fissai sbalordito, un’espressione non comune per me, continuando a spostare lo sguardo tra lei e gli oggettini di tecnologia lunghi due centimetri che avrebbero potuto segnare la mia rovina.

«Avevi salvato il video su delle chiavette.» Non era una domanda, era la rivelazione di quanto eclatantemente mi fossi sbagliato.

Pensavo che il mio amico di Chicago avesse cancellato ogni traccia di quella prova. Non era così. Era stata lei ad avere il controllo per tutto il tempo. E lo aveva ancora. Era lei che stava decidendo che il nostro accordo era concluso. Non io.

Non io.

Il cuore mi tuonava tra le orecchie, spronato dal panico. Era una sensazione simile a quella che si prova nei secondi prima di uno schianto frontale, in cui si vede l’altra macchina arrivare ma non si può fare niente per impedire quanto sta per succedere.

Jenn inclinò il mento, in una posa di sfida, e si mise le mani sui fianchi. «Non voglio più il tuo aiuto.»

Io sobbalzai con una smorfia, incapace di bloccare quella reazione in tempo perché il mio cuore si stava lanciando di nuovo contro la mia gabbia toracica. Ma riuscii a infondere nel mio tono una calma gentilezza, quando chiesi: «E se io volessi aiutarti?»

«No, grazie» rispose lei con fermezza, scuotendo la testa e abbassando gli occhi verso le tazze. «Apprezzo che tu mi abbia indirizzata sulla buona strada e abbia sottratto del tempo alla tua vita piena di impegni per… per… dimostrarmi che ciò che voglio io è importante. So che devo ancora fare molta strada. Per usare la metafora di Claire, mi piacerebbe imparare a volare da sola prima di cercare una nuova gabbia.»

La fissai, incapace di muovermi, mi sentivo duplicemente fiero e abbattuto.

Non sono pronto. Non sono pronto a lasciarla volare via.

«Dato che i biscotti non ci sono più, il tè non serve.» Sembrava distratta e si stava accigliando di nuovo. Sbrigativa, si voltò e rimise le tazze sulla mensola, poi si pulì le mani sul grembiule senza che ce ne fosse bisogno. «Ho delle cose da finire in negozio, quindi ti lascio, sai dov’è l’uscita.»

Jenn mi rivolse un sorriso cortese, ma non fece risalire lo sguardo oltre il mio collo. A passi leggeri, uscì dalla cucina per entrare nel negozio.

Io rimasi completamente immobile, fissando il punto in cui lei era sparita, in ascolto. Diversamente dall’ultima volta in cui mi aveva abbandonato senza tante cerimonie perché me ne andassi da solo, sentii le sedie grattare sul pavimento, delle chiavi tintinnare, i suoni rivelatori di vetrinette che si aprivano e poi chiudevano.

Cercai delle parole, ma non riuscii a trovarle. Così me ne andai, intontito e confuso dal perché mi sentissi il cuore affranto. Ma non ero realmente confuso. Piuttosto, ero affranto e troppo testardo per ammettere il vero motivo.

Mentre tornavo a casa in macchina, non riuscii a smettere di pensare a lei. Pensai al suo sorriso quando ero arrivato, e alla sua espressione accigliata quando me n’ero andato. Pensai al vestito che indossava. Non era giallo. Pensai al nostro bacio e al perché mi ero fermato. Per la prima volta da tanto tempo, stavo dubitando di me stesso.

Ma soprattutto non riuscivo a scrollarmi di dosso la consapevolezza che Jennifer avesse gettato qualcosa che per me aveva vitale importanza, quando aveva buttato quei biscotti alla vaniglia.

E anche se non ero perfettamente certo di cosa fosse quella cosa, forse non mi sarei mai ripreso.